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“Chi sono io?”: lettere sull’identità, la repressione e la malattia

14 Dicembre 2025 21 min lettura

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“Chi sono io?”: lettere sull’identità, la repressione e la malattia

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20 min lettura

Pubblichiamo lo scambio di lettere tra Shamsia e Francesca Melandri. Queste lettere sono state prodotte nell'ambito del progetto Untold Narratives – Weiter Schreiben, un programma di scambio epistolare che mette in contatto scrittrici che vivono in Germania e Afghanistan, sostenuto dalla KfW Stiftung.

Untold Narratives è un programma di sviluppo rivolto a scrittrici strutturalmente emarginate dalla comunità o dai conflitti, con l'obiettivo di sviluppare le loro opere di narrativa e saggistica, condividere le loro storie con comunità più ampie nella loro lingua e raggiungere un nuovo pubblico globale attraverso la traduzione.

Una donna può vivere una vita dignitosa in Afghanistan? – Lettera 1

Cara Francesca,

Non so se sto scrivendo queste parole per confortarti o per alleviare il mio dolore. Ho la mente bloccata su questo pensiero: mi sento intrappolata tra la vita e la morte. Da un lato, mi perseguita la paura della morte; non per la morte in sé, ma perché temo possa restare qualcosa di incompiuto nella mia vita. Dall'altro, mi turba la speranza di vivere bene; non perché non abbia mai vissuto bene, ma perché temo di fallire. Ogni volta che penso alla fine, il significato della vita diventa più chiaro. È come se la paura della morte fosse un invito a continuare a vivere, a non scappare.

Questi pensieri sono cominciati due anni fa. Frequentavo l'università quando una donna entrò in classe, distribuì a ciascuna di noi un foglio di carta e disse: “Ecco un questionario per valutare la vostra salute mentale. Per favore, siate sincere".

Risposi alle domande senza riflettere. Tutte le altre risero mentre le leggevano, come se cercassero di nascondere tutte le loro paure dietro le risate. Forse non riuscivano ad ammettere di non essere felici o in pace con sé stesse. Ridere era più facile che piangere, perché in Afghanistan le lacrime di una donna sono viste come un segno di debolezza, mentre la risata funziona come una specie di armatura. Sono arrivata all'ultima domanda: “Hai mai pensato al suicidio?”

Gli occhi hanno indugiato contro la mia volontà, il sorriso è svanito dalle labbra. Non so perché, ma senza riflettere ho risposto: “Sì!”.

Qualche giorno dopo, quella stessa donna mi convocò nel suo ufficio. Mi chiese perché, in una classe di trenta persone, fossi stata l'unica ad aver pensato al suicidio. Non sapevo cosa rispondere. Lei voleva capire il motivo. In qualche modo riuscii a convincerla che la mia risposta era stata solo uno scherzo. Come se, spinta da un impulso, avessi segnato “Sì” senza riflettere. Ora la domanda era: “Ho pensato al suicidio?”

Per quel che ricordo, i miei amici hanno cercato, ciascuno a modo proprio, di impedirmi di scrivere sulla morte. Mi dicevano: “Se vuoi avere successo come scrittrice, devi mostrare speranza, non amarezza”. Sento che le persone cercano “il lieto fine”, ma quando guardo alla vita in Afghanistan, non riesco a scorgerne nessuno. Qui la felicità è più spesso l'eccezione che la regola. Perché dovremmo raccontarci storie ingannevoli? Non voglio ferire le persone, ma si stanno trascinando lontano dalla vita reale. 

Lascia che ti racconti una storia: quando avevo quindici anni, mio nonno mi parlò di un uomo che era tornato dalla morte. Non sapevo come avesse fatto. La mia giovane mente non riusciva a trovare una risposta. Finché un giorno vidi quell'uomo con i miei occhi, un uomo qualunque con un dolore profondo scolpito in volto. Non parlava. La gente diceva che aveva visto Dio ed era diventato muto. All'epoca tutti gli chiedevano dell'altro mondo. Uno gli chiedeva: “Com'era lì?”. Un altro gli chiedeva ingenuamente: “Hai visto anche mio padre che è morto?”. Quell'evento mi ha turbato per anni, perché non ho mai capito se quell'uomo fosse felice di essere tornato in vita o meno. Sono passati anni, ma vorrei ancora poterlo rivedere e, se possibile, parlare con lui. Vorrei chiedergli: “Cosa si prova a essere morti?”.

