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Come si sta all’opposizione (anche del governo Meloni)

29 Ottobre 2022 19 min lettura

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Come si sta all’opposizione (anche del governo Meloni)

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Il lavoro di opposizione parlamentare, politica e sociale all’inizio di una nuova legislatura è sempre più complicato rispetto alla media. I nuovi governi, infatti, a prescindere dal loro colore politico, vivono un periodo di cosiddetta “luna di miele” generato dalla combinazione tra un elemento percepito di novità rispetto al passato e un fisiologico sentimento di speranza rispetto a un miglioramento delle proprie condizioni di vita personali (oltre che di quelle collettive).

Queste due spinte possono essere condivise anche da segmenti di elettorato che non hanno votato per le forze politiche che sostengono il nuovo governo in carica. 

La durata di questa “luna di miele” non è stabile e, anzi, è sempre più frequente un accorciamento di questa fase di innamoramento precoce (o perlomeno di indulgenza) di segmenti significativi dell’opinione pubblica nei confronti dei nuovi governanti. Di solito si tende a stimare questa fase attorno ai primi cento giorni di attività di un governo, e questa finestra temporale è considerata verosimile tanto a livello nazionale quanto su base locale, soprattutto nei primi mandati dei sindaci o dei presidenti di Regione.

Il caso recentissimo del capitombolo di Liz Truss nel Regno Unito (che, a onor del vero, non è stata indicata Premier come espressione del voto popolare ma come conseguenza delle dimissioni del precedente leader conservatore, Boris Johnson, e della scelta interna ai Tories di un nuovo nome che sostituisse l’uscente. Questo non è un dettaglio marginale nell’analisi), costretta alle dimissioni 45 giorni dopo essere entrata a Downing Street, rappresenta un esempio, seppur estremo, delle conseguenze possibili di scelte sbagliate sul consenso - sia in Parlamento sia nell’opinione pubblica del proprio paese - già nelle prime settimane di mandato. 

Il parallelo Truss-Meloni è però rischioso almeno per tre motivi diversi: in primo luogo l’arrivo di Meloni a Palazzo Chigi è effetto del voto popolare, a differenza di Truss; Meloni non ha esperienze di governo recenti, mentre Truss era nel gabinetto Johnson come Ministra degli Esteri, e quindi l’elemento di speranza legato al suo nuovo ruolo era di molto fiaccato. Inoltre Truss è arrivata a Downing Street in un contesto già molto complesso per il suo partito, dato nettamente indietro rispetto ai laburisti nei sondaggi (la forbice si è andata ulteriormente allargandosi negli ultimi due mesi), mentre il partito di Meloni, Fratelli d’Italia, sta conoscendo un’ulteriore crescita nelle rilevazioni sulle intenzioni di voto, il che rappresenta un tipico ‘sintomo’ dell’inizio della “luna di miele” di cui si parlava prima e di cui Truss evidentemente non ha goduto.

C’è però un possibile parallelo tra le vicende italiane e britanniche: entrambe sono condizionate dalla situazione estremamente complicata dal punto di vista economico, sociale e geopolitico in cui i governi sono chiamati a operare. La necessità di dover prendere decisioni rapide (ad esempio sul costo dell’energia) e le aspettative della popolazione, molto alte anche perché collegate a questo senso di urgenza, potrebbe portare a spostamenti del consenso molto veloci nei confronti di Giorgia Meloni e del suo governo durante i prossimi mesi, tanto in alto quanto in basso.

Fatta questa premessa, andiamo ad analizzare qual è lo scenario politico italiano al momento e come può impattare sull’efficacia delle scelte di comunicazione di chi vuole opporsi a Giorgia Meloni e al suo governo.

Analisi di scenario

1. Al momento il livello di fiducia degli italiani nei confronti di Giorgia Meloni è stimato attorno al 42% (fonte: SWG).

 

È un dato percentuale inferiore alla maggioranza assoluta e ciò non deve sorprendere: la coalizione di destra ha infatti ottenuto 12.3 milioni di voti alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, il che vuol dire che circa 37 milioni di cittadini aventi diritto al voto (cioè il triplo degli elettori della coalizione vincitrice) hanno preferito altri partiti o si sono astenuti.

