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Molestie sessuali e movimento #metoo: dalla copertina del Time all’intervista sconcertante al comico Brignano

15 Dicembre 2017 15 min lettura

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Molestie sessuali e movimento #metoo: dalla copertina del Time all’intervista sconcertante al comico Brignano

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Contemporaneamente allo scoppio del caso Weinstein e dello scandalo molestie, in tutto il mondo si è diffuso e sviluppato un movimento (prevalentemente) di donne che hanno deciso di alzare la voce e denunciare abusi, aggressioni sessuali o comportamenti inappropriati subiti nel corso della loro vita da parte di capi, colleghi e uomini di potere. Attorno all’hashtag #MeToo in circa 85 paesi (e agli omologhi in altre lingue, come il francese #BalanceTonPorc o lo spagnolo #YoTambien) sono state raccolte milioni di testimonianze, che hanno costruito un racconto corale di un sistema di potere e oppressione conosciuto, conservato e tollerato.

La settimana scorsa il magazine statunitense TIME ha nominato coloro che hanno rotto il silenzio sulle molestie sessuali – silence breakers – “Persona dell’anno”, premiando così un movimento che “abbraccia ogni etnia, classe sociale, occupazione e virtualmente ogni angolo del pianeta. Persone che lavorano nei campi della California, o dietro al front desk del New York City regal Plaza Hotel, o al Parlamento Europeo. Sono parte di qualcosa che non ha formalmente un nome. Ma adesso hanno una voce”.

L'ultima importante testimonianza in ordine di tempo è stata quella dell'attrice Salma Hayek, che ha raccontato la sua esperienza con Harvey Weinstein in un lungo articolo sul New York Times. La donna ha spiegato che durante le riprese del film Frida - da lei interpretato, ideato e prodotto - Weinstein la tempestò di richieste sessuali, reagendo rabbiosamente ai suoi rifiuti e cercando più volte di ostacolarla sul lavoro. «Stiamo finalmente diventando coscienti di una piaga che è stata socialmente accettata e che ha offeso e umiliato milioni di ragazze come me», ha scritto Hayek, che ha aggiunto di essere «stata ispirata da quelle che hanno avuto il coraggio di parlare, specialmente in una società che ha eletto un presidente che è stato accusato di molestie e violenze sessuali da più di una decina di donne e che tutti abbiamo sentito rilasciare una dichiarazione su come un uomo di potere possa fare quello che vuole alle donne. Bene, non più».

Il movimento #MeToo

Secondo il direttore della rivista, Edward Felsenthal, #MeToo è stato «il movimento di cambiamento sociale che si è mosso più velocemente negli ultimi anni, ed è iniziato grazie a singoli atti di coraggio di centinaia di donne – e alcuni uomini – che hanno raccontato le loro storie». Non si tratta, però, di una “resa dei conti” nata dall’oggi al domani. Come scrive TIME, “è fermentata per anni, decenni, secoli” nelle donne che avevano a che fare con capi e colleghi che oltrepassavano i limiti, che avevano paura di ritorsioni o di essere licenziate da un lavoro che non potevano permettersi di perdere, che dovevano rapportarsi con uomini che usano il loro potere per prendersi ciò che vogliono dal sesso femminile. “Queste silence breakers hanno dato il via a una rivoluzione del rifiuto, acquistando forza giorno dopo giorno, e negli ultimi due mesi la loro rabbia collettiva ha provocato risultati diretti e sconvolgenti: quasi ogni giorno amministratori delegati sono stati licenziati, uomini potenti sono crollati, icone sono cadute in disgrazia. E in alcuni casi, sono partite anche accuse penali”.

La prima persona in assoluto a utilizzare le parole “MeToo” è stata circa dieci anni fa Tarana Burke, attivista impegnata nel sostegno di vittime di molestie e violenza sessuale. Poi, la sera dello scorso 15 ottobre, pochi giorni dopo le prime rivelazioni su Weinstein, l’attrice Alyssa Milano ha twittato l’hashtag e la frase usata da Burke.

Milano ha raccontato che quando si è svegliata il mattino dopo ha notato che l’hashtag era stato già utilizzato da oltre 30 mila persone. La marea – anche e soprattutto fuori dai social network – ha iniziato a dilagare: tra Hollywood, il mondo dei media, dell’arte, della tecnologia e della politica, secondo TIME dopo il caso Weinstein sono state accusate di molestie o aggressioni sessuali almeno 74 figure pubbliche.

