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Se per la nostra società lo straniero è una questione di sicurezza

9 Maggio 2019 10 min lettura

Se per la nostra società lo straniero è una questione di sicurezza

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La notte di sabato 20 aprile, alla stazione Termini, una lite tra senza dimora è finita con una coltellata. Georgiana la vittima, marocchino l’aggressore. Nel dare la notizia il 23 aprile, Repubblica Roma ci fa sapere dal sommario:

Arrestato l'aggressore, un cittadino marocchino che non ha precedenti per vicende legate alla Jihad. Il ferito, colpito alla gola, non è grave e ha cambiato più volte versioni sull'accaduto. Il pm contesta il reato di tentato omicidio con l'aggravante dell'odio religioso.

Nel titolo si dà rilievo, con tanto di virgolettato, alla vittima ("Io accoltellato perché avevo crocifisso"). Anche se, come viene dato conto nel resto dell’articolo, la versione dell’accoltellato è ancora da chiarire, il titolo non dà spazio a dubbio. E il titolo, si sa, è ciò che veicola il nostro primo sguardo su una notizia.

Proseguendo con la lettura, nello spazio riservato al solito balletto interno alla maggioranza, Salvini (già menzionato nel sommario) si preoccupa di aumentare i controlli in “luoghi di aggregazione islamica” (la stazione Termini vi rientra?), e il M5S ribatte, tramite una lettera di Di Maio a Conte: “Bisogna fare di più sui rimpatri che sono fermi al palo”.

Insomma, tanto è bastato perché nel frattempo – come in una versione per adulti del telefono senza fili – tra agenzie, cronaca locale, cronaca nazionale e Giorgia Meloni si finisse a parlare di jihad.

Come riscontrato poi su Fanpage da Valerio Renzi, la notizia si è diffusa da un comunicato della questura di Roma (“a dire il vero con non particolare enfasi”). A far scattare l’ipotesi di un aggravante per odio religioso è stata una frase riportata da un testimone oculare, secondo cui l’aggressore avrebbe urlato “italiano cattolico di merda” prima di colpire. E la questura, sentita dallo stesso giornalista, ha ridimensionato l’episodio.

Queste distorsioni paranoidi sono ormai all’ordine del giorno, e non certo da oggi. Su Valigia Blu nel 2015, ad esempio, ci occupammo di un caso dove la presenza di un crocifisso trasformò una lite scolastica tra dodicenni in un’aggressione a sfondo religioso, complice la nazionalità di uno dei due (era senegalese). Episodi di cronaca che solitamente sarebbero trascurati, o al limite riguarderebbero la dimensione locale, diventano casi nazionali entro la cornice di uno scontro civiltà – la “loro” verso la “nostra” – o persino del rischio terrorismo.

L’inquadramento stereotipante è ormai una delle spie di come, anche nel quotidiano, la sicurezza e l’ordine pubblico siano diventati temi dominanti quando parliamo di stranieri, specie se non bianchi, o di etnie quali sinti e rom. A Casal Bruciato una famiglia rom, assegnataria di casa popolare, è stata aggredita con insulti e minacce da militanti di CasaPound: "troia", "schifosa", "puttana", "ti stupro" rivolti a una madre coi suoi figli. Sull'accaduto il Ministro dell'Interno, dopo una generica condanna di violenza e minacce "da qualunque parte arrivino", ha specificato che sta preparando,"parlando per l'appunto di sicurezza, un dossier rom". Un commento che di sicuro avrà tranquillizzato la famiglia che deve continuare a vivere a Casal Bruciato anche dopo i fatti degli scorsi giorni.

La sicurezza è la lente sopra i nostri occhi quando guardiamo a chi ci è straniero. E anche quando il linguaggio cerca la strada della razionalità, non può fare a meno di parlare per numero di rimpatri, irregolari, reati. O, come riportato l’anno scorso dall’Istituto Cattaneo, può certificare la dissonanza cognitiva di un intero popolo: solo il 27% degli italiani sa fare una stima precisa del numero di stranieri presenti sul territorio, e al contempo siamo i primi in Europa nel sovrastimarne questa presenza (“lo  scarto tra la percentuale di immigrati presenti in Italia e quella percepita dagli intervistati è maggiore tra chi si definisce di centrodestra o di destra.”)

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Abbiamo accettato a monte l’idea che essere stranieri sia una condizione potenzialmente criminale, che sia normale pensare così. Un pericolo, qualcosa che ci rende meno sicuri.  Oscilliamo tra i ringhi – “stop invasione!” – e la loro versione paternalista – “aiutiamoli a casa loro”, “non possiamo accoglierli tutti”–. Non sono entrambe figlie dell’idea di un insostenibile esodo verso l’Italia, ancora prima di entrare nel merito di qualunque discussione? Senza questo implicito, ci apparirebbero come discorsi sciocchi, non li prenderemmo sul serio a nessun livello. Ci sembra persino umano, di fronte alle navi bloccate fuori dai porti, ragionare in termini di “facciamo sbarcare donne e bambini”, senza nemmeno porci il problema di cosa significa separare le famiglie dopo simili traversate, e certificando l’equazione “maschio adulto straniero = pericolo”.