Leggi anche >> L’Italia attende ancora la riforma della legge elettorale

È importante non dimenticare questi ordini di grandezza reale, perché la composizione del Parlamento, fortemente condizionata dalla distorsione maggioritaria del Rosatellum, oltre che la sovrarappresentazione mediatica di cui inevitabilmente godrà Giorgia Meloni in quanto Presidente del Consiglio, potrebbe lasciar intendere che il centrodestra abbia ottenuto una sorta di plebiscito. In verità non è accaduto, e il livello di fiducia attuale nei confronti della nuova presidente del Consiglio è qui a ricordarcelo.

2. Gli italiani che ritengono che il governo attualmente in carica agirà in modo efficace sono mossi in misura prevalente da un tratto pre-politico: la percezione che Giorgia Meloni sia determinata nell’affrontare i problemi.

Essendo una variabile scollegata dal merito e dai contenuti dell’azione politica, questo plus rappresenta un’arma a doppio taglio: è certamente il motivo principale dell’affermazione personale di Giorgia Meloni, che ha così trainato il suo partito a percentuali mai raggiunte prima alle ultime elezioni politiche (il 26%, a fronte di un numero di voti assoluti in realtà piuttosto basso rispetto alle elezioni politiche del passato: 7.3 milioni), e le garantisce anche una certa copertura di consenso rispetto a decisioni relativamente impopolari, se prese con tempestività.

Allo stesso tempo l’andamento di questa variabile non è (più) nella esclusiva disponibilità di Meloni: chiunque opererà una forma di rallentamento dell’azione di governo andrà infatti a penalizzare prima di tutto lei. Questo è un elemento su cui potranno fare affidamento Berlusconi e Salvini, qualora siano intenzionati a sabotare la nuova leader della destra per recuperare centralità politica (come è parso più volte verosimile sia prima sia dopo le elezioni, e naturalmente con il rischio di sabotare anche loro stessi), così come è prevedibile qualche fisiologico rallentamento nell’azione di governo legata (ad esempio) alle trattative con le parti sociali sui principali provvedimenti di natura economica, al ruolo delle opposizioni (dentro ma soprattutto fuori dai palazzi) e alle nuove dinamiche che l’Italia apporterà alle proprie relazioni internazionali, a partire da quelle con l’Unione Europea.

Infine Giorgia Meloni, come qualsiasi leader di governo, dovrà confrontarsi con il “vero” capo dell’opposizione, mutuando un concetto che Pietrangelo Buttafuoco (storico elettore di Fratelli d’Italia) utilizzò nel 2015 parlando di Matteo Renzi: il dato di realtà.

In questi anni abbiamo assistito alla ripetizione sistematica della crescita rapida e dell’altrettanto rapido crollo del consenso di alcuni leader politici in Italia, in un andamento regolare e quasi sinusoidale: Renzi, Di Maio e Salvini hanno conosciuto stagioni molto simili da questo punto di vista, in una sorta di ribaltamento di una storica massima andreottiana. Oggi, nell’epoca del trasferimento di massa dei voti da un leader all’altro nel giro di pochi mesi, il potere (e i tempi della politica) logora chi ce l’ha. Il livello di ambizione del programma elettorale della destra in una situazione che rende pressoché insostenibile il raggiungimento di tutti gli obiettivi dichiarati in materia economica potrebbe presentare il conto abbastanza rapidamente nel corso della legislatura e favorire la ripetizione della stessa dinamica a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, con leader che si sono rapidamente avvicendati nelle grazie degli italiani.

Tornando a Salvini e Berlusconi, vanno tenute in considerazione anche le ragioni di chi non ha fiducia in questo governo: l’eccessiva continuità con i precedenti governi di centrodestra (corroborata, a mio avviso, dai nomi dei politici che hanno occupato alcuni ministeri di peso) e soprattutto la percezione di conflittualità interna alla coalizione. Quanto più la maggioranza andrà in fibrillazione, tanto più sarà Meloni a pagarne il conto. I leader di Forza Italia e della Lega sono dunque chiamati a decidere se essere collaborativi per il bene della tenuta del Governo, correndo il rischio di essere però via via fagocitati a livello elettorale dalla presidente del Consiglio, o se iniziare un braccio di ferro a distanza con Meloni, che se da un lato andrà a detrimento della leader di Fratelli d’Italia, potrebbe avere però come conseguenza una perdita di consenso dell’intera coalizione.