«Devo ammettere che quando Alyssa Milano ha twittato per la prima volta #MeToo la mia reazione iniziale è stata di panico. Ho pensato: che succede se questo diventa un hashtag di moda, e non collegato con il lavoro sul campo che ho fatto?», ha scritto Burke in un articolo pubblicato Glamour. L’attivista ha spiegato di aver usato la frase per la prima volta nel 2006, dopo essere stata lei stessa vittima di violenza sessuale. Un’esperienza che le aveva lasciato la necessità di cercare «le parole giuste». Da quel momento Burke ha iniziato ad andare nelle scuole e nelle comunità «per entrare in contatto con giovani donne – per la maggior parte nere o appartenenti a minoranze etniche – per far sapere loro “Non sei da sola. È successo anche a me”».

Dopo l’esplosione dell’hashtag, su consiglio di un’amica, Burke si è inserita nel flusso e ha postato un video sui propri social, spiegando come l’empatia potesse aiutare coloro che avevano subito violenza sessuale. «A quel punto è subentrato un altro tipo di panico»: cosa accadrà dopo questa rivelazione di massa su internet?

#metoo It has been amazing watching all of the pushback against Harvey Weinstein and in support of his accusers over the last week. In particular, today I have watched women on social media disclose their stories using the hashtag #metoo. It made my heart swell to see women using this idea - one that we call ‘empowerment through empathy’ - to not only show the world how widespread and pervasive sexual violence is, but also to let other survivors know they are not alone. The point of the work we’ve done over the last decade with the ‘me too movement’ is to let women, particularly young women of color know that they are not alone - it’s a movement. It’s beyond a hashtag. It’s the start of a larger conversation and a movement for radical community healing. Join us. www.metoo.support 📹: @sirxavv 2014 March Against Rape Culture Philadelphia, PA #metoomovement #yourenotalone #itsamovement #empowermentthroughempathy

Un post condiviso da Tarana J. Burke (@fortyisthenew40) in data:

«Per me il 2018 sarà interamente dedicato all’elaborazione di #MeToo – ha spiegato Burke - Il passo successivo per il movimento sarà aiutare le donne ad affrontare cosa accade dopo aver rivelato la loro esperienza. Riguarda cosa succede se qualcuno posta #MeToo e nessuno mette like al suo status e come essere sostenitori della causa nelle nostre comunità. Come parlare ai bambini di questo argomento; come discutere delle molestie sessuali che gli adolescenti affrontano a scuola».

Secondo TIME la rivoluzione di #MeToo è solo all’inizio, ancora in uno stadio in cui la rabbia funge da innesco, “ma almeno abbiamo iniziato a porci le giuste domande”. «L’ho detto sin dal principio: non è solo un momento, è un movimento. È adesso che comincia il lavoro», ha aggiunto Burke.

La copertina del TIME

Sulla cover del numero che incorona #MeToo “Persona dell’anno” – curato da un team composto prevalentemente da donne – figurano l’attrice Ashley Judd, una delle prime ad accusare il produttore Harvey Weinstein, Susan Fowler, ex lavoratrice di Uber che per prima ha denunciato le molestie all’interno dell’azienda, Adama Iwu, lobbysta che ha lanciato la campagna “We said enough” sulle molestie nel mondo del lavoro e della politica, la cantante Taylor Swift, che ha portato in tribunale il conduttore radiofonico David Mueller accusato di averla aggredita sessualmente, e Isabel Pascual, una donna messicana che lavora nella raccolta delle fragole e ha chiesto l’uso di uno pseudonimo per proteggere la sua famiglia.

La copertina mostra in basso a destra il braccio di un’altra donna, mentre il resto del corpo è tagliato fuori dalla foto. Felsenthal ha spiegato che non è un ritaglio casuale, ma una scelta precisa: si tratta di una donna intervistata dal TIME, che lavora in un ospedale e ha chiesto di restare anonima per proteggere la sua vita. Rappresenta tutte le donne che sono state vittime di abusi o violenza sessuale ma non hanno potuto parlare apertamente.

Secondo un articolo pubblicato su Quartz, la decisione del TIME di mostrare – anche se parzialmente oscurata – l’esistenza di questa donna in copertina è importante, considerata l’opinione diffusa per cui se una donna subisce abusi o molestie sessuali e non denuncia immediatamente perde credibilità: “Può essere una risposta agli scettici – quelle persone secondo cui le molestie sessuali non sono un grosso problema, e coloro che sostengono la menzogna per cui le donne che subiscono abusi in silenzio sono deboli”. Questo scetticismo “è sessista nel suo rifiuto di fidarsi della capacità delle donne di rendere conto della loro esperienza. È anche profondamente ignorante, poiché trascura fondamentalmente le soverchianti dinamiche di potere che consentono alle molestie sessuali di proliferare, promuovendo e perdonando uomini potenti nonostante i loro passi falsi – mentre puniscono chiunque provi a contrastare la loro autorità”.