Potresti chiedermi perché sono così curiosa della morte. Se devo rispondere onestamente, ne ho davvero paura. So che può sembrare sciocco, ma più penso alla vita, più la morte mi appare oscura e terrificante. È come se in Afghanistan la morte avesse un senso e un colore diversi.

Ho paura che non ci sarà più alcuna possibilità di scrivere, di essere felice o anche solo di commettere errori. Ma in Afghanistan questo è solo un privilegio, non un diritto; un privilegio che è stato quasi completamente strappato via a noi donne. In un luogo in cui le nostre vite sono plasmate dalle leggi degli uomini, da tradizioni soffocanti e dalla paura del domani, nessuna opportunità è gratuita.

Ho ancora il fervore della giovinezza e ho sempre desiderato fare qualcosa di grande, come vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Ma ci sono migliaia di vicoli ciechi sulla mia strada. Da un lato i talebani mi dicono: “Sei una donna afghana, c'è un limite a quanto in alto puoi volare”. Dall'altro lato c'è la paura di lottare per un futuro incerto, della morte stessa. Ho paura del giorno in cui non rimarrà traccia di me e sarò completamente dimenticata; o se una traccia rimarrà, ho paura che non risplenda abbastanza. 

Ora che sai della mia paura della morte, voglio condividere cosa volevo chiedere a quell'uomo. Nel profondo, capisco che conoscere la morte non cambierebbe nulla per me, ma sento che avrebbe potuto alleviare la mia paura. Volevo sapere dove va l'anima quando arriva la morte, se sia possibile che tutti i nostri desideri o dolori vengano dimenticati. Sai, la morte in sé non è così dolorosa, ma pensare a ciò che accade dopo è molto più doloroso e angosciante. Scompari da questo mondo come se non fossi mai esistita; passano gli anni e di colpo tutti ti dimenticano. Che fine triste e ingiusta!

Avrei voluto sapere quando sarebbe arrivata la mia morte, così da poter fare le cose che amo, come andare in montagna. Più di tutto desidero che qualcuno ascolti la mia voce. Noi donne siamo cresciute nell'ombra, eppure i nostri cuori brillano come il sole. Purtroppo, sembra che in Afghanistan non si debba riporre speranza nei sogni, perché non si realizzano. Forse è meglio non sapere nulla della morte.

Non resta che abituarsi. Se la vita fosse sempre piena di pace, perderebbe la sua dolcezza. Desidero vivere ogni momento di questa vita tragica ma meravigliosa con amore. Non riesco a reprimere la paura che provo di fronte alla morte, ma devo imparare a conviverci.

Ora torno alla mia domanda: “Ho davvero pensato al suicidio?” Sì, ho pensato alla morte, ma non ho mai desiderato uccidermi. Sono assetata di vita, assetata di libertà e di risate. Eppure in questo Afghanistan, dove le porte dell'università mi sono precluse perché sono una donna, dove mi sento sempre come intrappolata in una gabbia, ci penso più che mai. Quando soffocano i miei sogni, quando anche uscire per strada e ridere diventano distrazioni pericolose, e quando ho paura che i miei sogni non si realizzeranno mai, come è possibile restare aggrappati alla vita e non pensare mai a queste cose? 

Vivere in Afghanistan come donna non è molto diverso dal morire. Proprio perché sei una donna, senti che la tua stessa identità è sempre messa in discussione. È come se essere donna fosse un crimine e dovessi costantemente giustificare il tuo diritto di respirare, studiare, vivere. Essere donna qui significa seppellire ogni giorno una parte di te. La tua voce, la tua libertà, i tuoi sogni, persino le tue risate. Questo non è vivere, è semplicemente sopravvivere. E proprio quando ho imparato a volare, mi hanno tagliato le ali.

Ora ho capito che il suicidio non è mai la risposta e che noi esseri umani non abbiamo il coraggio di compiere un gesto del genere. Credo che Dio sia così misericordioso che dopo la morte mi darà una vita migliore. Sono questa speranza e questa fede che mi hanno tenuta in vita; questa speranza mi aiuta a non temere la morte e a rimanere forte.