Su questo fragile equilibrio è verosimile che si giochi buona parte della vita politica italiana nei prossimi mesi. Al momento, in ogni caso, l’opposizione interna appare più pericolosa di quella esterna agli occhi dell’opinione pubblica ed è un dato di fondamentale importanza nell’analisi. 

3. Sebbene Giorgia Meloni sia una “politica di professione”, presente in Parlamento dal 2006 e già ministra (‘per la Gioventù’, tra il maggio del 2008 e il novembre del 2011), è riuscita a rappresentare sé stessa come la vera novità di quest’ultima tornata elettorale. Ciò è stato possibile per due ragioni.

La prima, la più rilevante in una democrazia – sistema politico che per definizione si basa sull’alternanza – è la sua scelta di rimanere all’opposizione di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 11 anni, periodo di tempo in cui tutte le altre principali forze politiche presenti in Parlamento hanno prima o poi avuto un qualche ruolo di Governo, spesso in alleanza tra di loro pur essendo nominalmente avversarie (su tutti i governi Monti del 2011 e Draghi del 2021).

La seconda – che è diretta conseguenza della prima, oltre che di un insufficiente ricambio della classe dirigente – è che gli attuali leader dell’opposizione hanno tutti avuto altissime responsabilità di governo (Conte, Letta e Renzi sono stati presidenti del Consiglio; Calenda è stato ministro dello Sviluppo Economico). Non solo: lo stesso discorso può essere applicato persino alla teorica opposizione interna, dato che Berlusconi e anche Salvini hanno determinato la storia recente della politica italiana da posizioni di governo. 

Oggi Meloni è dunque percepita come l’unica leader nazionale senza responsabilità su ciò che non ha funzionato nella politica italiana negli ultimi dieci anni.

Cosa NON deve fare l’opposizione

Sulla base di questa analisi è possibile dedurre alcune scelte politiche e comunicative adoperate dalle forze avverse a questo Governo che potrebbero risultare scarsamente efficaci.

1. È inutile criticare Giorgia Meloni per i suoi annunci, anche quando essi appaiono irrealistici.

Gli attuali leader di opposizione hanno avuto il tempo e la possibilità di sviluppare una determinata azione di governo, che ha portato ad alcuni risultati. Fino a quando il governo Meloni non arriverà al momento della misurazione dei risultati delle proprie politiche non ci sarà la reale possibilità di una comparazione, e dunque non sarà possibile sviluppare una narrazione che possa convincere gli italiani che questo governo sia peggiore dei precedenti. È troppo presto perché funzioni, e lo sarà ancora per diversi mesi. Questa regola generale sarà valida fino a quando l’opposizione sarà rappresentata da chi ha avuto responsabilità di governo, mentre decadrebbe se queste critiche venissero da chi fosse percepito come ‘più nuovo’ di Meloni e del suo gabinetto.

Non potendo al momento criticare con efficacia Meloni sulle dichiarazioni, la battaglia sui principi resta una valida alternativa (un possibile esempio di dichiarazione: “la flat tax è incostituzionale, ma soprattutto è ingiusta”), anche perché può servire a consolidare il blocco sociale già molto ampio (quasi il 60% degli italiani) che dubita dell’efficacia di Meloni. Allo stesso tempo, finché nei partiti di opposizione non ci sarà un ricambio generazionale inequivoco, è possibile che non esista una correlazione diretta tra l’opposizione sociale e quella politica, e questo potrebbe dunque non causare una crescita del consenso dei partiti che non fanno parte della maggioranza, anche davanti a un governo che dovesse perdere ulteriormente la fiducia dei cittadini.

2. È ancora più inutile, se non addirittura controproducente, criticare Giorgia Meloni per ciò che oggi appare non prioritario per questo governo.

Questo genere di obiezione offre alla presidente del Consiglio la più facile delle risposte: potevate farlo voi quando eravate maggioranza se ci tenevate, e non lo avete fatto.