La copertina di TIME ha però sollevato anche alcune critiche: ci sarebbe dovuta essere anche l’attrice Rose McGowan? Perché c’è Taylor Swift? In molti, poi, hanno denunciato l’assenza di Burke dalla foto (che però presente e intervistata all’interno del numero, così come McGowan e altre), lamentando la scarsa inclusione delle donne nere nel racconto del movimento.

“Credere alle donne”

La giornalista Rebecca Traister, intervistata da Vox a novembre, diceva di temere «un imminente contraccolpo a questo momento di grande esposizione»: «All’inizio vedremo l’interruzione di questa conversazione, e poi tutto può precipitare. Una falsa accusa, per esempio. Sono sicura la destra cercherà di strumentalizzare questa conversazione per seminare accuse false». Oppure, continuava Traister, «una reazione eccessiva. Un uomo potente che perde il lavoro a causa di un reato che, forse, non merita la perdita del lavoro. Anche questo potrebbe porre un freno» al movimento #MeToo.

«Sono una femminista che crede che di queste cose si debba parlare – aggiungeva Traister - che crede che questa sia una conversazione cruciale che può aprire gli occhi. Allo stesso tempo la odio. È orribile vivere tutto questo ogni giorno. È orribile ascoltare queste storie. Tutte noi, a un certo livello, vogliamo che finisca. E io sono probabilmente tra coloro che sono maggiormente coinvolte nel non far terminare [questa discussione]. Immagina una persona qualunque, senza il mio coinvolgimento ideologico, professionale e personale nell’importanza di questo tema. È doloroso; sta accumulando ricordi orribili per così tanti di noi. (…) È davvero una conversazione dura da avere, e per questo credo che molte persone cercheranno qualsiasi scusa per farla terminare».

La previsione di Traister sul falso caso di molestie si è avverata pochi giorni dopo. Project Veritas, un’organizzazione di destra che prende di mira i media mainstream (la CNN l’ha definita “anti-media”) ha contattato il Washington Post tramite una collaboratrice sotto falso nome. La donna ha detto di chiamarsi Jamie Phillips e ha raccontato di avere una storia riguardante il candidato repubblicano al Senato in Alabama Roy Moore (che poi ha perso l’elezione), sul quale pesano già diverse accuse di molestie e aggressioni sessuali svelate proprio da una precedente inchiesta del Washington Post. Phillips ha detto ai giornalisti di essere rimasta incinta di Moore nell’estate nel 1992, quando era minorenne e si trovava in Alabama. Il politico l’avrebbe quindi costretta ad abortire in Mississippi.

Dopo diverse verifiche, i giornalisti del WaPo hanno capito l’inganno e deciso di non pubblicare la storia, svelando invece l’intera operazione di Project Veritas, il cui obiettivo era quello di screditare il movimento #MeToo.

Nonostante l’accurato lavoro del giornale abbia fermato la manovra, le domande sulla fragilità del movimento restano: cosa succederà nel caso in cui ci sarà da affrontare davvero un’accusa falsa? Come non far diventare l’assunto “credere alle donne” un’arma nelle mani di chi fa i propri interessi?

Per evitare strumentalizzazioni, secondo la scrittrice Rebecca Solnit, è necessario che a guidare questa discussione siano «persone che hanno avuto esperienza di molestie, denigrazione e discredito. Persone che hanno passato anni ad ascoltare gli altri e hanno già riflettuto sulle dinamiche, sull’etica e sulle conseguenze di queste cose». Solnit prende in considerazione l’esperienza della giornalista Ijeoma Oluo, che ha raccontato come recentemente USA Today le avesse chiesto di scrivere un pezzo in cui da femminista si schierava contro il giusto processo: la tesi di fondo sarebbe dovuta essere che anche se qualche uomo innocente avesse perso il lavoro ne sarebbe comunque valsa la pena per proteggere le donne.

«Le stavano chiedendo di dire che le femministe sono felici di nuocere ai singoli uomini per il bene della causa, e non sono interessate nel distinguere tra innocenza e colpevolezza. Si è rifiutata. Non è quello che lei è, e nemmeno quello che sono le femministe», ha spiegato Solnit.

La scrittrice ha ricordato come lo slogan “credere alle donne” sia nato «perché le donne sono state spesso ritenute pazze, bugiarde, manipolatrici e qualsiasi cosa fuorché oneste quando accusano uomini di crimini sessuali. Per questo motivo le loro denunce vengono spesso respinte piuttosto che indagate».