Tua Shamsia

La vita è il dono più prezioso – Lettera 2

Cara Shamsia,

Sono così felice di aver finalmente ricevuto la tua lettera! Grazie per aver condiviso questi pensieri così personali e anche difficili. Mi ha fatto venire voglia di condividere a mia volta qualcosa di molto personale, qualcosa che mi è balzato in mente mentre leggevo le tue parole.

Tre anni fa, dopo due anni di pandemia, ho contratto il Covid. È stata una forma lieve: ho avuto molte influenze peggiori in passato. Dopo pochi giorni la febbre era scomparsa e il test era negativo. Ero molto sollevata che fosse stato così leggero. Tuttavia, circa 48 ore dopo il test negativo, mi sono svegliata nel cuore della notte, e quando ho cercato di alzarmi mi sembrava di essere su una nave in mezzo a una tempesta. Sono caduta in ginocchio. E soprattutto, non avevo idea di dove fossi né di chi fossi.

Non ti racconterò nei dettagli i giorni successivi, anche perché ne ho un ricordo confuso. In breve, ho vissuto un caso piuttosto grave di Long Covid, la misteriosa condizione che colpisce molte persone che hanno contratto il Covid - una su dieci! - e la cui gravità, come nel mio caso, non ha alcun collegamento diretto con la gravità dell'infezione da Covid stessa. I medici chiamano “Long Covid” una vasta gamma di condizioni diverse, dalla semplice stanchezza ai problemi neurologici - come è successo a me - fino a gravi danni agli organi interni nei casi più gravi. Io mi trovavo in una situazione intermedia: per alcuni mesi non ho avuto l'energia per alzarmi e riuscivo a malapena a sollevarmi dal divano, ma non ho mai provato dolore e la mia vita non è mai stata in pericolo. I sintomi del Long Covid possono essere molto diversi, l'unica cosa che hanno in comune è che devono durare almeno tre mesi dopo un test negativo: la parola chiave è “lungo”.

Tuttavia, mia cara Shamsia, non voglio descriverti cosa è accaduto al mio corpo, voglio parlarti di cosa è successo alla mia mente.

La maggior parte delle persone con o dopo il Covid ha sperimentato una sorta di apatia cerebrale, di confusione, la cosiddetta “brain fog”. Ma i miei pensieri non erano solo più lenti e meno chiari. Visualizziamo l'atto del pensare come un filo da seguire: i pensieri si dipanano con una continuità lineare, come se ci guidassero lungo un percorso; ma era come se  questo percorso fosse bloccato da un enorme cumulo di spazzatura, così che per fare anche un solo passo in avanti dovevo prima spingerne un po’ via e così da liberare spazio sufficiente per muovermi anche solo poco in avanti; poi dovevo spingere via altra spazzatura per fare il passo successivo, e poi ancora, e ancora, per ogni passo. La più semplice attività mentale era così un processo estenuante e dolorosamente lento, persino formulare pensieri elementari come “Sono le dieci” o “Devo chiamare il medico”. A peggiorare le cose, quando cercavo di verbalizzare questi pensieri rudimentali, spesso dalla mia bocca uscivano parole casuali che non avevano nulla a che fare con il significato che volevo esprimere. C'erano persino momenti in cui non riuscivo a rispondere con certezza alla domanda: chi sei? Immaginavo che sì, ero io, Francesca, ma non ne ero più sempre, e completamente, sicura. In breve, mi sembrava che ciò che mi rendeva un essere umano, la mia coscienza, si stesse arrestando; ma al tempo stesso, mi sentivo ancora abbastanza cosciente da poter assistere alla mia lenta caduta nella demenza.

Mia cara Shamsia, non sono mai stata così spaventata in tutta la mia vita.

Le cose non erano sempre così terribili. Questa condizione a volte durava solo pochi istanti, altre volte ore, altre volte giorni. Dopo un po' di tempo, ho iniziato a recuperare le mie facoltà mentali e, sebbene fossi ancora estremamente affaticata, mi sono sentita molto sollevata. Il mio cervello sembrava funzionare meglio e speravo che il peggio fosse passato. Ma dopo circa una settimana sono ricaduta in quello stato spaventoso. Poi sono migliorata di nuovo. Poi ho avuto una terza ricaduta. A quel punto, ho iniziato a perdere la speranza. È allora che ho cominciato a chiedermi: sarà così per il resto della vita? Scivolerò sempre di più nella demenza, terrorizzata dalla consapevolezza di ciò che mi sta accadendo, fino al giorno in cui sarò andata troppo lontana per avere persino paura, e allora il “me” fondamentale con cui mi sono identificata per tutta la vita scomparirà semplicemente?