È una tattica semplicistica, perché è evidente che molti governi non hanno portato a casa riforme attese più a causa dei veti incrociati che della mancanza di volontà dei singoli partiti (si pensi ad esempio alla riforma del diritto di cittadinanza per i figli minorenni di cittadini stranieri), ma questa argomentazione è certamente molto più complessa rispetto al messaggio intuitivo, e molto spesso vero, che la destra può utilizzare in queste circostanze.

Questo rischio di effetto-boomerang vale in primo luogo per il Partito Democratico, che ha partecipato a quasi tutti i governi dal 2011 in poi senza mai aver ottenuto un mandato netto dai cittadini alle elezioni politiche, a differenza di ciò che è accaduto per il centrodestra nell’ultima tornata elettorale. Non è un caso se la retorica della destra tende a definire i governi di coalizione degli ultimi undici anni come ‘governi del PD’, anche se quest’ultimo non ha mai avuto una rappresentanza parlamentare tale da poter dettare l’agenda senza essere pesantemente condizionato dai suoi alleati.

La sostanziale impossibilità di criticare Meloni prima che il Governo renda effettive le prime decisioni emerge su una grande varietà di questioni: dalle politiche di genere (su cui si è creato il corto circuito più evidente, essendo Meloni la prima presidente del consiglio donna) a quelle sui salari e sulla lotta alla povertà, dall’ambiente ai diritti civili, solo per citare i temi al momento che appaiono come meno prioritari per il governo attuale.

Ciò non vuol dire, però, che le opposizioni dovranno abbandonare questi temi: al contrario dovranno mantenere alta la domanda di cambiamento in senso progressista, entrando in contatto con i blocchi sociali sensibili a determinati tipi di istanze affinché diventino sempre più prioritari nel dibattito pubblico, per certi versi a prescindere dalle scelte e dalle mancanze di Giorgia Meloni e del suo esecutivo. Solo in questo modo è possibile obbligare il Governo a tenerne conto, non fosse altro che per motivi di consenso e di tenuta sociale.

La logica, dunque, suggerirebbe una navigazione autonoma rispetto all’agenda della destra, almeno nei primi mesi. Su come si può costruire questa agenda progressista autonoma tornerò più avanti.

L’efficacia di questa tattica della destra è strumentale e andrà via via scemando tanto più tempo la destra sarà al Governo, perché andando avanti nel corso della legislatura calerà l’efficacia nello scaricare le colpe delle cose non fatte sui propri predecessori. Allo stato attuale è però una scelta perfettamente sostenibile dal punto di vista della comunicazione e non aiuta semplicemente la destra a “comprare tempo” ma porta a fiaccare la credibilità dell’opposizione in questa fase (basti pensare allo scambio Meloni-Serracchiani alla Camera sul ruolo delle donne). Bisognerebbe dunque evitare di insistere su questo punto, almeno fino a quando la legislatura non sarà entrata nel vivo.

p.s. Giorgia Meloni sta utilizzando questa tattica non solamente in chiave reattiva, cioè in replica alle critiche dell’opposizione, ma anche in chiave proattiva, per cercare di sottrarre la leadership di contenuto in particolare alla sinistra su alcuni argomenti. Come ha fatto notare Fabio Chiusi sul suo account Facebook, la presidente del Consiglio sta facendo un largo utilizzo dell’aggettivo ‘ideologico’, con accezione negativa, per dire: interverremo su alcuni argomenti, in modo diverso da chi ci ha preceduto, perché chi ci ha preceduto ha estremizzato le posizioni e per questo non ha concluso nulla. Ovviamente questa argomentazione, come fa notare Chiusi, non esclude che le posizioni adottate dall’attuale governo siano ancora più estremiste di quelle criticate, ma “da destra”. 

3. È inutile criticare Giorgia Meloni per alcune inversioni di tendenza (almeno a parole) rispetto ad alcuni elementi politici fondamentali, in primo luogo il suo rapporto con l’Europa e tutto ciò che ne consegue, a partire dalla gestione dei fondi del PNRR.

