La menzogna è un’arma di distruzione di massa
5 min letturaPalace of the end (NEO. Edizioni), testo teatrale di Judith Thompson, porta in scena e sulla pagina la guerra in Iraq, attraverso tre personaggi e i loro monologhi. Nell'opera emergono quegli aspetti che le retoriche dello scontro di civiltà, della lotta del bene verso il male e della democrazia da esportare vorrebbero rimossi: il nemico non è un male esterno, è piuttosto un ostacolo alla conquista e al mantenimento del potere.
Il primo monologo, Le mie Piramidi, vede protagonista un «Soldato» (così è indicato nei personaggi). È una donna incinta, e dalle prime battute si capisce essere ispirato a Lynndie England, uno dei torturatori di Abu Ghraib. Il suo linguaggio è crudo, spontaneo, e in questa immediatezza l'autrice sintetizza l'incapacità dell'Occidente di fare i conti con la violenza di cui si macchia. Quando infatti Lynndie è sola con la propria coscienza e lontana dal patriottismo mainstream scopre di non avere parole, e gli anacoluti abbondano:
Sarò ricordata. Ma prima dobbiamo trovare un modo per far sparire quelle foto, Perché: la cosa di quelle... foto è...
Guardo lei, me, quel soldato sempliciotto con i pollici alzati...
E quegli iracheni nudi...
E... Beh, è come un sogno che altri mi dicono che ho fatto...
Quando si mostra aggressiva, invece, è come se tentasse di rimuovere il ricordo attraverso la menzogna di cui anch'essa è vittima. Perché il torturatore ha bisogno di pensare che l'abiezione inflitta sia necessaria, o che la vittima se lo sia meritato, o che a subirla non sia un essere umano: «per quanto mi riguarda io stavo facendo quello che c'era da fare, raccogliere l'intelligence e, secondo la loro cultura, io che rido dei loro piselli è molto peggio che picchiarli», «Portare quel tizio in giro al guinzaglio? Beh, mi ha dato della cagna», «Quelli erano mostri mascherati da esseri umani. Erano prigionieri di GUERRA».
Ma c'è una frase da cui non riesce a liberarsi: quella del Mullah cui viene ordinato di sodomizzare un prigioniero e che risponde «Non c'è motivo di farlo. Non lo farò solo per farvi divertire». Nel ricordare le conseguenze di quella frase Lynndie è, per l'appunto, divertita: il Mullah è costretto a mangiare merda, e la scena fa vomitare un altro soldato, Manny («Cazzo, abbiamo preso in giro Manny per tutta la notte!!»). Il rifiuto del Mullah è una rivolta: in quel "no" ha espresso la propria condizione di uomo e, per opposizione, ha svelato la crudeltà dei carcerieri. Dunque nessuna menzogna può salvare la donna che, moderna Sisifo, è condannata a spingere via il ricordo, senza riuscirci mai.
"Non c'è motivo di farlo. Non lo farò solo per farvi divertire."
Quello che diceva non mi esce dalla testa, proprio non mi esce. Qualche volta di notte mi sveglio e sento ancora le sue parole.
Devo prendere un analgesico per mandarle via.
Il protagonista del secondo monologo, Harrowdown Hill, è David Kelly, lo scienziato britannico che ha lavorato come ispettore delle armi in Iraq. Nel monologo è un Kelly morente a parlare, e all'inizio quasi gioca a indovinare le reazioni alla sua dipartita:
"Oh, sì, ricordo Kelly, il timido scienziato britannico. S'è ammazzato, ti ricordi? Era l'ispettore delle armi che si è messo nei guai spifferando tutto alla BBC? Diceva che non c'erano armi di distruzione di massa in Iraq, chiamava Tony Blair uno sporco bugiardo. È stato trovato morto nella foresta".
È stato un suicidio?
Oppure È STATO UN OMICIDIO?
