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I media e la guerra di influenza in Africa

8 Gennaio 2023 10 min lettura

I media e la guerra di influenza in Africa

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Nel marzo dello scorso anno il governo del Mali ha deciso di sospendere nel paese le trasmissioni di RFI (Radio France International) e France24. Le due emittenti sono state accusate di trasmettere “notizie false” riguardanti abusi e violazioni dei diritti umani a danno dei civili da parte dei militari. Che siano vere o meno le accuse – corroborate in ogni caso da molti report realizzati con testimonianze sul campo, come quelli di Human Rights Watch – la decisione la dice lunga sui rapporti tossici che si possono instaurare tra governi africani e media occidentali, spesso considerati faziosi e addirittura nemici, al pari dei paesi che rappresentano.

Non a caso, le relazioni tra Mali e Francia si sono deteriorate a partire dal colpo di Stato dell’agosto 2020 che destituiva il presidente Ibrahim Boubacar Keita (molto vicino alla Francia) e dava vita al governo militare guidato dal colonnello Assimi Goïta che al contrario è vicino alla Russia, amico – si potrebbe dire – di Putin che ha già invitato il colonnello, con una telefonata informale, al prossimo vertice Russia-Africa in programma a San Pietroburgo questa estate. Tanto è vero che ci si è domandati se dietro il golpe ci fosse la mano della Russia e del famigerato gruppo Wagner.

A domandarselo, ovviamente, è stata la stampa occidentale. Quella europea è stata per anni la strada maestra di tutta l’informazione proveniente dal continente (ma anche rivolta al continente). La storica BBC per i paesi anglofoni, la RFI e France24 per i francofoni e Voice of America sono state le voci che hanno raccontato l’Africa. E che hanno occupato (colonizzato) le modulazioni di frequenza al fine di arrivare in ogni città o villaggio del continente. Con un certo “monopolio” sulla notizia, sul cosa raccontare, sul come raccontarlo. Perché, si sa, neanche il “distacco” che caratterizzerebbe il giornalismo anglosassone prescinde dall’influenza politica e dal più o meno alto grado di propaganda che un media può esercitare. Soprattutto in un continente come l’Africa su cui sono puntati occhi, interessi e investimenti. E i cui paesi rappresentano un interlocutore sempre più importante alla luce dei nuovi assetti geopolitici in corso. Pensiamo solo a quanto la guerra in Ucraina abbia aperto nuovi scenari e necessità di alleanze, tanto che si è parlato di una nuova guerra fredda nel continente.

Oggi, l’influenza esercitata dai media non è più riferibile a quelle storiche testate, anzi alle testate europee in genere. La critica alle modalità neo-coloniali con cui l’Europa si approccia al continente (tra cui il condizionamento della stampa ma anche operazioni militari, come quella francese in Mali e nel resto del Sahel, appunto, che negli anni hanno stimolato un forte sentimento antieuropeo) si è trasformata anche in una maggiore consapevolezza che il ruolo dell’informazione ha nel favorire narrazioni diverse da quelle abituali ma, soprattutto, nel rappresentare una sorta di specchio delle relazioni tra i paesi.

Non stupisce, dunque, il fiorire di nuove testate o l’apertura di sedi distaccate da parte di paesi che negli anni hanno sostituito (e stanno sostituendo) l’Europa nei rapporti economici e diplomatici con l’Africa. A cominciare dalla Cina, la cui presenza, contrariamente a quanto si pensa, non è un “fenomeno” degli ultimi tempi. Semmai è evidente l’abilità di agire in modo discreto, senza dare troppo nell’occhio. Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso Radio Pechino inaugurava le sue trasmissioni in Egitto e in Ghana. Poi, dal 2006 – “anno dell’Africa” – Radio Pechino si trasformò in Radio Cina International e cominciò a trasmettere in Kenya (non solo in cinese e in inglese, ma anche in swahili) e nel tempo ha aggiunto, e sta continuando a farlo, trasmettitori nel Sahel. In Mali, ad esempio, per restare in quel paese dove in cambio delle autorizzazioni, ha provveduto ad installare trasmettitori per Radio Mali e a fornirle assistenza ingegneristica.