È stato qui, Shamsia, che ho iniziato a pensare: se questo è il destino che mi aspetta, non voglio raggiungerlo. Non voglio vivere senza essere “me stessa”. Non voglio che i miei figli e i miei cari siano gravati dalla cura di un corpo che mi assomiglia e porta il mio nome, ma che non è più veramente “me”. In altre parole, ho iniziato a pensare: se questo è irreversibile, allora mi chiamo fuori. E “fuori” in questo contesto significava: via dalla vita.

Per fortuna, Shamsia, non c'è stato bisogno di arrivare a tanto. Quella terza ricaduta è stata anche l'ultima, le mie facoltà mentali alla fine sono tornate stabilmente. Dopo circa sei mesi, ho potuto finalmente riprendere a lavorare al libro che stavo scrivendo prima del Covid. Lentamente mi sono tornate le forze, e anche se non sono più tornate quelle di prima ho imparato a gestirle.

Mia cara Shamsia, sai, io ho sempre goduto di buona salute, a parte qualche piccolo disturbo. L’esperienza di una malattia che ti cambia la vita per sempre è stata perciò una novità, e spero di non dimenticare mai alcune delle cose che mi ha fatto capire.

La prima è la sensazione di solitudine totale, di separazione dal resto dell'umanità, dalla “maggioranza sana”. Questa solitudine  della malattia ha due aspetti. Uno è l'isolamento molto pratico dell'essere tagliata fuori da tutta la vita a cui non si può prendere parte. Durante quei mesi, anche una conversazione di venti minuti era estenuante per me, mi gettava in confusione, tanto che dovevo prepararmi psicologicamente alle visite dei miei amici, anche se ovviamente le aspettavo con ansia. All'improvviso l'invisibilità delle persone con disabilità non era più un concetto astratto, come era stato per tutta la mia vita da persona sana. E si concretizzava nelle parole delle persone che mi vedevano solo in quei venti minuti e dicevano: “Sembri stare molto meglio”, senza avere idea di come, dopo che se ne erano andati, dovessi passare ore raggomitolata sul divano per riprendermi dall'immenso sforzo di concentrazione che mi era costato parlare con loro, e il laborioso attraversamento di quecumulo di spazzatura mentale.

L'altro aspetto, ancora più doloroso, è sperimentare che nessuno capisce veramente cosa stai passando, a meno che non abbia vissuto un'esperienza simile. E le persone meno capaci di capirlo sono spesso quelle che più intensamente desiderano che tu guarisca. Per molte di queste persone ben intenzionate, il desiderio che tu, la persona malata, stia meglio si mescola al loro terrore molto umano della malattia, e quindi della morte. Paradossalmente, spesso sono proprio queste persone le meno capaci di riconoscere che non stai affatto bene. Il loro sincero desiderio di vederti guarita diventa un ulteriore fattore di stress in una situazione già stressante; senti cancellata la tua esperienza di vita, aumentando il senso di disperazione. 

Ora, mia cara Shamsia, voglio raccontarti cosa mi è successo dopo che tutto è finito. Mi sono sentita come se fossi stata liberata da una terribile prigione in cui mi era stato minacciato di trascorrere il resto della mia vita. E proprio come non mi sono mai sentita così terrorizzata, allo stesso modo posso dire che non ho mai provato una gioia così profonda come quando mi è stata restituita non solo la mia vita, ma anche la sensazione di essere “me stessa”. Immagino che questo sia ciò che accade alle persone che sopravvivono a incidenti mortali. Ero ancora molto debole e svolgere la maggior parte delle cose pratiche era ancora difficile, ma il mio cervello era tornato, la mia mente era tornata, io ero tornata! Mi sembrava di essere risorta. Ogni singolo momento era come una benedizione inaspettata. Per alcuni mesi ho goduto di una sorta di luce interiore: la vita è il dono più prezioso e ne ero pienamente consapevole.

Ovviamente questo stato luminoso non è durato per sempre, non sono più in quello stato di gratitudine, gli alti e bassi della vita sono tornati nella loro ordinaria normalità. Ma cerco di non dimenticarlo.

