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Il sistema di potere perde pezzi, ma per ora non c’è alternativa a Putin

12 Ottobre 2022 8 min lettura

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Il sistema di potere perde pezzi, ma per ora non c’è alternativa a Putin

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La guerra in Ucraina entra in una ulteriore, tragica, fase, con l’attacco al ponte che collega la Crimea alla Russia avvenuto lo scorso 8 ottobre a cui è seguito il violento bombardamento sulle principali città ucraine due giorni dopo. L’accelerazione seguita all’offensiva di Kyiv a inizio settembre, che aveva portato alla riconquista dei territori occupati tra febbraio e marzo nella regione di Char’kiv e all’avanzata nel Donbass e sul fronte di Cherson, ha avuto come risposta da parte di Mosca la proclamazione della mobilitazione parziale il 21 settembre, ancora in corso, e la successiva fuga dalla Russia di centinaia di migliaia di uomini intenzionati a non prendere parte alla guerra del Cremlino. Eventi in grado di influire in modo determinante sul corso del conflitto, e anche sulla capacità di tenuta del sistema di potere edificato da Vladimir Putin nei 23 anni al timone della Russia.

Sin dai primi giorni della cosiddetta operazione speciale militare si son rincorse voci e notizie a proposito di malumori al vertice russo, di tentativi di trovare una via per cambiare la linea del Cremlino, e di malattie di ogni genere da cui sarebbe affetto il presidente. Si è però, almeno al momento, spesso trattato di speculazioni basate su alcuni elementi reali e su molto wishful thinking.  Un nucleo di verità è rappresentato dalle modalità di elaborazione e adozione delle principali discussioni da parte di Putin, sempre più ridotte a una stretta cerchia a cui il leader comunica le scelte, senza mediazioni. Il giornalista Andrey Pertsev ha raccolto alcune testimonianze sul cambiamento del rapporto tra Putin e il governo in occasione dei suoi 70 anni, dando spazio a una confessione eloquente di un funzionario ministeriale:  «Fino a poco tempo fa i vicepremier e i ministri erano una specie di Google per il presidente: gli presentava gli scenari che riteneva probabili, e chiedeva:  “E se si agisce così che conseguenze bisogna aspettarsi? E se invece si fa in questo modo poi cosa accadrà?“ Adesso non è più così». 

Ma l’insoddisfazione ai piani medio-alti delle amministrazioni, sia al centro che nelle regioni e nelle repubbliche, al momento non si traduce in opposizione aperta alle decisioni del Cremlino, anche quando si tratta di questioni in grado di mettere a rischio la stabilità a livello locale, come accaduto con le proteste seguite alla mobilitazione speciale, spesso applicata in modo caotico. Nemmeno quando le responsabilità vengono scaricate sui rappresentanti del potere in periferia e sui ministeri lo scontento diventa aperto, anche quando pubblicamente si accusano i governatori di stupidità, come ha fatto il presidente in una riunione con le autorità regionali lo scorso 10 ottobre.

A non aver paura di criticare aspramente la gestione del conflitto, arrivando ad attaccare i comandi delle forze armate e le autorità federali, sono i sostenitori della trasformazione della guerra in una vera opera di distruzione totale dell’Ucraina. Oltre a Ramzan Kadyrov, a Evgenij Prigožin, ad Aleksandr Dugin, a Konstantin Malofeev, iniziano a emergere nuove figure e ulteriori gruppi interessati, in un senso e nell’altro, nel continuare l’impresa avviata il 24 febbraio 2022, vista come una crociata contro l’Occidente, legittimati anche dall’adozione da parte di Putin della propria terminologia. Sono i voenkory, abbreviazione di voennye korrispondenty (corrispondenti di guerra), spesso attivisti provenienti dagli ambienti ultranazionalisti diventati giornalisti dal fronte e dai territori occupati, a essere una delle avanguardie militanti della furia bellicista russa. I canali Telegram dei voenkory nel titolo hanno la Z, marchio della guerra, e migliaia di follower: il più seguito, Operatsiya Z, ha 1.147.280 iscritti. Ai video dei missili e dei droni indirizzati sulle città ucraine, con migliaia di reazioni entusiaste, si alternano clip girate nei luoghi di addestramento dei mobilitati e la testimonianza di una residente russa in Francia, al volante mentre è ferma a rifornirsi a una pompa di benzina, che parla dei problemi degli approvvigionamenti, dovuti agli scioperi, ma poi aggiunge come sia questa la realtà del futuro. Ed è questo settore ad aver appoggiato le critiche di Kadyrov e degli altri esponenti, spesso fornendo ulteriori materiali e facendo girare post dove la gestione del Ministero della Difesa veniva messa sotto accusa. Il video in cui Andrey Kartapolov, presidente della Commissione Difesa della Duma, in collegamento per la trasmissione di Vladimir Solovyov, intimava ai vertici militari di smetterla di mentire e di dire finalmente la verità sui problemi al fronte, ha raccolto nel canale Operatsiya Z circa quindicimila like, a fronte dei meno di dodicimila ottenuti dal conduttore. E il presidente appare particolarmente sensibile alle posizioni dei voenkory, con cui ha avuto almeno tre incontri, il primo pubblico e i successivi a porte chiuse, di cui uno nei giorni precedenti al 21 settembre, giorno in cui è stata annunciata la mobilitazione. 