“Credere alle donne” non significa non investigare sulle accuse. «Una denuncia – conclude Solnit – presuppone due parti l’una contro l’altra. Una che accusa e, solitamente, l’altra è una persona che si professa non colpevole. Entrambe meritano un giusto processo».

Anche la giornalista Sady Doyle su ELLE ha precisato che “credere alle donne” non è in realtà in conflitto con la verifica dei fatti – e l’operazione del Washington Post lo dimostra. «C’è una differenza tra approcciarsi in buona fede alle denunce di violenze sessuali e avere basi legali per pubblicare quelle accuse, e anche giornaliste femministe appassionate capiscono che il giornalismo deve aderire al secondo standard. Le altre accuse [a Moore] non sono state screditate, così come evidentemente O’Keefe [fondatore di Project Veritas ndr] sperava; anzi sembrano ancora più credibili, ora che sappiamo che sono passate attraverso lo stesso processo rigoroso di fact-checking».

#MeToo in Italia: un’allucinazione collettiva

Ida Dominijanni in un articolo pubblicato su Internazionale ritiene che la motivazione che ha spinto il TIME a dare il titolo di “Persona dell’anno” al movimento delle donne che hanno rotto il silenzio sia «il contrario, esatto e speculare, di come il me too è stato commentato nel mainstream mediatico italiano (…) Misoginia – maschile e femminile – a pioggia, contro qualunque evidenza: ancora l’altra mattina, di fronte alla copertina del TIME, qualcuno sentenziava in prima pagina che si tratta certamente di un ripiego, e qualcuna gli faceva eco in tv che il TIME era chiaramente a corto di idee e se l’è cavata così».

Sul Giornale, ad esempio, Annalisa Chirico ha scritto che il TIME “sbaglia copertina”, mentre “la persona dell'anno è la caccia alle streghe spacciata per coraggio”; per il Foglio, invece, è “la guerra al maschio”.

Seppur con toni estremizzati, i due titoli riecheggiano la cifra del dibattito che (non) c’è stato in Italia sulla questione molestie sessuali. Secondo la giornalista Giulia Blasi se ne è parlato in questo modo principalmente per due ragioni. «La prima è storica: a differenza degli Stati Uniti noi non abbiamo avuto un caso Hill-Thomas negli anni ‘90, o successivamente un caso Bill Cosby. Non abbiamo avuto e non abbiamo tutt’ora una serie di casi di alto profilo di molestie sessuali acclarate, conclamate, che vanno addirittura a processo, su cui le persone possano formarsi un’opinione». Il caso Hill-Thomas a cui si riferisce Blasi è stato in effetti uno spartiacque negli USA: nel 1991 Anita Hill accusò di molestie sessuali sul lavoro Clarence Thomas, che stava per essere confermato giudice della Corte Suprema. La donna fu molto attaccata, e alla fine Thomas mantenne il suo posto alla Corte Suprema (dove si trova tutt’ora). Ciononostante, secondo il Washington Post, le parole pronunciate da Hill durante la sua testimonianza “hanno inaugurato l’era del riconoscimento di un problema”.

La seconda questione che ha incatenato il dibattito italiano è di tipo culturale. «In Italia – spiega Blasi - fino al 1996 il corpo di una donna era pubblico demanio, lo stupro era un reato contro la morale. La nostra mentalità è ancora quella: le donne sono ancora oggetti, cose da toccare. Siamo al punto in cui soltanto adesso stiamo iniziando discutere del fatto che il sistema su cui si basa la nostra cultura sia un sistema da criticare e da migliorare. Siamo ancora allo step precedente: le donne mentono, sono bugiarde, e la vittima fa prima a stare zitta perché comunque porta lei la macchia».

Pochi giorni fa il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista al comico romano Enrico Brignano, nella quale vengono tirate in ballo le accuse di molestie sessuali mosse al regista Fausto Brizzi da diverse giovani attrici. Nell’esprimere la sua posizione, Brignano si fa portavoce di argomenti che sono circolati parecchio nelle ultime settimane: le accuse si fanno nei tribunali e non sui media, il discredito per le vittime, la confusione tra molestie e avance, la “crisi dell’uomo”. Le parole del comico non vengono controbattute dalla giornalista e si inseriscono, di fatto, nella copertura che uno dei maggiori quotidiani nazionali sta facendo di un fenomeno mondiale.