Infine, molte persone a cui ho raccontato questa storia mi hanno detto che loro, o alcuni loro cari, hanno vissuto qualcosa di simile. Il numero di persone che soffrono di infezioni post-virali croniche e molto gravi - non solo Long Covid ma, ad esempio, encefalomielite mialgica (ME) - è enorme. Si stima che siano milioni, ma questa  condizione, che spesso distrugge la loro vita, è invisibile al resto della società e non fa notizia. Mi vergogno di dire che io stessa non avrei mai compreso la portata di questo fenomeno, né forse me ne sarei mai interessata, se non ne avessi fatto esperienza in prima persona. Ecco perché ho voluto raccontarti questa storia. Perché sai, quando ho letto la risposta che hai dato al sondaggio, ho pensato: sono sicura che Shamsia non fosse l'unica in quella classe ad aver avuto pensieri suicidi. Chissà quante altre donne che hanno partecipato al sondaggio hanno pensato di togliersi la vita, nel silenzio e nella solitudine della loro disperazione. Ma solo tu, mia cara Shamsia, sei stata pronta a parlarne apertamente. Perché questo è ciò che fa una scrittrice.

Con amicizia,
Francesca

Le fratture possono essere finestre sulla luce - Lettera 3

Cara Francesca,

Ho letto con attenzione la tua lettera, più volte, con profondo rispetto. Ogni volta ho trovato qualcosa di nuovo: qualcosa di umano, doloroso, ma illuminante. Non ti sei limitata a descrivere la tua esperienza, l'hai fatta rivivere attraverso le parole, come se queste avessero portato sulle spalle parte della sofferenza.

Ciò che mi ha colpito di più non sono state le descrizioni fisiche o mentali della malattia, ma ciò che era andato oltre i confini del dolore ed era entrato nel regno dell'identità. Quei momenti di cui hai scritto, quando dicevi di non sapere più chi fossi, per me sono davvero una delle forme più terrificanti di sofferenza umana. Eppure, non solo sei tornata alla vita riemergendo dall'abisso, ma hai continuato a vivere con uno sguardo più attento e profondo.

La domanda che ti sei posta aleggia da tempo anche intorno a me, come una nebbia di illusioni. A volte ho dimenticato chi ero, o forse non ho mai veramente conosciuto me stessa. Sapere chi sei richiede un cammino, un rimedio. Credo che molte persone manchino di autoconsapevolezza; è come se inseguissero ciò che gli altri si aspettano da loro, non ciò che desiderano veramente. Spesso cerchiamo di confonderci tra la folla o fissiamo lo sguardo su una persona di rango di cui non siamo nemmeno certi della bontà. Questa tendenza non si vede solo nell'aspetto esteriore, ma anche nel nostro comportamento, nei nostri pensieri e persino nel nostro modo di vivere. Molti di noi credono che la nostra identità sia definita dalla ricchezza, dalla posizione sociale o dai desideri terreni effimeri. Ma in realtà, le nostre radici affondano in qualcosa di più profondo e duraturo. La nostra vera identità esiste in quella parte di noi che non dipende dall'approvazione degli altri: nei nostri valori, nelle nostre convinzioni e nel significato che diamo alla vita.

Mia cara Francesca, da molto tempo desidero sapere esattamente cosa dovrei fare: qual è il vero scopo della mia vita. Comprendere il proprio scopo è la strada per rispondere alla domanda: “Chi sono io?”

Vivo in una società in cui alle donne viene data poca importanza. La ragione di ciò risiede nello stile di vita profondamente tradizionale e antiquato del popolo afghano: in quelle credenze che confinano la donna esclusivamente tra le mura di casa. Per un po' ho cercato di trovare me stessa. E quanto è difficile, quando finalmente raggiungi il limite della scoperta di te stessa, vedere un gruppo portarti via quella comprensione per anni. Quel gruppo sono i talebani. Dio solo sa, forse anche loro non hanno mai veramente conosciuto se stessi. Commettono atti senza comprenderne lo scopo; per esempio, privando le donne del diritto al lavoro, all'istruzione, alla libertà. Probabilmente non conoscono il motivo dietro queste azioni perché non hanno mai cercato una risposta alla domanda “Chi sono io?”.

