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Fedele alla linea di Eni e Snam: così l’Italia si appresta a diventare l’hub del gas

27 Dicembre 2022 15 min lettura

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Fedele alla linea di Eni e Snam: così l’Italia si appresta a diventare l’hub del gas

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Con l’inverno ormai giunto in Italia sale nuovamente la preoccupazione per la crisi energetica. Come testimonia una recente indagine di Coldiretti, la spesa per i regali di Natale vedrà una diminuzione a causa principalmente dell’aumento dell’inflazione e dei rincari in bolletta. Sin dal suo insediamento il governo Meloni ha rivendicato la proposta del tetto al prezzo del gas, avanzata dall’ex premier Mario Draghi più di sei mesi fa e su cui l’Unione Europea ha trovato un faticoso accordo soltanto nella giornata di lunedì 19 dicembre. Nonostante le dichiarazioni trionfalistiche del governo Meloni, sono tanti i dubbi sulla validità di una misura che viene giudicata annacquata e poco efficace dagli esperti.

La strategia di sostituzione del gas russo con altro gas importato - su tutti Algeria, Egitto, e Qatar - ha funzionato al momento per quanto riguarda la continuità della produzione ma non sui prezzi, perché sull’ormai famoso mercato TTF di Amsterdam il prezzo del gas pare essersi attestato su una quota intorno ai 100 euro a megawattora che, al netto di un ottimismo che appare avventato, è comunque il triplo rispetto all’era pre-Covid. 

Eppure, al di là dell’imminente, qual è la strategia del nostro paese a medio e lungo termine? Affidarsi al gas, il combustibile fossile che ha generato l’attuale crisi energetica. Sembrerà paradossale, ma è ciò che sta avvenendo. La parola magica è “hub”. Secondo questa tesi, sostenuta più volte nel corso degli ultimi anni, l’Italia dovrebbe diventare un hub europeo del gas, sfruttando la sua posizione al centro del Mediterraneo per diventare collettore e via di trasporto del gas dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. La guerra in Ucraina ha fatto tornare di moda un’idea che ormai sembrava essere avviata all’oblio per via della decarbonizzazione e dello sviluppo delle energie rinnovabili. E che invece ora viene riproposta (anche) in chiave autarchica.

Le nuove rotte del GNL all’insegna dei vecchi progetti

Per farsi un’idea più precisa delle intenzioni del governo Meloni è necessario fare affidamento alle linee programmatiche del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, che il titolare Gilberto Pichetto Fratin ha presentato a fine novembre in Parlamento nel corso di un’audizione presso le Commissioni riunite Ambiente e Attività produttive - e che ha continuato a ripetere da allora, come ad esempio al più recente convegno di Utilitalia.

Se sull’ambiente gli impegni presi dal ministro Fratin sono sembrati più un elenco di buoni propositi, all’insegna del mantra dell’approccio “pragmatico e non ideologico”, la parte sulla sicurezza energetica si è rivelata più corposa. A partire dalla premessa:

La fotografia di oggi ci dice che l’Italia produce solo il 25% dell’energia di cui necessita, il restante 75% viene importato da Paesi esteri, sotto forma di gas, di prodotti petroliferi e di carbone. Nelle scelte fatte nell’ultimo ventennio, da una parte, è stato dato un forte impulso alle rinnovabili, raggiungendo dei livelli apprezzabili ma ancora assolutamente non sufficienti; dall’altra abbiamo ridotto drasticamente la produzione nazionale di idrocarburi, ma non il consumo, aumentando di conseguenza l’importazione dall’estero.

Per risolvere il gap energetico l’indicazione è netta:

Bisogna partire dalle infrastrutture del gas, il cui potenziamento e sviluppo consentirà all’Italia, grazie alla sua centralità nel Mediterraneo, di divenire un hub europeo del gas, con evidenti vantaggi per i consumatori finali e per la competitività del nostro sistema industriale. In questa ottica oltre ai rigassificatori di Piombino e Ravenna, va sostenuto l’incremento della capacità dei rigassificatori esistenti (Panigaglia-La Spezia, Livorno e Porto Viro Rovigo), il raddoppio del TAP e il mantenimento, ammodernamento e ampliamento degli impianti nazionali di stoccaggio di gas. I benefici di questi investimenti, così come quelli derivanti da ulteriori due rigassificatori sui quali si stanno facendo delle riflessioni – Gioia Tauro e Porto Empedocle – saranno nulli se non verrà completata la cosiddetta “Linea Adriatica”, al fine di decongestionare la rete di trasporto nazionale del gas.