La presenza dei media cinesi (ma con collaborazioni interne) in Africa, viene presentata anche come un modo per una migliore comprensione tra il continente e la Cina, nell’ottica di un mutuo vantaggio. Medesimo concetto per la CGTN Africa, la divisione africana della China Global Television Network, con sede a Nairobi e uffici a Lagos, Cairo, Johannesburg. Per la carta stampata – ma ha anche un ricco portale – non si può non citare il China Daily, quotidiano ufficiale di stato e di proprietà del Dipartimento centrale di propaganda del partito comunista cinese. Mentre a farla da padrona per il prestigio, l’accreditamento che si è guadagnata negli anni è l’agenzia di stampa Xinhua (questo il sito web) che oggi conta trentuno uffici in tutto il continente. Considerato che ha continuato negli anni ad investire nell’informazione sull’Africa e dall’Africa, c’è da immaginare che nel giro di un decennio tutti i 54 paesi africani ospiteranno un distaccamento dell’agenzia.

La Xinhua è una delle fonti principali dei giornalisti e delle testate africane. Ma si può prevedere che pian piano comincerà a contendersi la posizione con un’altra agenzia, la turca Anadolu, anche questa proprietà di Stato. Sono due, ad oggi, i suoi uffici africani – in Etiopia e Nigeria – più corrispondenti da vari paesi e annunciate apertura di sedi a Johannesburg (Sudafrica), Khartoum (Sudan) e Mogadiscio (Somalia). L’agenzia ha anche un programma di training per giornalisti africani su reportage da zone di guerra, disastri e situazioni di emergenza. È interessante notare come i primi tentativi di “insediarsi” in Africa con radio, tv, giornali, agenzie di informazione, da parte di soggetti diversi all’Europa sia cominciata soprattutto in paesi dove è debole o inesistente la presenza francese. E non è neanche un caso che la Turchia – nel primo vertice Turchia-Africa dedicato ai media nel maggio scorso – abbia anche annunciato la creazione di una piattaforma digitale per l’Africa francofona e l’espansione dei servizi offerti da TRT, che già dal 2014 trasmette servizi in hausa e swahili e che dovrebbe allargare aree e contenuti. Insomma, come a dire che i tempi sono ormai maturi per inserirsi in spazi fino a poco tempo fa occupati dalla voce, dal racconto e dall’opinione del mondo occidentale.

Dunque, se “la percezione della realtà è determinata oggi soprattutto dai nuovi media, i social media”, come è stato sottolineato durante l’evento, sono invece i media tradizionali quelli su cui i nuovi attori presenti in Africa vogliono puntare. Un modo per “stare” in Africa con un investimento, quello sull’informazione, che non solo mira a far circolare in Africa e all’estero il proprio (o un diverso) punto di vista ma anche a stabilire nuove narrazioni che per forza di cose andranno oltre quel certo paternalismo e stereotipi con cui il continente è stato raccontato al resto del mondo.

Ma prima di approfondire questo punto va notato che la maggiore presenza dei media esteri in Africa va di pari passo con l’instaurarsi di nuove relazioni e cooperazioni. È il caso, appunto, della Turchia, che oggi è rappresentata da 43 ambasciate in tutto il continente, un aumento certamente significativo rispetto alle sole 12 di due decenni fa. Tant’è che ora si tratta del quarto paese più rappresentato in Africa dopo Stati Uniti, Cina e Francia. Il volume totale degli scambi commerciali con l'Africa è passato dai 3 miliardi di dollari nel 2003 ai 26 nel 2021. Così come sono incrementati gli accordi bilaterali e di cooperazione in diversi settori.