Dico questo perché un altro aspetto della conoscenza di sé è la capacità di cogliere la verità e di distinguere il bene dal male; e, a mio avviso, questo è proprio ciò che manca ai talebani. Non sono in grado di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è; si limitano a seguire le orme dei loro padri e le promesse che hanno fatto molto tempo fa.

Considerando la situazione attuale in Afghanistan, non credo che la vita migliorerà per molti anni a venire. Io e altre giovani donne come me ci consideriamo vittime di queste circostanze. A volte mi dico: se solo fossi nata qualche anno prima, o qualche anno dopo, oltre questa era dei talebani. O se solo fossi nata in un altro posto. Se solo…

Mia cara Francesca, non voglio allontanarmi dalla domanda principale – “Chi sono io?” – ma a volte la vita diventa così difficile che quando mi guardo allo specchio non riconosco più la persona che mi sta davanti. Mi chiedo: “È la stessa che un tempo credeva di poter plasmare il proprio futuro?” Oppure sono solo un’ombra modellata dallo sguardo degli altri, che ora non ha nemmeno il coraggio di vivere come desidera? Forse è per questo che parlo costantemente con me stessa, lotto con me stessa, mi rivolgo persino contro me stessa. Provo rabbia e non so perché, ma forse è a causa della situazione in Afghanistan.

Mia cara Francesca, mi sento come se volessi urlare, ma senza riuscire a emettere alcun suono. Forse la mia voce si è persa tra i miei pensieri e la paura del futuro.

Mia cara Francesca, per me sei la prova vivente di un essere umano che ha attraversato l'oscurità, ha sopportato la sofferenza e continua a stare a testa alta. Mi ricordi che la frattura può diventare un varco verso la luce e che ogni crepa nell'anima può essere un segno del passaggio della fede e della speranza. Anche quando sei silenziosa e stanca, non dimenticare mai che sei ancora sul sentiero, il sentiero che conduce alla verità, trasformando questo fragile senso di sé in un “io” più pieno e profondo. Forse non hai ancora raggiunto quell'io completo, ma ogni passo che fai, anche nel silenzio e nel dubbio, ti avvicina al luogo in cui ritroverai te stessa. Quindi, resta e continua ad andare avanti, anche quando ti perdi lungo la strada. Perché tu non sei solo un “io”; sei la storia di un essere umano che cerca la luce attraverso l'oscurità, e questa è la più grande verità di tutte.

A volte penso che questa domanda, “Chi sono io?”, sia una sorta di trappola. Forse la verità non sta nel trovare la risposta, ma nel sopportare il dolore della ricerca. Forse quando una persona finalmente raggiunge la verità, potrebbe non essere più viva e in quel preciso momento morire, ma la verità stessa rimane viva. Per conoscere se stessi, per rispondere a questa domanda, bisogna viaggiare nelle profondità del proprio essere, attraversare la propria anima e la propria mente, fino a quando non si riesce finalmente ad affrontare il vero “io”.

Se qualcuno mi chiedesse ora: “Chi sei?”, risponderei: io sono la ricerca stessa: un percorso, un'anima errante, la condizione stessa dell’essere smarrita mentre lotto per raggiungere la verità e trovare me stessa, nonostante tutto.

E se ora ti chiedessi: “Chi sei?”, quale sarebbe la tua risposta?

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.

Con affetto,
Shamsia

Chi sono? Questa è la domanda cruciale – Lettera 4

Mia cara Shamsia,

ieri ho finito di scrivere quella che pensavo fosse la mia lettera per te. Stavo per inviarla agli organizzatori del nostro scambio quando ho letto la notizia: i talebani hanno bloccato internet in tutto l'Afghanistan.

Come si può reagire a questo? Come si può dare un senso all'oscurità, alla crudeltà, alla stupidità?

Ovviamente il mio primo pensiero è andato a te, cara Shamsia. A come hai descritto la tua vita interiore mentre i talebani hanno trasformato l'Afghanistan in una prigione a cielo aperto per tutte le donne.

Dopo aver letto queste notizie, la lettera che avevo appena finito di scriverti mi è sembrata... priva di significato. Inutile. E non solo perché ora non sono più sicura di quando, o addirittura se, potrai mai leggerla.

Proprio come nella tua prima lettera, anche nella seconda hai coraggiosamente dato voce al tuo dolore, alla tua privazione, alla tua disperazione. Eppure, stranamente, questo mi ha confortato. Non per le parole gentili che hai scritto su di me, per le quali ti ringrazio di cuore anche se non sono sicura di meritarle. Ciò che mi ha confortato è stata la sorprendente, eppure intensa sensazione di connessione che ho provato sia con le tue idee che con te, Shamsia. Con te, la donna, la persona reale.

