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La recessione fa male, ma è l’austerità a uccidere

14 Giugno 2013 10 min lettura

La recessione fa male, ma è l’austerità a uccidere

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Qual è la differenza tra il Fondo Monetario Internazionale e un vampiro? Che uno dei due almeno smette di succhiarti il sangue dopo la tua morte.
Dott. Gudjon Magnusson

Lo scorso 5 giugno il Fondo Monetario Internazionale, attraverso un rapporto interno pubblicato in anteprima dal Wall Street Journal, ha ammesso di aver sottovalutato gli effetti nocivi dell'austerity sulla Grecia.

Dal primo Memorandum (2010) a oggi, il Fondo ha sempre sostenuto che il livello di indebitamento del Paese ellenico fosse sostenibile e che Atene sarebbe riuscita a ripagarlo per tempo. In realtà non lo è mai stato. È il FMI che ha piegato le sue regole per rendere il debito greco apparentemente sostenibile: la Grecia, infatti, non ha mai raggiunto tre dei quattro criteri necessari per sbloccare  gli aiuti economici (che nel frattempo hanno raggiunto i 47 miliardi di euro).

Il Fondo, inoltre, aveva completamente sballato le previsioni: secondo le stime dell’istituzione, la Grecia avrebbe perso il 5,5% della produzione economica tra il 2009 e il 2012. Nel mondo reale è crollata del 17%. Per quanto riguarda la disoccupazione, il Fondo prevedeva un tasso del 15% nel 2012. Ora siamo quasi al 27%, e quella giovanile è al 60%.

Il passaggio più clamoroso del rapporto riguarda però l'intera operazione di salvataggio della Grecia, il cui beneficiario finale era l’intera Eurozona, non la Grecia. Come scrivono gli economisti del FMI, il Memorandum «ha dato alla zona Euro il tempo di costruire un muro di protezione attorno agli altri stati vulnerabili, evitando così potenziali effetti devastanti sull’economia globale». Lo stesso FMI, tuttavia, riconosce che «un’immediata ristrutturazione del debito in Grecia sarebbe stata meno costosa per i contribuenti europei ed avrebbe risparmiato parte di quei problemi legati al "contagio"». In pratica, 11 milioni di persone sono state sacrificate in nome di un presunto “bene superiore”.

Ma cosa comporta concretamente un simile sacrificio? Sin dal 2008, il dibattito pubblico sulla grande crisi si è concentrata quasi esclusivamente su indicatori economici, PIL, deficit, pareggi di bilancio, ecc., e molto poco sui costi umani e le ricadute sanitarie dell’austerità. Recentemente due studiosi – David Stuckler e Sanjay Basu – hanno pubblicato un libro dal titolo piuttosto eloquente: The Body Economic: Why Austerity Kills (“Il corpo economico: perché l’austerità uccide”).

La tesi di fondo del saggio è abbastanza semplice: «la recessione fa male, ma è l’austerità a uccidere».

Grand Theft Russia

Oltre alla dovizia di dati, uno dei meriti più grossi del libro è l’aver ricostruito il contesto storico dell'austerità dalla Grande Depressione fino ai giorni nostri. Uno degli esempi più cruenti di quanto possa essere devastante una simile terapia economica è sicuramente quello della Russia post-sovietica.

Nel trattare il caso russo, i due autori partono da un numero: nei primi anni Novanta dieci milioni di uomini russi sono spariti. E non vecchi e malati; uomini giovani o nel pieno delle loro forze fisiche. Nel 1985, il censo statunitense aveva previsto che la popolazione dell’Unione Sovietica sarebbe passata dai 149 milioni di quell’anno ai 164 del 1998. Arrivati al 1998, il dato reale raccontava tutta un’altra storia: la popolazione russa era scesa a 144 milioni.

Nel 1999, poco dopo la presentazione dei dati ufficiali, una squadra di investigatori dell’Onu pubblicò un rapporto in cui si denunciava l’esistenza di

Una crisi umana di proporzioni monumentali nell’ex Unione Sovietica. Gli anni della transizione [al capitalismo, nda] sono stati letali per un gran numero di persone.

L’aspettativa di vita tra gli uomini russi scese da 64 a 57 anni tra il 1991 e il 1994, e il tasso di mortalità aumentò del 90% nella fascia d’età tra i 25 e i 39 anni. Le cause erano le più svariate: alcool, suicidi, omicidi, infortuni letali e infarti. La crisi demografica russa degli anni ’90 (e tutt'ora in corso) era dunque direttamente imputabile alla transizione dal comunismo al capitalismo? Non del tutto, se si prende in considerazione la sorte di altri Paesi del Blocco. La decisione cruciale, argomentano gli autori, è stata la «velocità delle riforme».

A ogni modo, i punti principali elaborati dal team di economisti di Harvard inviati in Russia per “aiutare” il Presidente Boris Yeltsin erano fondamentalmente due: 1) liberalizzazioni spinte; 2) un enorme programma (caldamente suggerito da Milton Friedman) di privatizzazione delle aziende statali.