Tuttavia, se l’informazione è quella strada attraverso la quale esercitare il cosiddetto soft power, non tutti riescono a percorrerla con lo stesso stile. Soprattutto quando i mezzi utilizzati sono i canali social. Se anche la Russia sta pensando di rafforzare i media tradizionali come la Tass, ma anche Sputnik e RT, è quella maggiormente accusata di utilizzare i nuovi media a fini propagandistici. Per strutturare relazioni con gli Stati africani, sostenerne alcuni regimi, garantirsi spazi di manovra soprattutto lavorando sulle accuse di imperialismo, neo-colonialismo e persino razzismo delle nazioni europee nei confronti dell’Africa. Giocando così su sentimenti che trovano immediata risposta e reazione da parte delle giovani generazioni di africani. Tutto questo attraverso falsi profili facebook o twitter, mirate campagne di disinformazione, thread manovrati ad arte.

In  questa battaglia di screditamento anche il mondo occidentale fa la sua parte. Un recente studio della Stanford University mette in luce come operazioni pilotate da Inghilterra e Stati Uniti siano state organizzate ad hoc per diffondere l’idea di una Russia e Cina con mire espansionistiche e di sfruttamento e comunque per diffondere una narrazione a favore dell’Occidente. Occuparsi di disinformazione in Africa è lavoro impegnativo che mette in luce – come ha fatto, per esempio, Africa Center – i protagonisti, le tattiche e gli impatti di tali forme di comunicazione. E che spesso coinvolgono anche rappresentanze politiche, aziende, individui e organizzazioni che lavorano dietro le quinte.

Comunque sia è innegabile che il panorama informativo in Africa stia velocemente mutando. E riflette la nuova rete di relazioni estere dei paesi africani. Da tempo il fronte occidentale ha perso il suo primato e non solo per il ruolo che stanno ricoprendo potenze come la Cina, la Russia, la Turchia, ma anche il Giappone, l’India e potenze regionali mediorientali come Qatar, Emirati Arabi Uniti (UAE), Arabia Saudita, Iran e Israele. Tutte stanno cercando di creare un'area di influenza che riguarda i mercati, gli investimenti, la diplomazia, ma che passerà sempre di più dal canale informativo, dal tipo di comunicazione che intorno a queste relazioni si costruirà. Informazione come strumento (a volte come arma) che dovrà – in ogni caso – tenere maggiormente conto del punto di vista africano. Se l’idea è quella che una corretta informazione sull’Africa può essere garantita solo da una prospettiva africana, allora questo vorrà dire investire anche sulle persone, sulle competenze interne, sui giornalisti africani. Sia quelli che sono andati o andranno a implementare le nuove sedi di testate estere nel continente, sia i corrispondenti.

In realtà la narrazione sull’Africa e sugli africani è ancora legata a stereotipi e cliché. Nel 2006 lo scrittore kenyota Binyavanga Wainaina scriveva un brevissimo saggio in cui con spietata precisione e altrettanta ironia, analizzava i preconcetti così cari a scrittori e giornalisti (e ovviamente ai lettori) occidentali. La cosa paradossale è che gli stessi giornalisti africani sembrano a volte intrappolati (inconsapevolmente o colpevolmente) nella logica di perpetuare storie negative sul continente o su paesi “rivali”. Ma soprattutto sembrano dimostrare scarsa fiducia nella stampa locale. Lo spiega bene uno studio condotto da Africa No Filter in cui, per la prima volta ci si domanda: “Come i media africani coprono l’Africa”. E la risposta fa riflettere: il 63% dei media oggetto dell’analisi non ha corrispondenti in altri paesi africani e un terzo di tutta la copertura sull’Africa proviene da fonti non africane - principalmente l’AFP e la BBC che, ricordiamo, ha anche una sezione in pidgin – mentre le agenzie di stampa africane – come la sudafricana ANA o la senegalese APA - hanno contribuito solo in minima parte. Il motivo è che da un lato mancano i mezzi, i fondi, gli investimenti; dall’altro i media occidentali trasmettono maggior fiducia e sono considerati (generalmente) meno corrotti.