A differenza del Soldato, Kelly conosce la verità sulla guerra in Iraq e l'ha raccontata a un giornalista, dopo aver a lungo mentito. Eppure, lontano dai circuiti mediatici, ha ancora bisogno che qualcuno raccolga la sua testimonianza. Alla precisione linguistica del personaggio fa da controcanto un pathos che nasce dal senso di colpa. «La verità, la verità, la verità, la verità, la schifosa, orribile, terribile». Kelly è un attore consapevole di quella narrazione ingannevole in cui il bene è contrapposto al male, e che permette al bene di compiere qualunque atrocità. E spiega come nasce e di cosa si nutre l'inganno:
Sto cominciando a pensare che sia il più grande peccato dei nostri tempi.
Sapere e fingere di non sapere per non essere disturbati in alcun modo.
Capite cosa sto dicendo?
[...]
Noi tutti sapevamo che il casus belli era una bugia. Cosa potevamo fare? Non avevamo alcun potere. Scuotevamo le teste e scappavamo via, piccoli vigliacchi. Non parlavamo. Avevamo fatto un voto di segretezza. Se non volevamo perdere il lavoro dovevamo tenere le bocche chiuse. Così ho nascosto la testa nella sabbia.Mi sono detto: “Sono per l’invasione”, Saddam è un mostro, non ci sono dubbi. Cambiare regime è un dovere, le persone balleranno per le strade, anche se solo per un giorno”. Mi sono detto: “Bush, Blair e Berlusconi sono uomini buoni. Vogliono il bene delle persone. Faranno crollare Saddam, aiuteranno il nuovo governo e poi se ne andranno”.
Un giorno però mentire diventa impossibile. È il giorno in cui i soldati dell'esercito del bene massacrano un amico iracheno di Kelly con la famiglia. L'uomo aveva chiesto aiuto all'inglese per andarsene da Baghdad, avendo visto gli occhi famelici dei soldati verso la figlia, solo che Kelly l'aveva superficialmente rincuorato, perché pensare che l'amico non fosse davvero in pericolo era funzionale a perpetrare l'inganno. Da qui la decisione di parlare a un giornalista che innescherà gli eventi, fino alla morte. Nelle battute finali del monologo, Kelly si paragona a Prometeo: dicendo la verità ha tradito un sistema in cui la menzogna ha un ruolo centrale, e dunque la punizione è ineluttabile.
L'ultimo monologo, Gli Strumenti della Bramosia, deve il nome alla polizia segreta creata da Saddam Hussein. Un nome altisonante che nasconde pratiche barbare: rapimenti di dissidenti politici, torture, omicidi. A raccontarle è Nerjas-al-Saffarh, attivista e moglie di un membro del Partito Comunista Iracheno. Perché la radice dell'oppressione non si trova in Occidente, o in Iraq: si trova negli uomini che la compiono. E Saddam è stato un oppressore: «C'è solo una parola per un essere umano così cattivo. Shaytan. Satana».
Il linguaggio di Nerjas è preciso e limpido anche nel raccontare gli episodi più cruenti, come gli stupri subiti davanti ai figli. Le sue sono parole di verità, poiché, scopriamo nel corso del monologo, a parlare è un morto ucciso da una bomba americana durante la Guerra del Golfo. Ai suoi occhi sono così evidenti quei segni dell'oppressione che ai vivi possono sembrare trascurabili:
Una delle cose che mi fece gelare il sangue durante la lunga guerra Iraq-Iran del 1980 è stato l'aver visto tagliare le cime della piantagioni di datteri e di tutti gli alberi, vederli spogli. Adesso l'esercito americano ha tolto migliaia di alberi dalla strada principale per l'aeroporto. Per sicurezza, dicono. Ma se ci pensate... una palma non è come un acero o come i vostri sempreverdi, non può nascondere nessuno.
In scena i tre personaggi sono insieme, a suggerire che le loro storie comunicano tra loro al di là di qualunque barriera. In questa ricomposizione l'arte si fa portatrice di un messaggio di civiltà, unica forza che l'uomo può opporre all'oppressione, poiché resta una volta crollata ogni menzogna.