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Giustizia sociale e nuova Costituzione: le proteste in Perù nonostante la repressione brutale fra omicidi e arresti arbitrari

12 Marzo 2023 9 min lettura

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Giustizia sociale e nuova Costituzione: le proteste in Perù nonostante la repressione brutale fra omicidi e arresti arbitrari

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Plaza Dos de Mayo è invasa da migliaia di persone, una scena che si ripete quotidianamente da quando lo scorso 7 dicembre il presidente peruviano Pedro Castillo ha tentato di sciogliere il Congresso ed è stato incarcerato. La piazza, al centro di Lima, viene scossa da applausi e grida: da una delle strade principali della città sta arrivando una delegazione dalla provincia. Sono centinaia di persone, alcuni sono in bicicletta, altri alzano in alto giganteschi striscioni. Camminano da ore, abitano nelle zone di campagna intorno alla capitale peruviana e quando arrivano in piazza sono accolti come eroi. C’è chi li abbraccia e chi gli offre un pasto caldo o acqua fresca. 

Nel paese latinoamericano da due mesi vanno avanti incessantemente le proteste e a guidarle sono proprio i cittadini che abitano nelle zone più rurali e contadine del Perù. E se all’inizio chi è sceso in piazza chiedeva che Castillo venisse liberato, oggi le richieste dei manifestanti sono cambiate: solo fazioni minoritarie protestano per far scarcerare l’ex presidente, ma la maggior parte marcia perché nel paese ci sia maggiore giustizia sociale e perché venga redatta una nuova Costituzione.

Ma non solo. In piazza arriva un ragazzo giovanissimo, indossa abiti tipici delle Ande peruviane e al collo ha un cartello che recita: “Dina assassina, il popolo ti ripudia”. La scritta si riferisce alla ex vicepresidente del governo Castillo, Dina Boluarte, che è stata nominata dal Congresso nuova Presidente del paese. È sotto la sua guida che gli agenti di polizia e i militari hanno represso le proteste nel sangue: i morti riconosciuti ufficialmente dall’inizio delle proteste sono 60, ma le organizzazioni in difesa dei diritti umani stimano che le uccisioni avvenute fino ad oggi siano quasi 80, mentre è impossibile definire il numero di manifestanti feriti (anche in modo gravissimo) e di cittadini detenuti. La repressione si è concentrata soprattutto nelle zone del Sud, più povere e rurali, dove le proteste sono state (e continuano ad essere) fortissime. “L’obiettivo ultimo di tutta questa repressione è eliminare le proteste, generare paura fra i cittadini – afferma a Valigia Blu Cruz Silva, 42 anni, avvocata e coordinatrice dell’istituto peruviano Defensa Legal - Tutti i feriti, le vittime e le detenzioni arbitrarie cercano di silenziare la rivolta, anche se è una protesta legittima e pacifica. Le proteste in questo momento sono l’unico strumento legale che abbiamo per far andare avanti quello che resta della democrazia nel paese. La politica, il Congresso, la polizia non ascoltano i cittadini quindi l’unica cosa che ci rimane sono le piazze”.

Cruz Silva, avvocata impegnata nella difesa dei diritti umani e per questo molto nota nel paese latinoamericano, lo scorso 21 gennaio è stata attaccata da un gruppo di poliziotti. Come conseguenza dell’aggressione ha riportato una grave lesione muscolare. L’attacco è avvenuto durante l’irruzione delle forze dell’ordine nella storica università di Lima San Marcos, un’azione brutale in cui oltre 200 persone sono state detenute e le cui immagini, con decine e decine di cittadini ammanettati e sdraiati a terra, hanno fatto il giro del mondo. “Sono convinta che questo governo debba finire come quello di Fujimori, indagato penalmente per le gravissime violazioni dei diritti umani che ha portato avanti – sostiene l’avvocata - In questo momento se penso al Perù vedo una gigantesca pentola a pressione che può scoppiare da un momento all’altro. La presidente non vuole rinunciare al suo incarico e i manifestanti non sono disposti a fermarsi”. Nonostante le pressioni internazionali e le proteste che continuano a scuotere il paese infatti fino ad ora né la presidente né il Congresso sembrano voler ascoltare i cittadini peruviani e sono già 9 le proposte per anticipare le elezioni che sono state rifiutate.