In questa corsa a guadagnare spazi di consenso nell’opinione pubblica africana, l'Italia ha un ruolo davvero minimo. A parte la crescita delle sedi e frequenze di Radio Maria, la copertura degli eventi africani, comprese aree importantissime come il Sahel o il Corno d’Africa, è affidata a free lance o semplicemente a fonti secondarie (siti e social media in primis) con il rischio di riportare erroneamente – e persino di incorrere in qualche lost in translation - ciò di cui non si ha esperienza e osservazione diretta. O a pochissimi corrispondenti da testate dedicate, come Nigrizia. Anche il parachute journalism, che consiste nel catapultare un giornalista in un luogo a lui fino ad allora sconosciuto per coprire un evento che non si può fare a meno di raccontare (di solito una catastrofe o un conflitto) non è granché “praticato”.  Persino quello è considerato spesso troppo costoso. Senza contare la politica del servizio pubblico che si concede una sola sede in tutta l’Africa sub-sahariana, a Nairobi. Come si fa quindi a non scrivere cose solite, scritte da altri, forse manipolate da altri, forse incomplete, forse inesatte? Dopotutto, sui media italiani l’Africa compare con il contagocce e sempre se si tratta di guerre e carestie. Solo l’immigrazione ha spazio quasi costante. Esaltandone gli aspetti negativi e i presunti problemi causati all’Italia e alla sua sicurezza.

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Una fonte di confronto e di conoscenza meno mediata non può che essere la stessa stampa (o altri media) africana, quella più libera e indipendente. O, comunque, in ogni caso con redazioni e giornalisti locali. Vale la pena consigliarne qualcuno. Si tratta perlopiù di giornali online che hanno proprio lo scopo di arrivare a un numero più ampio possibile di lettori. The Elephant, co-fondato nel 2016 sui principi del pan-africanismo, da John Githongo, attivista anticorruzione kenyota, e il nigeriano The Republic, fondato da Wale Lawal che ne è anche direttore. Poi c’è Bird, agenzia multimediale di storie “progettata per spostare le narrazioni sull'Africa e in Africa, lontano da stereotipi pericolosi”. Quartz Africa produce report molto accurati e documentati molto spesso in long form. E per avere uno sguardo critico sulle questioni sociali, politiche, culturali almeno una volta a settimana bisognerebbe leggere Africa is a country, fondato dal sudafricano Sean Jacobs, professore associato di Affari Internazionali alla New York School e che si avvale di contributors e di un board di tutto rispetto: i migliori giornalisti, studiosi e accademici del continente. Per non parlare del giornalismo investigativo. A partire dall’African Investigative Publishing Collective (AICP) che fa parte del Global Investigative Journalism Network Africa e che comprende 19 organizzazioni in paesi africani. E numerose altre realtà che lavorano su inchieste e settori complessi come Oxpeckers in Sudafrica, che si occupa di reportistica ambientale, Cemozo in Camerun o amaBhungane, anche questo in Sudafrica. Molte le reti di giornalisti che svolgono un lavoro collaborativo transfrontaliero, come Water Journalists Africa, network che lavora sul tema acqua e ambiente.

Lo sbilanciamento dell’informazione che riguarda l’Africa, dettato da pregiudizi, ignoranza, luoghi comuni, mancanza di investimenti nel settore e dall’uso della stampa e dei nuovi media a fini di consenso e propagandistici, ha allontanato lo scopo del giornalismo, ma queste realtà africane, che non sono le uniche e che si stanno moltiplicando, possono aiutare a riformulare la narrazione sul continente. Non una storia a senso unico - come denunciava anni fa un indimenticato speech della scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie. C’è un detto africano che dice più o meno così: sino a quando il leone non racconterà la sua il cacciatore avrà sempre la parte migliore nella storia. È quello che è sempre accaduto con l’Africa: raccontata e interpretata da altri. I nuovi media che si stanno contendendo gli spazi mediatici in Africa per fini che vanno spesso oltre l’informazione, lavoreranno in un clima assai diverso da quello anche di soli dieci o vent’anni fa. L’Africa di oggi – dai suoi cittadini ai suoi leader – sanno di giocare un ruolo da protagonisti. Non da comparse. Né da meri spettatori.

Immagine in anteprima via The Africa Report

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