Diventa fondamentale soffermarsi su ognuna delle infrastrutture citate. Sul rigassificatore di Piombino e su quello di Ravenna il governo Meloni ha confermato la linea del precedente esecutivo, con l’obiettivo di averli pronti nel 2023 (il primo) e nel 2024 (il secondo). Sull’infrastruttura che dovrebbe realizzarsi nel porto toscano, tuttavia, pende il ricorso al Tar del Lazio promosso dal Comune di Piombino. Nonostante il procedimento sia stato promosso dal sindaco di Fratelli d’Italia Francesco Ferrari, il governo Meloni ha annunciato la propria contrarietà. E se è vero che il tribunale amministrativo ha da poco respinto la richiesta di sospensione cautelare, l’iter procedurale è ancora lontano dall’essere concluso, come ricorda lo stesso tribunale:

Rilevato, sotto il profilo del periculum, che i paventati rischi per la pubblica incolumità correlati al rigassificatore risultano, allo stato, privi di attualità avuto riguardo al fatto che prima dell’avvio dell’esercizio dell’attività dovranno essere acquisiti il Rapporto di Sicurezza Definitivo e l’Autorizzazione Integrata Ambientale e che, con riferimento ai lavori avviati in area S.I.N., non sono emerse sopravvenienze o criticità di rilievo in merito alla conduzione delle attività che dovranno continuare a svolgersi nel rispetto delle articolate prescrizioni e raccomandazioni rese dai competenti enti.

Soprattutto, su Piombino resta comunque il malcontento verso un’opera che continua a risultare indigesta e imposta. Sulla città romagnola, invece, si registra un consenso quasi unanime: in 120 giorni, come ha ricordato l’assessore regionale allo Sviluppo economico e green economy Vincenzo Colla, “è stato autorizzato un impianto energivoro  per cui in media si aspettano dieci anni”. Le due opere hanno una capacità stimata di rigassificazione di 5 miliardi di metri cubi di gas a testa, e insieme potrebbero dunque garantire poco meno di un settimo del consumo annuale di gas, che per il 2021 si è attestato a 74,1 miliardi di metri cubi. 

A queste stime va aggiunto il non meglio specificato “incremento della capacità dei rigassificatori esistenti” citato dal ministro Fratin. In realtà le stime sono note: a Livorno l’obiettivo è di aumentare la capacità di rigassificazione a 5 miliardi di metri cubi all’anno, a Rovigo si intende passare dagli attuali 9 miliardi agli 11 miliardi previsti dal 2025 mentre a Panigaglia da alcuni mesi si sta assistendo a una ripresa dei lavori che dovrebbero portare a giungere presto al picco della capacità di 3,5 miliardi, finora mai raggiunto.

In poco più di tre anni, dunque, l’obiettivo è di far funzionare a pieno regime i tre rigassificatori esistenti e di aggiungerne altri due alla lista. In prospettiva i rigassificatori potrebbero comunque diventare sette, dato che nelle linee programmatiche il ministro Fratin ha rispolverato dai cassetti i due progetti di Porto Empedocle, in Sicilia, e di Gioia Tauro, in Calabria. Accomunati entrambi dal fatto di avere un iter tortuoso alle spalle e di essere considerati strumenti di passaggio per portare il gas dal Sud al Nord e dall’Africa all’Europa.

Dell’infrastruttura siciliana si discute da quasi 20 anni. Come ricorda Il Fatto Quotidiano:

Presentato nell’agosto 2004 alla Regione Siciliana da Enel, attraverso la controllata Nuove Energie, il progetto aveva ottenuto la valutazione di impatto ambientale con prescrizioni a settembre 2008 e l’autorizzazione ad ottobre 2009. Anche se solo a luglio 2011, con la sentenza del Consiglio di Stato, dopo il pronunciamento sfavorevole del Tar del Lazio a dicembre 2010, la questione si era risolta. Parzialmente, considerando che il cantiere una volta avviato era stato sequestrato a settembre 2013 dalla DDA di Palermo per presunte infiltrazioni mafiose. Accuse venute a cadere nel 2016. Nel progetto approvato il terminal aveva una capacità di 8 miliardi di metri cubi all’anno, con – unico in Europa – due serbatoi interrati da 160.000 m3. I lavori per la costruzione sarebbero durati 54 mesi impiegando fino a 900 persone. In esercizio, invece, il rigassificatore avrebbe offerto lavoro a 120 persone, 200 con l’indotto. Non era tutto: erano previste opere “compensative” per circa 50 milioni, dedicate allo sviluppo della zona.