Questo è ciò che hai scritto sui talebani:

Probabilmente non conoscono il motivo dietro queste azioni perché non hanno mai cercato una risposta alla domanda “Chi sono io?”.

Quando ho letto questa frase mi sono ritrovata a dire ad alta voce: “Sì!”. Avrei potuto scriverla io stessa.

In effetti, l'ho fatto. Alcuni anni fa, ho scritto qualcosa di molto simile in uno dei miei romanzi. La protagonista riflette sulle cause profonde del razzismo, sia nella società italiana odierna che durante il fascismo, quando suo padre andò come invasore in Etiopia. Riflette sul razzismo sia come manifestazione sociale che dentro di sé, una donna europea quarantenne, di classe media, dalla pelle chiara. Questa è la parte finale dei suoi pensieri:

Ilaria capisce la vera domanda che le si pone (...). È la stessa domanda che, inespressa e negata, si nasconde dietro gran parte di ciò che definiamo razzismo. E non è “Chi sei?”, ma piuttosto: “Chi sono io?

Sono d'accordo con te, cara Shamsia. I razzisti, i misogini, coloro che odiano interi gruppi di persone usate come capri espiatori - ebrei, musulmani, africani, donne, e mi fermo qui - manifestano tutti con il loro odio la stessa debolezza indicibile ma estremamente profonda. È così che il premio Nobel Toni Morrison ha definito una volta in modo memorabile i suprematisti bianchi:

“C'è qualcosa di distorto nella loro psiche. Se riesci a stare in piedi solo perché qualcun altro è in ginocchio, allora hai un problema serio”. E anche: “Le persone che fanno questo, che praticano il razzismo, sono come deprivat di qualcosa di essenziale".

Deprivate. 

Che parola profonda. Suggerisce una mancanza definitiva e irrimediabile, come la perdita che segue una morte.

Include anche una strana compassione per le persone crudeli che descrive - non per i loro atti di crudeltà, ovviamente, ma per loro, per gli esseri umani con quella insanabile mancanza. La stessa compassione che Gesù espresse sulla croce quando chiese a suo Padre di perdonare i suoi torturatori perché “non sanno quello che fanno”.

Questi uomini sono privi di un senso di sé abbastanza solido da non aver bisogno di esercitare il dominio su qualcun altro per sentirsi completi. Ma, come hai detto così eloquentemente, cara Shamsia, i talebani - proprio come ogni fascista, razzista, misogino - non lo raggiungeranno mai perché non si pongono mai la domanda delle domande: “chi sono io?”. Invece, costringono le loro vittime a portare sulle proprie spalle la loro mancanza interiore e a pagarne al posto loro il terribile prezzo.

Ecco perché, mia cara Shamsia, mi sono sentita così vicina a te mentre leggevo la tua lettera. E questo è esattamente ciò che i talebani temono e odiano: la relazione umana . Ecco perché cercano di interromperla completamente, o almeno ci provano.

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È passato un giorno e oggi i talebani hanno ripristinato la connessione internet in Afghanistan. Ma come si può essere sicuri che non la interromperanno di nuovo a loro piacimento? Mia cara Shamsia, provo una tale rabbia nei confronti di questi uomini meschini, crudeli e rotti dentro che stanno facendo questo a te e a tutte le donne dell'Afghanistan. Ma il sentimento più forte che provo è la vergogna. È la mia parte del mondo, il ricco, prospero e democratico Occidente, che ti ha abbandonata nelle loro mani. Non abbiamo nemmeno la scusa di non sapere cosa stavamo facendo quando ti abbiamo tradita. Lo sapevamo benissimo, eppure lo abbiamo fatto lo stesso. E continuiamo a farlo, negando l'asilo che avevamo promesso agli afghani in fuga dall'orrore dei talebani.

Chiederei il tuo perdono, se non provassi tanta vergogna. Quindi questa è l'unica cosa che posso fare: mi rifiuto di smettere di sperare che un giorno tu e io potremo stare nella stessa stanza, e bere  insieme una tazza di tè.

Tua Francesca

Immagine in anteprima: Francesca Melandri

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