I due ricercatori fanno notare che nessuno nella storia aveva mai provato a privatizzare un intero sistema economico di tali dimensioni. Margaret Thatcher, ad esempio, negli 11 anni da Premier era riuscita a liberalizzare 20 grosse società statali britanniche. Il team di Harvard voleva privatizzare più di 200mile imprese statali russe in meno di 500 giorni. La ragione di questa foga? Evitare che l’ex Unione Sovietica ricadesse nel comunismo, com’era successo nel 1992 in Lituania.

Le «terapie dello shock» furono applicate in fretta e furia in Russia, Kazakistan e Kirghizistan, rivelandosi un disastro. Le privatizzazioni di massa si risolsero in un saccheggio indiscriminato di risorse pubbliche, comportarono un aumento impressionante della diseguaglianza e crearono una rapace classe di oligarchi che ancora adesso domina la Russia. I «sacrifici» di breve termine non portarono nemmeno a una «crescita» di lungo termine. Come dimostra il grafico qui sotto, i Paesi che affrontarono la transizione con un approccio più "ragionato" e temperato si ripresero molto prima.

Alla fine, i più accaniti sostenitori della «terapia dello shock» russa furono costretti ad ammettere che qualcosa non aveva funzionato. Persino Milton Friedman ammise i suoi errori: «Dopo il crollo dell’Unione Sovietica mi è stato chiesto molte volte cose dovessero fare i russi. Io rispondevo sempre: “Privatizzare, privatizzare, privatizzare”. Avevo torto.»

Fondo Monetario Internazionale vs. Mr. Condom

Nel 1997 l’Est Asiatico entrò in una crisi finanziaria profondissima. Per i due autori, la crisi asiatica fu anche

un esperimento naturale che mise alla prova diverse teorie su come uscire da una recessione. La recessione gettò milioni di persone nella povertà, ma furono le scelte politiche di tagliare aiuti e ammortizzatori sociali a trasformare la crisi economica in una catastrofe sanitaria.

Il caso più eclatante individuato dai ricercatori è quello della Tailandia. Nei primi anni ’90 il Paese era stato colpito da un’epidemia di Hiv. Nel 1990 si erano registrati 100mila nuovi casi; tre anni dopo il numero era salito a oltre un milione di casi. La situazione migliorò grazie agli sforzi del dottor Wiwat Rojanapithayakorn e dell’attivista Meechai Viravaidya (conosciuto come "Mr. Condom"), che fecero partire un programma di distribuzione di preservativi nei posti più a rischio della provincia Ratchaburi – bordelli, centri massaggi, ecc. I risultati furono sorprendenti: in meno di due mesi la percentuale di nuove infezioni da Hiv tra le prostitute locali passò dal 13% a meno dell’1%.

Grazie al successo dell’iniziativa, i due chiesero al governo un aumento di budget per il programma anti-Hiv. Gli stanziamenti per la prevenzione passarono così dai 2 milioni di dollari nel 1992 agli 88 nel 1996. Nell’arco di tre anni, l’utilizzo del condom tra le lavoratrici del sesso salì dal 25% a oltre il 90%.

Poi arrivò la crisi – e la richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Per raggiungere gli obiettivi di bilancio prefissati dal FMI, il governo tailandese fu costretto a effettuare tagli pesantissimi alla sanità e ai programmi di prevenzione, incluso quello di distribuzione dei preservativi (-33% nel solo 1998). Nel 2000, il bilancio per la prevenzione dell’Hiv si era ridotto a meno di un quarto del fondo pre-crisi. In un solo anno (1998), il tasso di pazienti affetti da Aids in Tailandia crebbe da 40.9 per 100mila abitanti a 43.6 per 100mila. Il numero dei bambini con l’Hiv salì dai 15.400 del 1997 ai 23.400 del 2001.

In maniera piuttosto simile a quanto accaduto nell’ex Blocco Sovietico, i Paesi dell’Est Asiatico che più si erano discostati dalle prescrizioni del FMI si sono ripresi decisamente meglio degli altri. La Malesia, che aveva deciso di non aderire al programma di salvataggio, è stato l’unico Paese ad aver raggiunto gli obiettivi fissati dal FMI. Piuttosto ironico, no?

Nel 2000 l’economista Joseph Stiglitz descrisse così il ruolo del Fondo nella gestione della crisi asiatica: «Il FMI non ha fatto altro che rendere le recessioni dell’Est Asiatico più profonde, lunghe e pesanti». Il Fondo si è scusato formalmente soltanto nell’ottobre del 2012, ammettendo che le misure di austerità imposte ai vari Paesi hanno causato danni economici almeno tre volte superiori a quanto preventivato.

Grecia: gli aghi infetti della Troika

Nel maggio del 2012, la polizia greca arresta un centinaio di prostitute dopo aver condotto un blitz in alcune case chiuse di Atene. Diciassette di queste prostitute risultano sieropositive. L’allora ministro dell’Ordine Pubblico, Michalis Chrysochoidis, decide di pubblicare le foto delle donne malate sul sito della polizia. Le foto scatenano le reazioni di media e Ong, ma il Ministro tira dritto: «La pubblicazione delle foto è legale. Gli uomini che vanno con le prostitute devono conoscere il pericolo».

