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In Italia siamo tutti sempre più poveri

25 Maggio 2025 4 min lettura

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In Italia siamo tutti sempre più poveri

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Pubblichiamo un estratto del libro "Poveri noi. La classe media in bilico" (Il Margine), scritto dalla giornalista Alice Facchini, esperta di diritti, disuguaglianze e ambiente, firma di Valigia Blu e altre testate, tra cui Internazionale, L’Espresso, IrpiMedia, Altreconomia.

È stato lavorando come volontaria per il giornale delle persone senza dimora di Bologna, «Piazza Grande», che sono entrata in contatto per la prima volta con il mondo della povertà. Un concetto che mi sfuggiva, sospeso com’era tra una narrazione romanticizzata — la bellezza delle cose semplici, l’arte di arrangiarsi, il sorriso di chi si accontenta di poco — e la stigmatizzazione di quella che a tutti gli effetti non è una scelta.

I poveri andavano considerati come gli scarti del sistema, da cui prendere le distanze come malati di un morbo contagioso? Oppure erano i nuovi eroi a cui ispirarci quando veniva il momento di rinunciare a qualcosa? Non lo capivo.

Per scoprirlo, andavo a conoscere queste persone di cui tanto si parlava, ma che in pochi lasciavano parlare. Da quel viaggio, iniziato quindici anni fa e non ancora concluso, è nato questo libro.

Era il 2010, la crisi economica colpiva duro e di temi di cui occuparsi, come giornalista sociale, ce n’erano eccome. Senza saperlo, stavamo assistendo in diretta a una mutazione della povertà: a essere poveri non erano più solo quelli nati nella famiglia sbagliata, nel quartiere sbagliato, nella regione sbagliata. In fila alla mensa popolare si vedevano per la prima volta anche liberi professionisti, dipendenti licenziati, ex imprenditori.

Se un tempo l’abbandono di sé era il tratto distintivo che caratterizzava il prototipo del senza dimora — vittima di alcol, sostanze stupefacenti e disturbi psichici — la situazione stava cambiando: c’era un disagio diverso, legato a questioni prettamente economiche. In strada incontravamo persone che si erano ritrovate senza casa da un giorno all’altro, spesso a causa di uno sfratto o della perdita del lavoro. E poi c’erano i migranti, che avevano concluso il loro percorso nei servizi di accoglienza o che ne erano stati espulsi, e che non avevano alcun posto dove stare. Vivere senza casa era solo l’ultimo stadio della povertà. Subito prima c’era chi non aveva i soldi per comprarsi i vestiti, il cibo, o per pagare le bollette.

È stato allora che ho sentito parlare per la prima volta del concetto di «scivolamento», che mi è rimasto impresso come una profonda cicatrice, che non se ne va neanche quando la ferita si è rimarginata.

Me ne parlò un operatore sociale che lavorava sul campo ogni giorno. «La povertà — mi disse — non è uno status in cui si “cade” in modo improvviso. Le persone ci si avvicinano gradualmente, scivolandoci dentro». Gli scivolamenti sono quindi semplici congiunture, scelte sbagliate o sfortunate, che si inanellano una dietro l’altra. Per questo, nel linguaggio tecnico, si parla di «progressività del percorso di marginalizzazione». 

Ho una vita tranquilla, un lavoro, una moglie, un figlio, una casa di proprietà. Un giorno, arriva la crisi economica. La mia azienda è in difficoltà, mi mettono in cassa integrazione: scivolamento. Guadagno meno, quest’anno in vacanza non andiamo all’estero, mia moglie è scontenta, ricomincio a fumare. L’azienda mi comunica che ha personale in esubero, e io sono tra i licenziati: scivolamento. Mi metto a cercare forsennatamente un lavoro, ma ho cinquant’anni, e chi mi assume? Riduco gli acquisti, i comfort, le occasioni sociali. Fumo sempre di più. Nel frattempo, mia moglie mi rinfaccia di non contribuire all’economia familiare, e chiede la separazione: scivolamento. Devo uscire di casa, ma non ho un posto dove andare. Dormo in hotel, da amici, in macchina: scivolamento.

Proprio come la malattia, anche la povertà può capitare a tutti. L’ho capito in quel momento: può iniziare a rosicchiare le nostre finanze, portarci a comprare prodotti più scadenti ma economici, o farci rinviare una visita medica. Può metterci in difficoltà a pagare la bolletta, o la retta dell’università. In tutti i casi, essa comporterà una diseguale accessibilità a opportunità e diritti.

Oggi sono sempre più le persone che vivono la povertà sulla propria pelle. Negli ultimi dieci anni, le famiglie in povertà assoluta in Italia sono passate dal 6,2% all’8,4% del totale. I crescenti divari economici e sociali impattano sulle traiettorie di vita, alimentando un diffuso sentimento di frustrazione, impotenza e perdita di controllo sul proprio futuro.

Le disuguaglianze, comunque, non sono qualcosa di ineluttabile. Piuttosto, si delineano come il risultato di scelte (o non-scelte) della politica, sempre meno interessata a occuparsi dell’intricato sistema di divari che avviluppa la nostra società. Finendo così per esacerbarli in un periodo in cui — al crocevia di crisi multiple e sovrapposte — l’area della vulnerabilità è destinata ad ampliarsi.

C’è un crescente disimpegno pubblico nei servizi sociosanitari. Sia a livello nazionale, sia a livello regionale e comunale. In alcuni territori, gli enti locali si impegnano a mantenere un’offerta per le famiglie fragili, ma in altri contesti la situazione peggiora di anno in anno. La

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frammentazione del welfare di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze fa sì che la cura delle persone più vulnerabili sia scaricata sempre di più su associazioni, cooperative, volontari, famiglie. Con il risultato che le persone hanno accesso a servizi diversi, con qualità differenti.

In un’economia capitalistica globalizzata, la povertà fa parte della storia di ciascuno di noi. Passata, presente o futura. Quanti alberi genealogici si perdono, o si perderanno, nell’oblio dell’indigenza? Non è una questione di colpe: a volte succede e basta, senza che nessuno «se la sia cercata», come si sente spesso ripetere. Per questo i poveri non vanno condannati, né tantomeno evitati, ma piuttosto compresi e sostenuti. Con servizi, strumenti, opportunità. Perché le difficoltà che stanno attraversando potremmo incontrarle — o forse le stiamo già incontrando — tutti noi.

Immagine in anteprima: frame video YouTube

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