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Porno, consenso e abusi: il caso Siffredi e i problemi di un’industria opaca

25 Maggio 2025 10 min lettura

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Porno, consenso e abusi: il caso Siffredi e i problemi di un’industria opaca

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Le recenti accuse di abusi e violenza sessuale mosse a Rocco Siffredi, emerse attraverso una serie di servizi su Le Iene, hanno riacceso un dibattito necessario e spesso rimosso: quello sul consenso e sui limiti dell’autodeterminazione nei contesti di sex work e sulla crescente rappresentazione della violenza nella pornografia contemporanea. Parlare di abusi fisici, psicologici e sessuali in un ambito lavorativo come quello pornografico, infatti, fa emergere contraddizioni profonde e situazioni in cui il consenso viene dato per scontato, considerato implicito o addirittura forzato. A questo si somma una oggettiva difficoltà nel denunciare: mancano tutele legali specifiche e pesa lo stigma che ancora oggi grava su chi lavora nell’industria del porno.

Ma il caso Siffredi non è isolato. È solo uno degli episodi più visibili e recenti di una realtà più volte emersa negli ultimi anni e in cui, nonostante i molti discorsi contemporanei sulla ricerca di una pornografia etica o femminista, diverse dinamiche abusive sembrano strutturalmente tollerate. Inoltre, tanto le storie raccontate al popolare programma Mediaset quanto numerosi reportage, studi e testimonianze sembrano evidenziare in tutto il mondo una pornografia sempre più orientata ad alzare l'asticella della violenza, che veicola come accettabili dinamiche di sopraffazione sessista e che normalizza pratiche non solo degradanti, ma talvolta anche pericolose.

Il caso Siffredi: cosa è emerso

I servizi andati in onda a Le Iene (programma che già lo scorso anno aveva dato spazio ad accuse di molestie di Siffredi, in quel caso nei confronti di una giornalista) a partire dalla puntata dell'8 aprile 2025 raccolgono le testimonianze di diverse persone che appartengono al mondo del porno o che ne hanno fatto parte in passato. Il passaggio comune ai vari racconti (alcuni dei quali suffragati da video, altri da una testimone oculare, altri ancora basati invece sulla sola testimonianza della presunta vittima) è quello in cui a un certo punto un'attrice viene portata, con modalità variabili che vanno dalla continua insistenza alla costrizione fisica vera e propria, a subire atti sessuali, anche molto violenti e dolorosi, a cui non aveva dato il consenso.

Non entreremo nei dettagli delle singole storie, talvolta molto crude, né in quelli degli specifici atti sessuali che, secondo quanto raccontato nelle varie interviste, sarebbero stati imposti, ma è importante sottolineare alcune caratteristiche che emergono. C'è sempre un'attrice giovane e alle prime armi messa di fronte a Siffredi, ovvero un attore, regista, produttore e “pornodivo” celebre e potente, nonché uomo molto più anziano, popolare e celebrato anche al di fuori del suo ambiente; c'è sempre la richiesta di almeno uno specifico atto sessuale a cui la performer in questione aveva negato il consenso (prima o durante l'atto); c'è sempre il momento in cui la donna cede e si rassegna a subire quello che ha più volte cercato di rifiutare. In alcuni casi, si racconta di un accanimento sul corpo delle ragazze. La difesa di Siffredi, sempre ai microfoni del programma, varia da “Nel porno il consensuale non funziona, dal punto di vista scenico e di quello che le persone vogliono vedere” a “Forse in qualche scena avrei potuto fermarmi prima, chiudere prima o provarci di meno”, fino a “Oggi se una donna vuole distruggerti non deve fare altro che inventarsi tutto quello che vuole”. Il divo del porno ha anche inviato una lettera al sito Dagospia in cui dice di star raccogliendo le prove che smentirebbero le testimonianze mandate in onda dal programma, e ha in seguito parlato di "complotto internazionale" contro di lui.

