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Quando i dati discriminano: perché decidere cosa e chi contare può aumentare l’ingiustizia sociale

12 Aprile 2024 6 min lettura

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Quando i dati discriminano: perché decidere cosa e chi contare può aumentare l’ingiustizia sociale

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Pubblichiamo un estratto dal libro 'Quando i dati discriminano' (Il Margine) di Donata Columbro.

Nel 2020, la giornalista e premio Pulitzer Mona Chalabi, lavorando sui dati del censimento degli Stati Uniti, si rese conto che non esisteva l’opzione «arabo» nella sezione «razza». Le uniche scelte per chi, come lei, ha origini irachene o proviene dal Nord Africa e da paesi arabi, erano «bianco» o «altro». Già nel 2015, uno studio aveva suggerito di includere la categoria «MENA» (in inglese Medio Oriente e Nord Africa), ma l’ufficio dedicato al censimento nazionale decise di non adottare questa modifica (Chalabi, 2021). Includere o escludere delle persone dalle statistiche ufficiali, e soprattutto dai censimenti, è una delle pratiche discriminatorie che hanno avuto storicamente l’impatto più profondo nel plasmare le società di oggi.

E osservare l’evoluzione del suffragio universale può darci indicazioni su chi siano le persone che «contano» all’interno di uno Stato.

Facciamo un piccolo esercizio di giornalismo dei dati per verificare questa ipotesi. Per condurre un’analisi delle ultime elezioni politiche in Italia si può andare sul sito del Ministero dell’Interno, nella sezione dei dati aperti, e scaricare una cartella in cui è presente un file dove ci sono i dati relativi all’affluenza e ai voti divisi per comune. Aprendolo con un programma per fogli di calcolo potremmo osservare la presenza di diverse colonne, corrispondenti al comportamento degli elettori per ogni comune italiano, le preferenze ottenute dai candidati e dalle candidate, persino la loro data di nascita e il sesso. Ma se volessimo aumentare il livello di analisi e cercare i dati disaggregati per sesso della popolazione elettorale — come abbiamo visto, sono dati importanti per approfondire la conoscenza di un fenomeno o il comporta- mento di un sottogruppo — troveremmo una colonna che contiene il totale degli elettori e una con il totale dei votanti e poi le colonne che riguardano... gli elettori e i votanti «maschi». Per capire quante donne aventi diritto si sono effettivamente recate alle urne dovremmo ricavare i dati con un calcolo aggiuntivo, come se si trattasse di una dimensione di analisi non prevista, che solo le persone davvero interessate avranno la premura di elaborare.

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Dei dati che mancano e di come il gap algoritmico possa discriminare le comunità marginalizzate e oppresse avevo scritto anche a pochi mesi dall’uscita sul mercato delle intelligenze artificiali generative, e questo presunto difetto del database di Eligendo — così si chiama la sezione open data del Ministero dell’Interno che mette a disposizione tutti i risultati delle consultazioni elettorali — è facilmente risolvibile aggiungendo una formula dentro un software di elaborazione dati. Ma potrebbe anche essere una scelta indicativa per mettere in evidenza chi sia l’elettore standard. D’altronde, è solo dal 1946 che le donne in Italia possono votare e alle prime elezioni del neonato Regno d’Italia, che si sono svolte nel 1861, il diritto di voto riguardava solo il 2% della popolazione, dal momento che richiede- va, si legge sulla Treccani, «alti requisiti di censo e di capacità, oltre al requisito di saper leggere e scrivere». Nel 1882 l’età minima fu abbassata da 25 a 21 e si ridussero i requisiti di censo a favore di quelli di capacità (l’aver compiuto con buon esito il corso elementare obbligatorio), portando il rapporto tra elettori e popolazione al 7%. Nel 1912 gli elettori erano il 23% della popolazione, con l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 21 anni che avessero superato «con buon esito l’esame di scuola elementare e tutti i cittadini di età superiore ai trenta anni indipendentemente dal loro grado di istruzione» come riporta sempre la Treccani, e appunto, solo con il referendum che portò all’abrogazione della monarchia poterono recarsi alle urne anche le donne.

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Nel XVIII secolo negli Stati Uniti, all’epoca della loro fondazione, il diritto di voto era generalmente limitato agli uomini bianchi adulti che possedevano delle proprietà, e questo escludeva una gran parte della popolazione, come gli afroamericani e le donne.