I media ufficiali hanno poi adottato la linea dei canali Telegram per la Z, lasciandosi andare a polemiche in diretta televisiva impensabili fino a qualche settimana fa; la conduttrice Olga Skabeeva, volto della propaganda mediatica del Cremlino, in un talk-show andato in onda il 5 ottobre ha chiesto provocatoriamente a un ufficiale in studio quanti centri urbani avrebbero perso in quella giornata; Margarita Simonyan in un’altra trasmissione si è domandata se Putin, comandante in capo, fosse al corrente delle sconfitte. 

Posizioni che collimano con quanto declamato dal “partito della guerra”, ne accrescono possibilità e prestigio, ma al tempo stesso contribuiscono a incrinare la “verticale del potere”, pilastro centrale del sistema putiniano costruito nel corso di poco più di un ventennio. Il “cuoco” Evgenij Prigožin, patron della compagnia di mercenari Wagner, non lascia passare settimana senza una dichiarazione, un messaggio, un commento contro i propri avversari all’interno del sistema. Attraverso l’ufficio stampa della holding Konkord, della quale è a capo, l’11 ottobre ha fatto appello ai deputati della Duma, definiti dei “signori chiacchieroni”, ad arruolarsi e andare a combattere o in alternativa prendere vanghe e pale e scavare trincee, un attacco aperto alle frazioni del Partito comunista della Federazione Russa e dei liberaldemocratici nel parlamento, ma soprattuto al presidente Vyacheslav Volodin, tra i più accesi fautori della guerra e uno dei probabili candidati alla successione di Putin. 

La politologa Tatiana Stanovaya ha osservato, a proposito di Prigožin, come questi mesi di guerra siano riusciti a rendere la sua figura, marginale rispetto all’establishment tradizionale del sistema, molto più rilevante di quanto lo era in passato. Se è vero che la sua influenza non va sopravvalutata, come avviene sui media occidentali, secondo l’esperta è impossibile negare la sua vicinanza a Putin, testimoniata anche dal conferimento dell’onorificenza di Eroe della Russia, e il “cuoco” ha guadagnato posizioni, facendo sponda con Kadyrov e altri esponenti della linea per la guerra ad oltranza, e sostenendo la nomina del “generale Armageddon”, ovvero Sergei Surovikin, a comandante in capo dell’operazione speciale. Un prestigio, quello di Prigožin, costruito anche sul campo, dove ama farsi riprendere mentre arringa i detenuti nelle prigioni convincendoli ad arruolarsi nella Wagner o quando li accoglie al ritorno dal fronte, conversando amabilmente seduti attorno a un tavolino in un centro turistico in riva al Mar Nero. Sono apparsi anche manifesti di reclutamento a Krasnoyarsk, in Siberia, con una frase dell’oligarca, dove si invita a combattere in nome della “grandezza della Russia”.