Cosa dice la legge italiana

I set pornografici sono spesso internazionali, con normative e protocolli su consenso e sicurezza variano grandemente a seconda dei paesi. Diverse delle donne che hanno accusato Siffredi sono italiane, ma il territorio su cui si sarebbero svolti i fatti è quello ungherese. Sia la casa di produzione Rocco Siffredi Production, infatti, che la sua “scuola” Siffredi Academy si trovano a Budapest, dove risiede l'ex attore. Tuttavia è interessante vedere cosa prevede la legge italiana in casi come questi e che tipo di azioni possono essere intraprese da chi ritiene di avere subito un abuso sessuale nel contesto della produzione di un contenuto per adulti.

Il diritto penale italiano non prevede alcuna normativa specifica per la pornografia (fatta eccezione per il divieto assoluto di materiale pedopornografico), o che  interpreti il consenso in un contesto pornografico. Inoltre, dal punto di vista delle leggi sul lavoro, i performer per adulti non sono inquadrati giuridicamente e non hanno alcuna tutela specifica. Per denunciare reati come la violenza sessuale occorre rivolgersi alle forze dell’ordine per attivare percorsi di denuncia e di eventuale allontanamento della persona maltrattante, nonché intervenire sul piano lavorativo sollecitando l’applicazione delle norme sulle molestie sul luogo di lavoro. “Nella pratica, l’efficacia di tali strumenti può venire compromessa dalla stigmatizzazione della persona che denuncia poiché questa, proprio in virtù del suo lavoro, può incontrare ostacoli nel far valere i propri diritti, insieme alla paura di non essere creduta”,  spiega a Valigia Blu Marilisa D’Amico, professoressa ordinaria di diritto costituzionale e prorettrice con Delega alla Legalità, Trasparenza e Parità di Diritti presso l’Università degli Studi di Milano

“Valgono quindi le regole generali sulla sussistenza del consenso” prosegue D’Amico, “che deve essere libero, consapevole e revocabile in qualsiasi momento. E a questo si aggiunge un ulteriore elemento essenziale: il consenso deve essere informato”. Ciò significa che la persona che sottoscrive un contratto all’interno dell’industria pornografica deve sapere esattamente a cosa acconsente, in quali condizioni, con quali partner, in che tipo di scena e con quali possibili conseguenze. “Il fatto che una persona abbia accettato, anche attraverso la sottoscrizione di un contratto, di girare scene a contenuto sessualmente esplicito non implica il permanere automatico del consenso per tutta la durata del rapporto sessuale”, spiega D’Amico.

Tuttavia, le specificità del lavoro di performer per contenuti per adulti fa sì che eventuali accordi firmati (o anche filmati, come è d'uso da alcuni anni) prima di girare possano venire meno qualora venga revocato il consenso sul momento, esattamente come accadrebbe nel corso di un rapporto sessuale privato in cui uno dei due partner cambia idea e decide, nel suo pieno diritto legale, di interrompere. Questo rende ancora più fragile la posizione di chi, su un set pornografico, decide di fermarsi, così come ancora più difficile sporgere denuncia più avanti, in caso questa volontà di fermarsi o astenersi da un atto una serie di atti non venisse assecondata. 

“Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è da molto tempo molto chiara” dice D’Amico, “la presunzione del consenso all’atto sessuale non può fondarsi sul comportamento della vittima, che potrebbe aver manifestato forme di collaborazione all’amplesso, oppure trovarsi in uno stato di passività dovuto al contesto stesso dell’offesa; né il consenso può desumersi da comportamenti della persona offesa immediatamente successivi alla violenza subita, che potrebbero essere dettati dalle conseguenze emotive del contesto violento”.  

In sostanza, il fatto che una persona abbia accettato, anche attraverso la sottoscrizione di un contratto, di girare scene a contenuto sessualmente esplicito non implica il permanere automatico del consenso per tutta la durata del rapporto. Se sul set il consenso viene meno, quindi, tutto si deve fermare. 

Un’industria strutturalmente predisposta all’abuso?