Chi sparge il veleno del razzismo per facilitarne la digestione lo accompagna poi con vuoti distinguo, come “mica ce l’ho con chi viene in Italia a lavorare, ce l’ho con i clandestini che vengono qua a delinquere”. Un discorso simile presuppone un mondo dove, progettualmente, frotte di persone si organizzano per venire in Italia a compiere reati – presuppone, nella pervasività del tema, che si tratti persino di un’emergenza perenne. Intanto, nel quotidiano, quando saliamo su un autobus e un nero fa per sedersi vicino a noi, lo sguardo casca sul colore sulla pelle, e il parassita della propaganda sussurra nella nostra testa: “Sarà in regola oppure no? Avrà commesso reati oppure no?”. L’abito non fa il monaco, la pelle ormai sì.

Leggi anche >> Cosa prevede il decreto sicurezza e immigrazione, criticità e rischi di incostituzionalità

Così non stupisce che questo governo abbia ufficializzato per decreto l'associazione tra "sicurezza" e "immigrazione" ("la pacchia"). E lo ha fatto con un provvedimento che mina il sistema di accoglienza e integrazione (“la mangiatoia dell’immigrazione”), aggredisce il concetto di protezione umanitaria (tanto non fuggono dalla guerra, no?) e, vigliaccamente, rende più difficile ottenere la cittadinanza (qui però non abbiamo retoriche di comodo) ed estende quindi la zona grigia di attesa e il Pd usa lo stesso linguaggio per criticare il provvedimento, brandendo in Senato cartelli e slogan con scritto “#menosicurezza #piùclandestini”. Identico vocabolario politico, diversa idea di efficacia.

Del resto Minniti, ministro dell’Interno durante il Governo Gentiloni, sul finire dello scorso anno ha dato alle stampe il libro Sicurezza è libertà. Un titolo quasi orwelliano dove l’ex ministro pone in equivalenza due termini che politicamente dovrebbero essere in rapporto dialettico. Va riconosciuto a Minniti un senso delle istituzioni ben diverso da quello del suo successore, così come gli va riconosciuta (almeno nelle intenzioni) l’importanza che attribuisce a ius soli e ius culturae, o all’uscire da una visione di perenne emergenza. Ma la sua visione politica e le sue definizioni di “sicurezza” e “libertà” non chiamano in causa principi universali, ma ragioni particolari. C’è una vasta porzione di mondo che è fuori dalle parole di Minniti, o che è presente solo passivamente, come oggetto problematico da gestire:

“Sicurezza è libertà” è un principio universale, che vale per tutti. Seppure per i ricchi l’impatto, pur essendo in linea di principio molto forte, è meno cogente. Una persona abbiente ha infatti la possibilità di costruirsi un percorso di sicurezza privata, che le garantisca un canale di libertà che deriva dalla forza della sua capacità economica.

Se una persona è molto ricca e non ritiene che ci sia sicurezza nel proprio quartiere, può cambiare quartiere, città, Paese. Noi dobbiamo stare vicino a chi ha comprato una casa con i sacrifici di una vita o non può permettersi di pagare un affitto più alto in un quartiere più sicuro. Dobbiamo stare vicini a chi è più esposto socialmente.

Lo stesso vale quando parla di “umanità e sicurezza”, che richiedono “un punto di incontro che consenta di conciliare questi due aspetti evitando di cedere alla spinta dei populisti verso la direzione privilegiata della sicurezza”:

L’accoglienza è una prerogativa fondamentale di tutte le società aperte. Qualsiasi ipotesi di cancellazione di questo principio dagli elementi fondativi della costituzione europea o di una comunità nazionale è inaccettabile. Tuttavia bisogna dire con altrettanta chiarezza che l’accoglienza ha un limite oggettivo e insuperabile nella capacità di integrazione.

Parole che chiamano in causa la prassi di questo “conciliare”, e quindi, oltre alla discutibile gestione dei rapporti con la Libia, il decreto Minniti-Orlando. Una misura che ha visto abolire un grado di giudizio per i richiedenti asilo, diminuendo i loro diritti, come spiegato persino da due senatori dello stesso Pd, Manconi e Tocci, nell’annunciare il voto contrario. Una misura che non è uscita affatto dalla logica detentiva dei CIE, ma ha seguito l’idea di miglioramento della loro efficienza in ottica per l’appunto securitaria, con i CPR.