Dall’inizio delle proteste sia i principali media del paese, sia la classe politica, si sono espressi con epiteti razzisti e denigratori contro chi sta manifestando. Quella peruviana è una rivolta contadina, fatta da centinaia di migliaia di cittadini invisibili per lo Stato che però hanno deciso di paralizzare il paese scendendo in piazza, scioperando sul proprio luogo di lavoro, occupando gli aeroporti e formando ogni giorno almeno 60 blocchi nelle principali strade peruviane. Come osserva Marina Navarro, direttrice esecutiva di Amnesty International Perù: “Esiste un fattore discriminatorio nella brutale repressione delle proteste. Le autorità hanno fatto riferimento ai manifestanti chiamandoli in modo molto offensivo e razzista, dichiarando che non sanno quello che fanno, che vengono manipolati e che sono terroristi. E questo non è accettabile”. Una delegazione di Amnesty International nelle scorse settimane ha visitato le zone più colpite dalla repressione delle forze dell’ordine e ha riportato dati allarmanti. Secondo il report infatti il numero di morti arbitrarie frutto della repressione statale si è concentrato, in numero del tutto sproporzionato, nelle regioni con abitanti per la maggior parte indigeni. Nel totale del paese le popolazioni a maggioranza indigena rappresentano solo il 13% ma nelle regioni abitate dai gruppi autoctoni si concentrano l’80% delle morti registrate dall’inizio della rivolta. Come si legge nel documento: “Le prove sottolineano che le autorità hanno agito con un marcato pregiudizio razzista, accanendosi contro popolazioni storicamente discriminate”.

La disuguaglianza sociale nel paese è fortissima e non passa solo per una discriminazione razziale o di classe ma anche territoriale. La distribuzione della ricchezza e le attenzioni della politica storicamente si concentrano soprattutto nella capitale Lima, dove ogni anno sorgono nuovi quartieri alla moda mentre nella maggior parte delle zone rurali gli abitanti non possono nemmeno contare su un sistema fognario. Come denunciano i manifestanti arrivati a Plaza Dos de Mayo da aree di campagna: “A Lima dall’inizio delle proteste è morto un manifestante e la notizia ha scosso l’intera opinione pubblica, ma nella città di Juliaca (nel sud del paese) in un solo giorno 17 persone sono state uccise e a nessuno è importato nulla. Come è possibile? Ci hanno ucciso come animali”. Secondo l’ultimo rapporto stilato da Oxfam sulla percezione della disuguaglianza nel paese latinoamericano ben il 72% degli intervistati crede che la differenza fra ricchi e poveri sia molto grave e il 61% è convinto che la disuguaglianza fra le città e le zone rurali sia molto profonda, mentre solo il 15% ha dichiarato di avere a disposizione abbastanza soldi per arrivare a fine mese. 

Ma come si è arrivati a questa situazione? Dall’inizio degli anni ’90 in Perù sono state portate avanti una serie di politiche socio-economiche di stampo neoliberista volte a privatizzare la maggior parte di servizi pubblici e a togliere fondi da ospedali, scuole e servizi gratuiti per i cittadini, lasciando invece un grande potere alle aziende (soprattutto a quelle straniere). Ma, come nel caso cileno – paese in cui questo modello dalla forte influenza statunitense è stato instaurato durante il regime di Pinochet – questa impostazione ha avuto un effetto boomerang. Seppure sulla carta sia il Cile che il Perù siano paesi che negli ultimi decenni sono cresciuti dal punto di vista economico, nella realtà la situazione è ben diversa: la ricchezza infatti viene distribuita solo fra una élite molto ristretta della popolazione, mentre la maggior parte degli abitanti continua a vivere sotto la soglia di povertà. Una discriminazione non solo economica e sociale ma che si riflette anche nella repressione militare, come sottolinea Marina Navarro, direttrice esecutiva di Amnesty International Perù: “I poliziotti hanno puntato molte volte direttamente al corpo dei manifestanti, si sono lanciate bombe lacrimogene dagli elicotteri. Dalle autopsie emerge che la maggior parte dei manifestanti è morta per colpi di arma da fuoco. Stiamo parlando di un numero altissimo di persone morte, di civili. È fondamentale che vengano portate avanti le indagini per scoprire chi sono stati i responsabili di queste aggressioni e di queste morti. Si deve scoprire sia chi ha materialmente sparato sia chi ha dato l’ordine di farlo, a tutti i livelli”.