In teoria, ogni scena dovrebbe essere preceduta da accordi chiari e consapevoli tra le parti, con ciascunə performer in grado di scegliere in autonomia quali atti mettere in pratica e da cosa invece astenersi. Esattamente come attorə o modellə che hanno libertà di scegliere se fare o meno scene di nudo (o di azione) e, in caso positivo, con quali paletti, anche chi recita su un set pornografico può scegliere quali pratiche sessuali mettere in atto e quali escludere dalle proprie mansioni lavorative. Nei fatti, come abbiamo visto, il confine tra consenso e abuso si fa sfumato: possono pesare le asimmetrie di potere, le pressioni economiche, un traballante quadro normativo (oltretutto diverso da paese a paese), le barriere linguistiche - pensiamo a performer che non padroneggiano la lingua parlata su un set, anche nel momento in cui devono negare o accordare un consenso.

Inoltre, nonostante la giusta rilevanza mediatica data alla molteplicità di voci raccolte dall'ultima inchiesta su Siffredi, storie simili a quelle raccontate erano già emerse in passato, anche per altri divi del porno come Ron Jeremy e James Deen. “Purtroppo, le aggressioni sessuali nell'industria pornografica sembrano ancora essere considerate ‘notizie’ e  trattate dai media come casi isolati, nonostante il numero crescente di nomi noti pubblicamente e collegati ad abusi”, spiega a Valigia Blu Meagan Tyler, senior lecturer in ricerca, educazione e sviluppo presso La Trobe University di Melbourne, specializzata in diseguaglianze di genere e violenza contro le donne. 

In un contesto lavorativo simile diventa quindi difficile non solo riconoscere un consenso autentico ma anche, da spettatori, distinguere una performance recitata da un abuso compiuto davanti ai nostri occhi. In pratica, nonostante chi produce contenuti hard e hardcore parli di sole simulazioni, può non essere così automatico indicare con certezza la differenza tra aggressione sessuale e ciò che l’industria presenta come “consensuale sesso hardcore”.

C’è anche chi sostiene che, nel momento in cui gli interpreti si fanno pagare, allora già quella è una forma di consenso che in un certo senso vincolerebbe ad accettare tutto ciò che avviene. Un concetto recentemente ribadito anche dalla pornostar Valentina Nappi, intervenuta proprio in difesa di Rocco Siffredi. “Dire che essere pagati equivalga ad accettare l’abuso significa, di fatto, ritenere che esistano categorie di donne che non possono mai dire di no, che non hanno alcuna autonomia sessuale e che devono esistere solo per l’uso sessuale maschile”, sostiene Tayler.

Breaking: annientare la resistenza

In questo terreno fertile per la messa in atto di abusi si inserisce poi la crescente popolarità di video e contenuti che normalizzano il sesso più violento e le pratiche di sopraffazione e di stupro simulato a favore di videocamera. Secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Criminology, un titolo su otto tra quelli mostrati in home page alla prima visita dei siti porno più diffusi descrive un'attività sessuale che costituisce violenza. L’aumento e la normalizzazione di pratiche umilianti, brutali e potenzialmente pericolose per le stesse performer compongono un’estetica della violenza che, oltretutto, sembrerebbe plasmare non solo il consumo pornografico, ma anche le aspettative e i comportamenti sessuali nella vita reale

Un sintomo inquietante della pervasività di questo approccio violento alla pornografia è per esempio l'uso frequente del verbo “break” tanto nei racconti di chi ha subito o assistito ad abusi sui set, tanto in quelli di chi ha rivendicato di fare porno con determinate modalità. Poco prima di morire nel 2023, il pornodivo americano Max Hardcore esponeva nel documentario Beyond the fantasy, le sue pratiche di “addestramento” delle attrici, spiegando nel dettaglio come le spingeva oltre i loro limiti, piegandole e sottomettendole. 