La guerra in Ucraina ha convinto Enel a tornare sul progetto che era stato “messo in naftalina”, così come dichiarato lo scorso aprile dall’amministratore delegato Francesco Starace, il quale ha aggiunto che l’azienda è pronta a investire un miliardo di euro per l’infrastruttura e che l’opera gode già dei permessi necessari. 

Simile scenario per il rigassificatore di Gioia Tauro: se ne discute da 17 anni, costerebbe anch’esso un miliardo di euro, solo che in questo caso a realizzarlo sarebbero Iren e Sorgenia. Recentemente la rivista Formiche ha fornito qualche informazione in più:

Con la sua capacità di 12 miliardi di metri cubi sarebbe il più importante impianto di ricezione di GNL dai nuovi giacimenti del Mediterraneo, ma anche da Nigeria, Qatar, Algeria e dai nuovi impianti di liquefazione africani di Mozambico e Congo, operati dall’ENI. Soprattutto l’impianto a Gioia Tauro sarebbe il punto naturale di arrivo del gas dei nuovi giacimenti al largo di Israele ed Egitto e ad occidente di Cipro. In Egitto sono già attivi due impianti che producono Gnl cui è facile e rapido aggiungere altra capacità di liquefazione. La Ue, nell’accordo di collaborazione sottoscritto lo scorso giugno, si è impegnata a favorire e collaborare con l’Egitto per l’esportazione di Gnl verso l’Europa. Questo progetto servirebbe anche a diversificare le forniture di Gnl da sud verso il centro Europa e soprattutto verso la Germania, in aggiunta e in sinergia con gli impianti di ricezione del Gnl che Berlino sta progettando e costruendo sulle coste del Mare del Nord. Ne avrebbe un vantaggio anche il confronto di prezzo, se non altro perché il tragitto via nave sarebbe più breve e il gas dal Mediterraneo si può immettere nella rete italiana verso i due gasdotti che attraversano le Alpi in contro flusso.

Finita? Ufficialmente sì. Anche se, come ricordava lo scorso maggio Il Corriere della Sera, pur se non citate espressamente dal ministro Fratin, ci sono altre infrastrutture  da considerare:

C’è un’altra Regione in cui è prevista la realizzazione di nuovi impianti ed è la Sardegna. Il 31 marzo è stato approvato il Dpcm «Sardegna» che prevede un piano gas per l’isola, nato a dire il vero prima dello scoppio della guerra tra Russia e Ucraina e che completa la mappa dei nuovi rigassificatori previsti nel nostro paese nei prossimi anni. Anche qui entreranno in azione due navi metaniere: una fissa nel porto di Portovesme (Carbonia-Iglesias) con capacità di stoccaggio adeguata a servire il sud industriale e il bacino della Città metropolitana di Cagliari, un’altra a Porto Torres (Ss) con capacità adatta a servire il nord industriale e il bacino di Sassari.

Snam ha già avviato le gare per acquistare le due Fsru (le navi rigassificatrici galleggianti, nda) che sono più piccole rispetto a quelle che il gruppo guidato da Stefano Venier sta cercando per l’Italia continentale. Il gas arriverà in Sardegna grazie a due navi «spola» che partiranno dai terminali di Panigaglia (La Spezia) che quest’anno festeggia 50 anni di attività e Olt (Livorno). Il sistema prevede anche un impianto di rigassificazione a Oristano per servire l’area. 

Dal Sud al Nord

Quel che appare chiaro è che puntando in maniera così massiccia sul GNL l’Italia intende confermarsi paese importatore di energia. La predilezione italiana (ed europea) per il GNL, il gas considerato “pronto all’uso” e sospinto dagli addetti ai lavori, si spiega, come abbiamo già visto, con una maggiore rapidità di approvvigionamento. Ma il governo Meloni non dimentica i più classici gasdotti. È il caso del raddoppio del TAP (Trans Adriatic Pipeline), il contestato gasdotto che porta il gas dall’Azerbaijan all’Italia attraversando la Grecia e l’Albania per poi sfociare nel mare Adriatico e da lì fino alla Puglia, dove poi si connette alla rete di distribuzione nazionale. Entrato in funzione a fine 2020, nell’ultimo anno ha portato in Italia quasi 10 miliardi di metri cubi di gas, giungendo a ridosso della capacità massima. Lo scorso 8 novembre le Autorità di Regolazione dell’energia di Albania (ERE), Grecia (RAE) e Italia (ARERA) hanno approvato congiuntamente le regole per la prima fase che dovrebbe portare alla cosiddetta “capacità incrementale” entro il 2027, vale a dire il raddoppio della capacità del TAP a 20 miliardi di metri cubi di gas attraverso l'aggiunta lungo il percorso di due stazioni di compressione e di alcune sostanziali modifiche alle unità esistenti.