Eppure, fuori da questa bolla securitaria, non siamo noi a essere invasi, sono le grandi masse a essere in movimento. Stiamo vivendo una crisi mondiale, una crisi che noi occidentali cerchiamo di guardare il meno possibile nonostante la parola “rifugiato” sia qualcosa che abbiamo creato per noi stessi. Nonostante questa alterità che ci sembra così distante e pericolosa faccia parte della nostra storia. Come ricorda il giornalista Agus Morales in Non siamo rifugiati, è con la Convenzione di Ginevra del 1951, e quindi dopo la Seconda guerra mondiale, che viene coniata la definizione di "rifugiato". L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati fu infatti istituito per gli europei:

Il rifugiato era avvolto da un’aura di prestigio perché era una persona stimabile, perseguitata, che era fuggita dalla barbarie. Adesso la guerra è ormai delocalizzata: e i (non) rifugiati anche. Tre nazioni - Siria, Afghanistan e Somalia - ne raggruppano oltre la metà del totale. L’immensa maggioranza appartiene a paesi in via di sviluppo. Oggi il rifugiato è una persona non europea: non stimabile, perseguitata, che è fuggita dalla barbarie [...].
Non vi sono mai stati tanti rifugiati come adesso.
Non ci sono mai stati tanti rifugiati in nazioni povere come adesso.
Non ci sono mai state tante persone che non sappiamo come definire, ma che fuggono dalla violenza e non hanno protezione.

Ma la geopolitica è una materia complessa, mentre la paura richiede risposte semplici e immediate. Abituati a sentirci in pericolo, persino in "guerra di civiltà", abbiamo finito col tralasciare un aspetto non secondario della sicurezza come discorso dominante. Ossia che è una battaglia condotta sulla percezione, il cui prezzo è però pagato con la cessione di libertà effettive. Ma se fuori dalla bolla securitaria la realtà punta contro i nostri inganni, tanto vale rafforzare gli inganni attraverso la repressione, trovando nuove categorie da inquadrare come straniere, e dunque come oggetti da gestire.

Non è un caso che uno degli elementi di maggior contiguità tra Minniti e Salvini sia nel Daspo urbano, un provvedimento che dagli stadi (Daspo è acronimo di “Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive”) è stato esteso alle città, e grazie al quale prefetti e sindaci possono inibire l’accesso a zone specifiche, in particolare per i centri cittadini. Già nell’ottobre 2017 il sindaco di Firenze, Dario Nardella (Pd), aveva chiesto un inasprimento del Daspo urbano, venendo poi in pratica accontentato da Salvini nel già citato “Decreto sicurezza”.

Si è arrivati così, lo scorso aprile, all’ordinanza della prefettura fiorentina che vieta l’accesso di alcune aree del centro storico a "a soggetti che ne impediscano l'accessibilità e la fruizione con comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di tali aree”, con riferimento ai soggetti denunciati (quindi non rinviati a giudizio o condannati) per “attività illegali in materia di stupefacenti”, “reati contro la persona” o per “danneggiamento di beni”. Il provvedimento segue la linea adottata a Bologna da un altro sindaco del Pd, Vincenzo Merola. Sono provvedimenti che si limitano, con enorme potere esecutivo e discrezionale, a dire “via da qui” a tipologie che è facile considerare devianti e diverse dai normali cittadini: il balordo, lo spacciatore, l’abusivo, il vandalo. Ma il decoro è diventato ormai il volto civico della sicurezza, e ai suoi occhi lo sporco è fatto anche di persone. Così, a forza di voler pulire, a forza di invocare protezione, ci stiamo educando a nuove forme di apartheid, i cui confini sono vaghi e continuamente rinegoziati. Credere che quei confini non possano finire per includerci è solo l'ennesimo inganno.

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Del resto, criticare questa visione si presta all'accusa di essere in qualche modo complici con ciò contro cui ordine, sicurezza o decoro sono invocati. Non è il garantista qualcuno che rallenta l'efficienza apparente delle soluzioni rapide? Guardare alla complessità non è una richiesta di tempo che, agli occhi di chi si sente assediato, dilata il pericolo? Eppure è proprio quando una reale domanda di sicurezza si fa vera e terribile che questa esasperata visione scricchiola vistosamente, lasciando intravedere tra le crepe tutta la sua inefficacia. È accaduto in questi giorni a Napoli, con l'agguato in piazza Nazionale che ha visto tra i feriti anche una bambina di tre anni.

Federico Cafiero de Raho, procuratore antimafia, intervistato da Conchita Sannino, ha sottolineato proprio come l'agguato di piazza Nazionale sia avvenuto in un luogo che si dovrebbe considerare "particolarmente presidiato, dove è impensabile esporsi al rischio di una cattura in flagranza". Invece è andata così, e il tipo di intervento che suggerisce è radicale, e parla col tono dell'emergenza tangibile: “Non basta mandare più agenti. Dal Viminale in giù, serve la risposta dello Stato centrale. Il ministro, il capo della Polizia e della Finanza vengano qui ogni mese”. Eppure, se si escludono le foto di rito accanto ai beni confiscati, o i tweet con #lamafiamifaschifo, la lotta alla mafia è uno dei grandi assenti nel dibattito pubblico che invoca più "sicurezza", a parte il nuovo orco cattivo, la mafia nigeriana.

Foto via Dire.it

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