Benché letteralmente e comunemente tradotto in italiano come “rompere” o “spezzare”, il verbo to break ha un significato più esteso. Così come si domano i cavalli per renderli docili (horse breaking), una certa pornografia richiede di annientare la resistenza delle donne. “Il processo di breaking” spiega Tyler “è ben documentato in tutta la letteratura che tratta di esperienze delle donne coinvolte in varie forme di prostituzione e tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Si tratta di una tattica ampiamente conosciuta, usata da sfruttatori e trafficanti, che mira a rendere le donne più passive, plasmabili e inclini ad accettare qualsiasi cosa. È probabile che questa pratica esista da tempo anche nell’industria pornografica: ancora una volta, stiamo semplicemente iniziando a prendere più seriamente queste testimonianze, che ora hanno una maggiore visibilità rispetto al passato”.

Esiste un’alternativa etica?

Luna E. Heine è regista e fondatrice del portale Porn Better, piattaforma tedesca che promuove una pornografia basata su rispetto e condizioni eque. Secondo Heine, è possibile fare pornografia in modo diverso, attraverso scelte consapevoli: includere conversazioni sul consenso all’interno delle scene, lavorare con intimacy coordinator, creare trame che escano dal binario del sessismo e dell'eteronormatività. “Come in qualsiasi altro settore, ambito lavorativo o iniziativa, anche chi lavora nel porno porta con sé visioni, convinzioni, stereotipi e pregiudizi personali. Il porno non è la fonte del sessismo, dei comportamenti abusivi o dell’oggettivazione. È un sintomo del sessismo, della misoginia, della feticizzazione delle persone trans, della normalizzazione della violenza e di molte altre patologie della nostra società”, dice a Valigia Blu Heine.

La pornografia mainstream, in pratica, si rivolge al consumatore medio, esattamente come la moda fast fashion, la musica o i film mainstream si rivolgono ai rispettivi pubblici e quando a produrre pornografia sono persone con visioni e convinzioni alternative, progressiste, femministe, queer o attiviste, il risultato può essere diverso. “Questo implica”, prosegue Heine, “che tutta la pornografia mainstream sia cattiva, malvagia o sessista? No. E neppure si può dire che tutta la pornografia indipendente sia migliore. Però oggi si registra una crescente consapevolezza e vari tentativi di formalizzare pratiche di consenso su certi set, grazie alla diversificazione delle persone che producono pornografia”.

Una responsabilità collettiva

Non tutti concordano sulla possibilità di creare una pornografia etica e molte sono le voci che ritengono l'industria pornografia intrinsecamente problematica e i tentativi di cambiarla dall'interno troppo di nicchia. Tuttavia è un fatto che questa nicchia esiste e che sono in aumento i siti e le piattaforme che cercano di sensibilizzare i consumatori e portare avanti una conversazione e una riflessione sui modelli produttivi, sulle forme di rappresentazione e sulle dinamiche di sfruttamento da abbattere. Questa possibilità di evoluzione, infatti, non dipende solo da chi produce i contenuti ma anche da una presa di coscienza da parte di chi ne fruisce: “Il porno, in quanto settore economico, dovrebbe essere soggetto allo stesso scrutinio critico da parte dei consumatori come qualsiasi altra industria”, aggiunge Heine. 

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In pratica, anche i consumatori del porno possono fare una grande differenza, a partire dalla necessità di educarsi e informarsi su cosa si sta guardando e a quali eventuali pratiche criminali e/o violente si sta dando il proprio contributo di spettatori paganti. Sempre secondo la fondatrice di Porn Better, “La pornografia progressista può uscire dalla sua nicchia a patto che un numero sufficiente di persone con una visione progressista della sessualità decida di produrre pornografia (sia davanti che dietro la telecamera) e che un numero sufficiente di consumatori scelga di guardare e pagare per quei contenuti”. 

In conclusione, il caso Siffredi, su cui la giustizia farà il suo corso, è solo il sintomo visibile di una struttura molto più ampia e consolidata. Riguarda il consenso, la rappresentazione della sessualità, la mancanza di tutela per chi lavora nel porno, l'assenza di leggi specifiche per i casi di violenza che riguardano un settore particolare e particolarmente esposto come il sex work. E riguarda soprattutto la nostra responsabilità – come spettatori, cittadini, consumatori – nel non chiudere gli occhi davanti alla violenza, anche quando è confezionata come intrattenimento.

(Immagine anteprima: frame via Le Iene)

 

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