Anche in questo caso, la fiacchezza di questa argomentazione è direttamente proporzionale al livello di responsabilità che i leader dei partiti di opposizione hanno avuto in passato nelle scelte di Governo. Non c’è infatti alcun partito che oggi possa rivendicare un livello di coerenza sensibilmente maggiore a quello incarnato dalla Meloni governativa di questi giorni.

A titolo di esempio: il Partito Democratico ha cambiato linea in corsa sul reddito di cittadinanza e su molti temi legati ad ambiente e approvvigionamento energetico; Giuseppe Conte ha detto tutto e il suo contrario in questi anni, così come la linea del MoVimento5Stelle è apparsa dipendente dagli alleati di governo di turno più che dal perseguimento di una propria egemonia culturale. Anche Renzi e Calenda, che negli ultimi mesi hanno mantenuto una certa stabilità della propria linea politica, non sono di certo esenti da profonde contraddizioni nella loro carriera (Renzi porta ancora su di sé il fardello reputazionale legato al non aver abbandonato la politica attiva dopo la sconfitta del referendum del 2016, come da lui promesso; Calenda è fresco di uno strappo politico col PD a un mese e mezzo dalle ultime elezioni politiche).

In sintesi: nessun leader nazionale può fare la predica a Meloni, oggi, sulla sua scarsa coerenza. La predica, inoltre, suonerebbe anche piuttosto bizzarra dato che in molti casi è Meloni a essersi avvicinata alla linea politica dei suoi oppositori: bisognerebbe dunque esserne contenti.

4. È inutile incalzare Meloni sulla scarsa presentabilità dei suoi alleati: Berlusconi e Salvini hanno governato con il PD, il M5S e Azione-Italia Viva sino a poche settimane fa.

Questo punto si commenta da solo.

5. È inutile inserirsi nel dibattito interno al centrodestra (qualora fosse conflittuale) per sottolineare i rischi della tenuta dell’esecutivo: quel conflitto appare infatti come il principale punto di fragilità del profilo politico di Meloni in questo momento.

All’opposizione dunque conviene che Meloni, Berlusconi e Salvini litighino tra di loro. Attaccarli perché litigano vorrebbe dire offrire un elemento di minaccia esterna che potrebbe avere l’effetto opposto a quello desiderato, e cioè il ricompattamento della maggioranza davanti alle opposizioni. Questo ragionamento chiaramente è applicabile solo nella misura in cui il conflitto interno alla coalizione di governo non porti alla paralisi dell’esecutivo dal punto di vista dell’azione politica (se l’opposizione non sottolineasse questo aspetto in momenti delicati dal punto di vista economico potrebbe essere accusata di machiavellismo e di cinismo); ma qualora ciò avvenisse, sarebbe sensato attaccare solo la presidente del Consiglio, e non i suoi alleati, considerando che oggi la sua forza è strettamente collegata alla percezione di determinazione che gli italiani le attribuiscono. Laddove quella determinazione venisse meno nei fatti, sarebbe corretto farlo notare.

6. È inutile occuparsi di argomenti identitari per l’opposizione ma al momento assenti tra le priorità percepite dai cittadini.

La reazione sarcastica proveniente da più punti (a partire dalla politica e dai media mainstream) alle critiche sulla scelta di Giorgia Meloni di utilizzare l’articolo determinativo “il” prima della parola “Presidente” è l’esempio più eclatante di cosa può accadere quando si affrontano battaglie più che legittime dal punto di vista dei contenuti ma scollegate dal sentire comune. Il rischio – se non proprio la certezza – è di finire nelle maglie del benaltrismo: “Con tutti i problemi che abbiamo, la sinistra pensa agli articoli determinativi?”

Questa considerazione non deve portare all’abbandono di questa battaglia e anche delle prassi comunicative che possono incarnarla (dalla declinazione in femminile delle parole che indicano i mestieri al possibile uso della schwa per favorire l’utilizzo di un italiano più inclusivo dal punto di vista dell’identità di genere), ma al momento è fortemente sconsigliabile utilizzare questi argomenti nella retorica dell’opposizione politica e parlamentare, mentre è indicato proseguire nel proprio percorso di consapevolezza all’interno della società (anche in questo caso, “a prescindere” da Meloni e dalle sue scelte).