«L’intervista di Brignano, al di là del disgusto che può suscitare, rappresenta molto bene la mentalità da cui partiamo e le posizioni di retroguardia rispetto al dibattito sulle molestie sessuali», afferma Blasi. «Io credo – aggiunge - che chi sta molestando le donne in questo momento in Italia non abbia idea del fatto che quello che fa costituisce molestia, o addirittura violenza sessuale. Perché la sessualità delle donne nella narrativa comune di questo paese si gioca ancora in difesa: tu devi stare ferma ad aspettare che gli uomini facciano la prima mossa e un uomo non ha il dovere di controllare se a te interessa quello che fa oppure no. Tutto si consuma nel tuo accettare o rifiutare quello che lui fa. Brignano nell’intervista dice: “Se io ci provo tu mi puoi dire di no”. Per lui non è problematico che ci sia quell’approccio in un contesto di lavoro. Cioè gli pare – come pare a molti – che dire di no cancelli la molestia. E invece il problema è la molestia, non quello che fai tu quando l’hai ricevuta».

Martedì sera durante la trasmissione CartaBianca su Rai3, si è tenuto un confronto tra Asia Argento – una delle prime ad aver accusato il produttore Harvey Weinstein – e due dei personaggi del panorama mediatico italiano che si erano scagliati con più ferocia contro l’attrice e la sua testimonianza sin dalla pubblicazione dell’articolo su New Yorker: Vladimir Luxuria e Pietro Senaldi, direttore di Libero. «Non mi aspettavo di essere chiamata prostituta dopo essere stata violentata», ha detto Argento in apertura della puntata, commentando il clima e gli attacchi subiti negli ultimi due mesi.

In una sorta di arena, gli intervenuti hanno proseguito con le stesse argomentazioni: “una donna può dire di no”, “non si fanno denunce con gli psicodrammi ma in tribunale”, “per essere violenza ci deve essere il dissenso”. La delegittimazione del racconto dell’attrice è passata ancora una volta anche per attacchi personali e insinuazioni: «A 21 anni [quando ha subito la violenza sessuale da Weinstein] non era proprio Heidi che scendeva dalle montagne», ha detto Luxuria.

Proprio in solidarietà ad Asia Argento, negli stessi giorni in cui #MeToo esplodeva a livello mondiale nel nostro paese è nato un hashtag analogo, #quellavoltache, lanciato da Blasi insieme ad alcuni siti femministi e LGBTI. Ne è venuto fuori un racconto collettivo di centinaia di donne che – spesso per la prima volta – hanno parlato di molestie e violenze sessuali subite, anche sui luoghi di lavoro. L’esperimento di narrazione è stato imponente, ma ha faticato parecchio a inserirsi nel dibattito pubblico e, a differenza di #MeToo nel resto del mondo, non ha guadagnato prime pagine o editoriali.

«Ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che che quello che è successo da noi non abbia nessun valore, perché non è così. È chiaro che il tentativo da parte degli strati più alti del potere culturale in Italia è quello di far sparire il problema, di mettere tacere tutto perché è vergognoso, perché è sconveniente, perché ci vanno di mezzo gli amici», dice Blasi. In quest’operazione di rimozione, prosegue, hanno un ruolo anche alcune donne, «che forti del fatto che sono femmine possono dire in giro che non è successo niente, che gli hashtag non cambiano il mondo. È vero, non è l’hashtag che cambia il mondo, è la presa di coscienza di una serie di persone, il fatto di dire tutte insieme “questa cosa è successa anche a me” che dovrebbe portarci a pensare: “Ok abbiamo delle testimonianze in mano, questa cosa va affrontata”. E invece il grido corale delle donne in Italia è stato considerato un’allucinazione collettiva».

Davanti a questo tipo di reazioni, a editoriali che predicano “l’estinzione per femminismo” e a posizioni volte a mantenere lo status quo bisogna fare una scelta: «Bisogna scegliere se continuare a parlarne o lasciar cadere tutto», afferma Blasi. «Credo che se taciamo adesso – aggiunge – coloro che si troveranno ad affrontare il problema tra uno, due, cinque anni, non potranno contare sul lavoro già fatto. Noi magari non riusciremo ad avere un dibattito serio, ma possiamo preparare qualcosa che resti per chi verrà dopo. Molti di quelli che sostennero Anita Hill magari sono morti, sono passati quasi trent’anni. Però chi lo fece all’epoca fece la cosa giusta, perché oggi noi sappiamo che Anita Hill ha fatto la cosa giusta. Quella cosa lì è rimasta nella storia. Non importa quando e se vedremo risultati. Qualcuno li vedrà».

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Molestie sessuali: un sistema che crolla e le accuse alle vittime

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Immagine in anteprima via Ikon Images / Getty Images

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