Le vibrazioni all’interno del sistema, causate da attacchi e reazioni fino a poco tempo fa difficilmente immaginabili, inducono a porsi delle domande su chi potrà, in un momento in cui la crisi potrebbe aggravarsi, prendere il posto di Vladimir Putin. Né Kadyrov né Prigožin sembrano poter essere dei candidati in grado di competere seriamente per il Cremlino, nonostante il proprio contributo alla guerra in Ucraina e nel destabilizzare il sistema: benché siano riusciti a conquistare l’appoggio dei voenkory e di settori dei siloviki, si tratta di figure il cui profilo non corrisponde a una eventuale ricostruzione o riforma del sistema, proprio per le caratteristiche di disturbo di cui son dotati. Dmitrij Medvedev, già successore di Putin nel 2007 e poi impopolare primo ministro dal 2012 al 2020, sebbene molto attivo sui social nel minacciare l’apocalisse nucleare, appare giocare una partita già persa in partenza, e condividono la sua sorte altri papabili apparsi in questi mesi, come Volodin, preso nel fuoco incrociato dell’Amministrazione presidenziale e di Prigožin. Sergei Kirienko, abile manager e nel 1998 a capo di un breve governo che avrebbe dovuto portarlo a sostituire Boris Eltsin, ha adoperato le risorse dell’Amministrazione presidenziale, come la Scuola dei governatori, per integrare i territori occupati nell’ordinamento russo, inviando propri uomini nelle località del Donbass. Un profilo tecnocratico (e al tempo stesso macchiato dall’occupazione militare) ma poco carismatico e ancor meno pubblico, e con la grave pecca di non essersi mai misurato, a parte la parentesi di fine anni Novanta, con incarichi politici, a differenza di un personaggio simile per certi versi, l’attuale sindaco di Mosca Sergei Sobianin, che vanta una lunga esperienza a vari livelli delle amministrazioni locali e risultati eccellenti nel governare la capitale. 

Il Washington Post, in un interessante articolo apparso il 6 ottobre, ha provato a mettere in fila le probabili proposte per il dopo Putin, in verità lasciando più domande che risposte, e accennando al ministro dell’Agricoltura Dmitrij Patrushev, figlio di Nikolaj, segretario del Consiglio di Sicurezza e già a capo dell’FSB, come soluzione di compromesso, presentando uno scenario simile all’ascesa dell’inquilino odierno del Cremlino, diventato primo ministro e poi successore di Eltsin nel giro di qualche mese. Uno scenario non del tutto improbabile, ma dove mancano però alcuni elementi fondamentali, dagli equilibri da ridefinire tra i vari gruppi all’interno dell’establishment ai rapporti con i potentati locali nelle regioni e nelle repubbliche, e con la guerra in Ucraina in corso. 

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Abbas Gallyamov, già speechwriter di Putin passato da tempo all’opposizione, in un testo pubblicato dal canale Telegram Mozhem obyasnit’ dopo l’attacco al ponte di Crimea, ha fornito una descrizione degli umori ai vertici della Russia dove si riconoscerebbe l’inevitabilità della sconfitta e la necessità di trovare qualcuno in grado di poter ottenere la pace al posto del presidente, perché vi sarebbe ormai una divaricazione tra i propri interessi e quelli di Putin. Il proseguimento della guerra, a detta dell’analista, potrebbe portare a un crollo rivoluzionario del sistema, ma nessuno muove il primo passo nella direzione di un cambiamento al Cremlino. 

La crescente difficoltà del leader russo a bilanciare gli interessi delle varie fazioni è stata notata anche da altri osservatori, come Anna Arutunyan, ma il processo di sgretolamento della “verticale” appare ancora allo stadio iniziale, perché possibili centri alternativi al sistema attuale sono in fase di formazione o proclamano la propria realtà al presidente, presentandosi come le sue truppe d’assalto. L’aver ripulito il campo da ogni possibile opzione diversa, nei media, nel panorama politico e nella società, usando la repressione e la depoliticizzazione come armi, ha permesso a Putin di poter contare su un potere spesso indiscusso, ma l’entrata della guerra nella realtà quotidiana di milioni di persone in Russia potrebbe indurre accelerazioni improvvise tali da far inclinare ancor di più una verticale da cui cadono i primi pezzi.

Kremlin.ru, CC BY 4.0 via Wikimedia Commons

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