La ricerca SWG già citata in precedenza mostra che il governo Meloni appare al momento poco convincente su argomenti che sono di interesse generale, su tutti l’inflazione e l’emergenza climatica. È su quello, che al momento, conviene fare opposizione.

Cosa può fare l’opposizione

Nelle prossime settimane il Governo potrà godere di un periodo di luna di miele. Sarà pressoché impenetrabile agli attacchi esterni, a causa dei fardelli del passato che l’attuale opposizione si porta dietro; godrà di un ‘periodo di prova’ che gli italiani daranno all’esecutivo prima di poterne misurare i risultati (o l’eventuale inazione), e fino ad allora sarà molto difficile uscire dal consueto mantra del ‘lasciateli lavorare’; sarà portatore di un elemento indiscutibile di novità, e cioè la presenza della prima leader donna a Palazzo Chigi: ciò rappresenterà uno spunto per numerose e continue analisi sul portato simbolico dell’accaduto (e un’altrettanto morbosa attenzione dei media italiani su qualsiasi dettaglio collegato a questo aspetto). Le opzioni sul tavolo, per l’opposizione, saranno dunque molto poche nei prossimi mesi. A mio avviso l’unico percorso possibile durante il periodo di luna di miele passa per un lavoro di riorganizzazione e rigenerazione dei partiti che non fanno parte della maggioranza, che passa per due filoni: il rinnovamento della classe dirigente e il consolidamento di un’agenda politica autonoma dalla destra, su argomenti che Meloni non può o non vuole presidiare.

a. Utilizzare cinque parole lasciate scoperte dalla destra in chiave propositiva ma non rivendicativa delle mancanze del Governo: diritti, povertà, stipendi, giustizia sociale, diseguaglianze.

L’analisi del testo del discorso di Giorgia Meloni alle Camere rappresenta una buona cartina di tornasole sugli argomenti che questo governo non intende presidiare e su cui è possibile, se non proprio doveroso, costruire un’agenda di opposizione politica e sociale. Alcune parole-chiave, riconducibili a temi politici prioritari per il paese, sono infatti del tutto assenti o appaiono in misura insufficiente. Qui ne segnalo cinque:

1. Diritti. La parola appare sole tre volte nelle comunicazioni della nuova presidente del Consiglio alle Camere. In un caso si parla dei diritti fondamentali dei cittadini in materia giudiziaria, in un altro dei ‘diritti e doveri’ di chi è chiamato a governare. Nell’unica circostanza in cui si fa riferimento ai diritti civili, ciò accade in chiave puramente difensiva: “Un governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese. Vedremo alla prova dei fatti, anche su diritti civili e aborto, chi mentiva e chi diceva la verità in campagna elettorale su quali fossero le nostre reali intenzioni.” Insomma, Meloni informa gli italiani che nella migliore delle ipotesi l’Italia resterà ferma dov’è (e cioè molto indietro).

2. Povertà. Anche questo lemma appare solo tre volte e all’interno di un unico paragrafo del testo. In questo paragrafo, per un inquietante paradosso, è presente proprio l’argomentazione utilizzata per giustificare il taglio dei fondi per il reddito di cittadinanza, come annunciato da Meloni in campagna elettorale. In particolare si è deciso di utilizzare una frase di Papa Francesco (“La povertà non si combatte con l’assistenzialismo, la porta della dignità di un uomo è il lavoro”) per sostenere questa tesi. Nella stessa prolusione dell’8 ottobre 2022 il Papa ha anche detto, tra le altre cose, che “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e tutto l’uomo” e “La crescita inclusiva trova il suo punto di partenza in uno sguardo non ripiegato su di sé, libero dalla ricerca della massimizzazione del profitto”. Nessun riferimento a questi concetti è presente nel paragrafo oggetto dell’analisi. 

Inoltre, subito prima di utilizzare il concetto rilanciato nel programma della destra, Francesco aveva affermato: “aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte alle emergenze”, non escludendo dunque l’utilità di uno strumento universale per la lotta alla povertà. Nel discorso di Meloni, però, non appare nessuna alternativa migliorativa al reddito di cittadinanza come misura (anche solo provvisoria) di sostegno a chi perde il lavoro o non riesce a trovarne uno dignitoso. Si tratta del più classico esempio di cherry-picking, realizzato per giunta con le parole di un Papa.