La guerra civile americana e il movimento abolizionista furono eventi cruciali in questo periodo e con l’approvazione del XV emendamento il 3 febbraio 1870, tra quelli più importanti ratificati dopo la guerra, si dichiarò finalmente che il diritto di voto non potesse essere negato alle persone a causa della loro razza, del colore della pelle o della precedente condizione di schiavitù. Nella pratica però, molti Stati del sud adottarono dei regolamenti chiamati «leggi Jim Crow», dal nome di un personaggio stereotipato dai connotati razzisti creato dal comico bianco Thomas Rice nel 1832, per impedire agli afroamericani di votare e non solo. Nonostante l’abolizione della schiavitù decretata dal XIII emendamento, i cittadini bianchi della ex Confederazione non l’accettarono e cominciarono a chiedere l’approvazione di leggi per creare una segregazione fisica con i concittadini neri in molti ambiti della vita quotidiana, come le scuole, i mezzi di trasporto condivisi, i ristoranti, i teatri e i bagni pubblici. Queste strutture «separate ma uguali» erano, nella pratica, di qualità nettamente inferiore per gli afroamericani. Per quanto riguarda il diritto di voto, le leggi includevano anche misure per limitare l’accesso alle urne, come delle tasse da pagare per registrarsi come elettori, test di alfabetizzazione e delle disposizioni che escludevano coloro i cui antenati non avevano votato fino agli anni sessanta dell’Ottocento dette «clausole del nonno».

Per oltre cinquant’anni la maggior parte dei cittadini afroamericani visse dentro una segregazione razziale di fatto. Solo nel 1965 il movimento per i diritti civili portò all’approvazione del Voting Rights Act, che mirava a superare queste barriere legali a livello statale e locale. Ma la manipolazione del voto su base demografica e rappresentativa negli Stati Uniti continuò (e continua ancora oggi) con pratiche di gerrymandering, dal nome del governatore del Massachusetts Elbridge Gerry, che fu il primo a metterla in atto nel 1812. Il gerrymandering consiste nella possibilità, per i governi locali, di ridisegnare i confini dei collegi elettorali a propria discrezione in modo da avvantaggiare o sfavorire un particolare partito (Clementi, 2022). Questa pratica diventa discriminatoria quando ad esempio si suddivide un gruppo rilevante di elettori dello stesso partito in tanti diversi distretti, riducendo così il potere delle minoranze o delle comunità più oppresse (O’Loughlin, 1982). Usare i dati per discriminare con mappe e suddivisioni territoriali è stata anche una pratica tipica degli anni Trenta del Novecento durante l’epoca del New Deal. Parliamo del redlining, un approccio discriminatorio legato alla pianificazione urbana e ai servizi bancari, particolarmente diffusa negli Stati Uniti. Il termine redlining deriva dall’uso di mappe su cui i quartieri venivano letteralmente definiti con linee rosse.

Queste aree, spesso abitate da minoranze razziali ed etniche, erano etichettate come «a rischio elevato» o «in-desiderabili» per gli investimenti immobiliari. Di conseguenza, le persone che vivevano in quei quartieri avevano difficoltà a ottenere mutui per acquistare o ristrutturare case, limitando così la loro capacità di costruire patrimonio attraverso la proprietà immobiliare, contribuendo a perpetuare la segregazione razziale ed economica nelle città americane. I quartieri colpiti dal redlining spesso peggioravano, poiché la mancanza di investimenti portava a una diminuzione della qualità delle abitazioni e delle infrastrutture. Questo a sua volta poteva portare a una diminuzione del valore degli immobili, creando un circolo vizioso di impoverimento e degrado che ha effetti anche sulla situazione attuale di certe zone urbane degli Stati Uniti. Secondo un rapporto di Data for Black Lives e Demos il 74% dei quartieri etichettati come «non affidabili» dalle banche durante le pratiche di redlining sono ancora oggi i quartieri a più basso reddito negli Stati Uniti, e ci vive una maggioranza di popolazione non bianca.

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Escludere o rendere difficile l’accesso alla vita pubblica di alcune persone ha degli effetti immediati sulla loro vita, ma anche sull’impatto che hanno tutte le scelte amministrative che le riguardano. Se tengo ai margini una parte di popolazione, ci sarà meno interesse a tenerne «conto» (quindi a raccogliere dati) per migliorare la situazione in cui vive. Oppure, l’unica motivazione per la datificazione delle attività e dei comportamenti che riguardano quei cittadini sarà fatta per mantenere una politica di controllo.

Studiose, attiviste, divulgatrici in Rete

Il panel per VB Live al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.

Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Donata Columbro (Giornalista e scrittrice), Vera Gheno (Sociolinguista), Lilia Giugni (University College of London, University of Cambridge) e Silvia Semenzin (Sociologa digitale) interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell'incontro "Studiose, attiviste, divulgatrici in Rete".

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