 

Al centro di Plaza Dos de Mayo ci sono due ragazze che, sedute a terra, stanno preparando bottigliette di plastica da distribuire fra i manifestanti: contengono acqua e bicarbonato da usare quando la polizia comincerà a reprimere lanciando lacrimogeni. Poco distante un uomo di circa 50 anni indossa una maglietta con la scritta: “Cierre del Congreso” (chiusura del Congresso). Mentre una donna che indossa abiti tradizionali, sventola un cartello che recita: “Perú, te quiero. Por eso te defiendo” (Perù, ti voglio bene. Per questo ti difendo). E, mentre intorno migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa circondano la piazza, il primo corteo si prepara a marciare. L’uomo che li guida ha un megafono e urla: “Dina Boluarte ha tradito il popolo peruviano. E ora deve rinunciare, per i nostri fratelli e figli che sono stati uccisi o che sono in ospedale e lottano fra la vita e la morte”. 

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In un piccolo appartamento non molto lontano dalla piazza si trova Guillermo. Ha 23 anni e viene dalla provincia di Juliaca, una delle più povere del Perù ed epicentro delle proteste dal giorno del tentativo di golpe di Stato dell’ex presidente Castillo. Guillermo non riesce a parlare. Indossa una felpa viola e jeans stropicciati, tiene le mani poggiate sulle gambe e le stringe forte. Non solleva mai lo sguardo, tiene il capo chino e fissa le proprie dita che si contorcono ogni volta che sente suo padre parlare. Ha i capelli scuri e proprio sotto l’attaccatura dei capelli c’è un grosso cerotto, il suo occhio sinistro è coperto: il ragazzo il 9 gennaio scorso è stato colpito in pieno viso da un proiettile di gomma e ha perso la vista all’occhio sinistro. Nel corso di quella protesta, in un solo giorno a Juliaca sono morte ben 17 persone e, fino ad oggi, non si sa con esattezza quanti siano stati i cittadini feriti. Gli abitanti della città si erano diretti all’aeroporto per bloccarlo e le forze dell’ordine li hanno attaccati con armi da fuoco (oggi le autopsie hanno confermato che tutte le vittime sono morte a causa dei proiettili sparati dai poliziotti), manganelli e bombe lacrimogene lanciate dagli elicotteri.

Il 12 gennaio Guillermo, che per paura delle ritorsioni della polizia preferisce non dichiarare il suo vero nome, è stato trasferito a Lima per ricevere cure da dottori specializzati e, come afferma suo padre, dal primo giorno di ricovero fino all’ultimo sono stati trattati dai medici e dal personale sanitario in modo molto discriminatorio e razzista. I dottori dell’ospedale pubblico hanno assicurato che per il suo occhio non c’è speranza, mentre alla clinica privata hanno detto che potrebbe recuperare la vista sottoponendosi a tre operazioni. Ma la sua famiglia non ha abbastanza soldi: il trattamento costerebbe circa 10mila euro. Che cosa vuol dire perdere la vista per le proprie idee? Uscire di casa per manifestare e tornare senza un occhio? Guillermo non riesce a spiegarlo, non riesce a dire una parola. Continua a guardarsi le mani senza riuscire a testimoniare quello che ha vissuto quel 9 gennaio, l’aver visto decine di persone cadere a terra morte nel giro di pochi minuti, il fischio delle pallottole e il rumore delle bombe lacrimogene lanciate dall’aereo. Non riesce a raccontare quali siano le sue idee e come sia stata la sua vita fino a quel momento, ma sa che è cambiata per sempre. “Mio figlio è giovanissimo, ha ancora tutta la vita davanti – dice suo padre – Quello che più mi fa arrabbiare è che è stato ferito dallo Stato e ora, lo stesso Stato che lo ha accecato a 23 anni, cerca di criminalizzarlo e lo accusa di essere un vandalo e un terrorista”.

Immagine in anteprima e foto nell'articolo: Elena Basso

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