3. Salari/stipendi. Queste parole sono citate una volta sola, in associazione con la necessità dell’adeguamento dei compensi degli insegnanti alla media europea. Non c’è invece alcun riferimento al salario minimo (definito da Meloni ‘uno specchietto per le allodole’ in campagna elettorale’) o a forme di tutela a esso paragonabili.

Nella replica al Senato, Meloni ha fatto riferimento alla necessità di allargare la contrattazione collettiva a categorie di lavoratori che al momento non godono di questo tipo di tutela, ma non ha specificato né a quali lavoratori stesse facendo riferimento, né i tempi di attuazione di questa proposta.

La proposta di taglio del cuneo fiscale, che era comunque in dirittura d’arrivo prima della caduta del governo Draghi, potrà riguardare i lavoratori dipendenti, che però rappresentano solo una parte del sempre più frastagliato e articolato mercato del lavoro.

4. Diseguaglianze. La parola non appare nemmeno una volta nel discorso di Meloni. La parola ‘uguaglianza’ appare una sola volta, per evocare l’Italia (con la Grecia) come ‘culla della cività occidentale’. Niente di contemporaneo, insomma.

5. Giustizia sociale. È un concetto che è stato completamente ignorato da Giorgia Meloni nel suo discorso alle Camere.

Diritti, povertà, salari, diseguaglianze, giustizia sociale. In queste cinque parole-chiave, assenti dalla piattaforma programmatica della destra, si può a mio avviso trovare la strada per fare opposizione.

b. Una nuova classe dirigente, libera dai fardelli delle scelte (e dalle mancanze) dei precedenti governi.

Il rinnovamento della classe dirigente deve passare necessariamente per la creazione di una nuova ‘prima linea’, che non abbia avuto responsabilità politiche nazionali (e nemmeno locali, se fortemente connotate da scelte politiche in contraddizione con l’agenda di contenuti che si intende rappresentare) nel recente passato e che abbia un tasso di credibilità e di preparazione sufficiente per poter tenere testa a una leader come Giorgia Meloni, che di sicuro non pecca di inesperienza politica.

Il congresso nazionale del PD sarà cruciale da questo punto di vista, ma anche il MoVimento5Stelle non può accontentarsi della leadership solitaria di Giuseppe Conte, uomo tanto carismatico quanto gravato da contraddizioni eclatanti durante i suoi anni di attività politica. Anche Carlo Calenda e ancor di più Matteo Renzi, che con l’operazione politica di fusione tra Azione e Italia Viva godono di un maggior ‘effetto novità’, legato alla nascita di un polo di centro nel corso della campagna elettorale delle ultime elezioni politiche, hanno bisogno di far emergere un gruppo dirigente attorno a loro, soprattutto nei primi mesi di esperienza di governo Meloni (ammesso che vogliano restare a lungo all’opposizione, naturalmente): in caso contrario rischierebbero di essere appesantiti dal loro passato. Lo stesso discorso vale anche per Alleanza Verdi e Sinistra che, pur avendo superato la soglia di sbarramento alle ultime elezioni politiche, sono da un lato sottorappresentati in termini di consenso rispetto alla centralità dei temi ambientali nel dibattito pubblico, e in secondo luogo rischiano di avere una crisi di posizionamento, schiacciati tra il M5S e il ‘nuovo’ PD (se ci sarà).

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Concludo provando a dare una risposta alla più classica delle domande che emergono in queste circostanze: è più importante il leader o i contenuti per costruire una buona opposizione? È un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: bisogna lavorare su entrambi gli aspetti in contemporanea.

Ciò a cui non si può rinunciare è di certo una coerenza tra la biografia dei leader e i contenuti politici da essi rappresentati. In caso di mancata identità tra questi due aspetti, anche il più carismatico dei leader non sarà credibile e anche il migliore dei programmi scritti su carta risulterà un libro dei sogni.

Immagine in anteprima via Parents for Future Italia

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