La strada che porta al blitz nelle case chiuse e alla vergognosa stigmatizzazione delle prostitute sieropositive inizia con il primo Memorandum del 2010. Come riconoscono gli stessi autori di The Body Economic, il sistema sanitario greco aveva (e ha) la disperata necessità di essere riformato. Tuttavia, il piano della Troika (composta da UE-FMI-BCE) si basava sull’obiettivo categorico tenere la spesa sanitaria al 6% (o meno) del Pil. Nessuno ha mai saputo veramente perché sia stato deciso quel numero, visto che in altri Paesi europei la spesa sanitaria è molto più alta (in Germania, per esempio, è al 10%).

Per raggiungere il target il governo socialista di Papandreou (e i successivi) comincia a tagliare di tutto – inclusi i programmi di prevenzione. Il risultato è che nel 2011 in Grecia si registrano 954 nuovi casi di infezioni di Hiv, un aumento del 57% rispetto al 2010. Nel giro di qualche anno, insomma, la capitale ellenica diventa un focolaio di malattia infettive. Era da decenni e decenni che in Europa non succedeva una cosa del genere.

Nel 2011, gli epidemiologi del Centro Ellenico per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (Keelpno) cercano di capire il motivo di questo incremento vertiginoso di casi di Hiv. E lo rintracciano non nella trasmissione sessuale del virus, ma nella tossicodipendenza e nello scambio di aghi infetti. Ovviamente, anche il programma statale di scambio di aghi puliti è stato drasticamente tagliato.

Il fenomeno si collega all’aumento dei senzatetto ad Atene, stimato in un +25% dalle Ong greche, e all’abuso di sostanze stupefacenti. Nel 2012 Charalampos Poulopoulos – direttore di Kethea, organizzazione di contrasto alla droga finanziata dal governo greco – ha pubblicato un paper intitolato Economic Crisis in Greece: Risks and Challenges for Drug Policy and Strategy. Poulopoulos scrive che «il consumo di droga e alcool, così come i disturbi mentali che ne conseguono, non smetteranno di crescere finché la recessione continuerà». E ancora: «Negli ultimi due anni i consumatori di droga sono diventati più autodistruttivi. Soprattutto nella regione di Atene, dove gli effetti della crisi economica sono più evidenti».

Il portato più inquietante del disastro greco è probabilmente un nuovo tipo di droga che è cominciato a circolare per le strade della capitale. La sostanza si chiama sisa, ed è stata definita da Vice UK (che ha anche realizzato un ottimo documentario sull’argomento) come «l’epitome della droga dell’austerity». Questa è la sua composizione:

L’ingrediente base della sisa è la metanfetamina. I tossici dicono che può anche contenere “tagli” liquidi come acido delle batterie, olio motore, shampoo o sale da cucina.

Nell’ottobre del 2011 il presidente di Medecines Du Monde Grecia, Nikitas Kanakis, aveva apertamente parlato di «crisi umanitaria». Il collasso della sanità pubblica, inoltre, ha tagliato fuori una parte della popolazione dall’accesso a cure di base, visite mediche, ricoveri ospedalieri e farmaci. Anche il lavoro dei medici è diventato sempre più difficile: secondo alcune testimonianze, i tagli selvaggi rendono proibitivo prescrivere pannoloni per anziani e addirittura farmaci per il malati di cancro. In tutto ciò, 1 milione e 300mila persone (il 27,3% della popolazione) sono a rischio povertà.

Per i due ricercatori

Non solo l’austerità è stato un errore; si è anche deciso di implementare il peggior tipo possibile di austerità […]. La salute della Grecia ha cominciato ad assomigliare a quella della Russia dopo la «terapia dello shock» e le privatizzazioni di massa.

L’austerità continuerà a uccidere?

Se il FMI ammette i suoi sbagli, la Commissione Europea continua pervicacemente a ignorare la realtà. Subito dopo la pubblicazione del rapporto, il commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn, ha detto di «dissentire radicalmente» dalle conclusioni del Fondo. Anzi, va tutto bene: «Il programma di riforme è nei binari e stiamo avendo segni di stabilizzazione e di crescita della fiducia in Grecia».

Evidentemente, per Rehn questo grafico sulla progressione del tasso di disoccupazione in Grecia è uno dei «segni di stabilizzazione».

Oppure quest’altro grafico sulla disoccupazione nell’Eurozona.

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«La più grande tragedia dell’austerità – concludono Stuckler e Basu non è l’indebolimento delle nostre economie: è l’inutile sofferenza umana che ha causato finora».

Purtroppo, come ha rilevato Stefano Casertano su Linkiesta, il cosiddetto «fronte anti-austerity» semplicemente non esiste ancora, o se esiste non ha la forza necessaria a opporsi alla Germania e a certe élite europee, presso le quali l’austerità è un’ideologia economica ancora estremamente appetibile. A dispetto delle analisi, dei dati, della salute e della Storia.

(Austerity Wars è una rubrica sulle ricadute umane e sociali dell'austerità nel Sud Europa. Segui anche su Twitter e Facebook attraverso l'hashtag #AusterityWars.)

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