In questo scenario così complesso il Sud Italia diventerebbe prevalentemente un bacino di esportazione del gas. Tranne nel caso della Sardegna, infatti, tutte le altre opere fin qui citate - i rigassificatori di Porto Empedocle e Gioia Tauro nonché il raddoppio del Tap - non prevedono di distribuire l’energia ai territori che lo ospitano. Vale lo stesso anche per il gasdotto Argo-Cassiopea, al largo delle coste siciliane tra Gela e Licata, al momento l’unico giacimento certo che può contribuire al “programma di aumento della produzione di gas nazionale”, per dirla ancora con le parole del ministro Fratin. “Tali volumi aggiuntivi di gas - si legge ancora - saranno messi a disposizione del settore industriale, a prezzi più equi rispetto a quelli di mercato, tramite procedure di approvvigionamento di lungo termine gestite dal Gestore Servizi Energetici”. L’unico elemento che Fratin dimentica di sottolineare è che anche questo gas prenderà la via del Nord. Ma d’altra parte è ciò che mette nero su bianco l’ultima infrastruttura citata nelle linee programmatiche del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica: si tratta della Linea Adriatica, che Snam intende realizzare entro il 2027 al costo di 2.4 miliardi di euro.  

Nella relazione integrativa presentata ad Arera lo scorso novembre, Snam definisce la Linea Adriatica la “principale infrastruttura abilitante nuove opportunità di importazione di gas, consentendo di incrementare la capacità del sistema lungo la direttrice Sud-Nord di ulteriori 10 miliardi di metri cubi all’anno e rilassando i vincoli di trasportabilità esistenti all’interno della rete”. Lo scopo è di aumentare il flusso di gas che parte da ognuno dei punti di entrata da Sud - Mazara del Vallo con il gasdotto Transmed dall’Algeria, Gela con il gasdotto GreenStream dalla Libia e Melendugno con il gasdotto Tap - per condurre il gas verso la Pianura Padana. 

A ottobre il disegno era stato già anticipato da un articolo de Il Corriere della Sera, poco apprezzato in Abruzzo perché aveva definito la centrale di compressione di Sulmona, poi approvata a fine novembre, un “imbuto”:

L'obiettivo non più procrastinabile: rovesciare la direzione prevalente dei flussi di gas nel paese. Ribaltando lo Stivale, da Sud verso Nord. Se Mosca sta ormai chiudendo i rubinetti dal punto di ingresso di Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia, è diventato necessario ripensare l’attuale rete di distribuzione di Snam costruendo tre nuove tratte di metanodotti sulla linea adriatica e una nuova centrale di compressione sugli appennini abruzzesi, in un nuovo snodo strategico per la nostra indipendenza energetica individuato a Sulmona, dove l’infrastruttura di gasdotti di Snam al momento si ferma senza proseguire oltre. Una rivoluzione copernicana che cambia il nostro modello inaugurando l’epoca del reverse flow, i flussi inversi verso il Nord, compreso il Nord Europa (...) La particolare conformazione manifatturiera del Paese sbilancia la domanda di gas verso Nord — in testa in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna — per il fabbisogno delle grandi fabbriche energivore «affamate» di metano e di elettricità, quest’ultima trasformata dalle centrali termoelettriche a gas, materia prima che incide quasi al 50% nel nostro mix energetico. 

Fonte: SNAM

La crisi energetica? “Un’opportunità” per ENI e Snam

Per comprendere ancora meglio la strategia dell’Italia è utile inquadrarla in una cornice più generale, efficacemente sintetizzata da Rivista Energia, che riprende un articolo di Jason Bordoff (Columbia University) e Meghan L. O’Sullivan (Harvard Kennedy School) originariamente pubblicato su Foreign Affairs, in cui si parla della transizione verso un nuovo ordine energetico:

Il nuovo ordine sarà definito dal duplice imperativo della sicurezza energetica e dell’azione per il clima. Perseguirli entrambi senza comprometterli richiederà sia di fare leva sui mercati, ma anche un ruolo molto più ampio per il governo. Senza quest’ultimo, il mondo non riuscirà a garantire la sicurezza energetica o vivrà gli effetti peggiori del cambiamento climatico. O, peggio ancora, entrambi. Insieme, queste due priorità sono destinate a ridisegnare i piani energetici nazionali, i flussi energetici e, in generale, l’economia globale. I paesi porranno maggiore attenzione al loro interno, privilegiando la produzione energetica nazionale e la cooperazione regionale, anche se puntano alla transizione verso emissioni carboniche neutrali. Se i paesi si ritirano all’interno di blocchi energetici strategici, la tendenza pluridecennale verso una maggior interconnessione energetica rischia di avviare un’epoca di frammentazione energetica. Ma oltre al nazionalismo economico e alla deglobalizzazione, il nuovo ordine energetico mondiale sarà caratterizzato da fattori che pochi analisti hanno pienamente apprezzato: intervento dei governi nel settore energetico con un’intensità inedita in tempi recenti. Dopo quattro decenni durante i quali hanno cercato di ridurre il proprio ruolo nei mercati energetici, i governi occidentali oggi riconoscono la necessità di accrescere la propria presenza su tutti i fronti, dalla costruzione (e smantellamento) delle infrastrutture fossili all’influenzare le decisioni di imprese private su dove comprare e vendere energia al fine di limitarne le emissioni attraverso il prezzo del carbonio, sussidi, obblighi e standard.

La futura Italia del gas ha però una caratteristica unica, cioè il fatto che i due maggiori colossi del settore, ENI e Snam, hanno come socio di maggioranza proprio lo Stato italiano. Senza voler andare indietro nel tempo e senza voler fare un’analisi dei legami tra le due aziende e lo Stato, la tesi dell’Italia come hub del gas era stata (ri)lanciata lo scorso maggio da Snam. Nel suo bollettino Energy Morning l’azienda aveva riassunto i contenuti del brief “Sicurezza energetica: quali prospettive oltre l’emergenza?”, realizzato da Cassa Depositi e Prestiti, vale a dire il socio di maggioranza di Snam (così come per ENI), con una quota del 30%. Tra le conclusioni si legge che:

Grazie al posizionamento strategico e alla valorizzazione di reti e porti, l’Italia potrebbe candidarsi a diventare un hub di accesso al gas naturale e, in futuro, anche dell’idrogeno, facendo da ponte tra le due sponde del Mediterraneo e riacquisendo quella centralità che il posizionamento geografico e storico le hanno sempre assegnato.

Nella nota di Snam si punta anche su una possibile conversione a idrogeno dei gasdotti: un pallino del vecchio amministratore delegato Marco Alverà che però, al momento, è poco più di un progetto (col solito orizzonte temporale al 2050) e avrà bisogno di alcuni anni (se non decenni) per diventare eventualmente effettiva al 100%. L’ultimo test in tal senso punta a far scorrere una quota del 20 per cento di idrogeno in una miscela ibrida col gas. A novembre, poi, la presentazione dei risultati aziendali dei primi nove mesi del 2022 era stata l’occasione per Stefano Venier, amministratore delegato di Snam, per parlare della crisi come di un’opportunità:

Con l'ottenimento delle autorizzazioni per la messa in funzione delle navi rigassificatrici si concretizza il primo tassello del rimodellamento della sicurezza energetica nazionale, che dovrà essere presto accompagnato da un potenziamento delle infrastrutture di trasporto e stoccaggio e da un'accelerazione delle iniziative per la transizione, su cui Snam conta di giocare un ruolo di primo piano. Solo così potremo trasformare la crisi attuale in un'opportunità per la costruzione del futuro paradigma energetico.

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Ancor più esplicita, poi, è stata ENI che sta giocando non solo l’abituale ruolo da protagonista nella politica energetica italiana ma dalla guerra in Ucraina ha scelto pure di esporsi pubblicamente. Prima con il tour energetico che, tra marzo e maggio, ha visto l’amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi accompagnare o anticipare la visita dell'ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Poi, appunto, con la tesi, ripetuta svariate volte in questi mesi, secondo la quale per diminuire il prezzo del gas non basta il price cap ma “serve che ci sia un’offerta molto maggiore rispetto alla domanda”. Per quale motivo? Lo ha spiegato lo stesso amministratore delegato della società energetica a fine ottobre, in occasione della premiazione degli Eni Awards. “Il gas ci accompagnerà ancora per molto tempo e quindi abbiamo bisogno di una ridondanza di infrastrutture - ha detto - La Spagna ad esempio consuma 30 miliardi di metri cubi di gas e ha una capacità per 65-70 miliardi (di gnl, nda). Noi ne consumiamo 75 miliardi e abbiamo una rigassificazione per 17 miliardi di metri cubi”. Una tesi rincarata poi a fine novembre nel corso del convegno Lombardia 2030, in cui l’ad di Eni ha aggiunto che “dobbiamo aumentare di almeno 6-7 miliardi di metri cubi gli stoccaggi, è alla base della sicurezza energetica”, sottolineando che "il Sud può essere sede di rigassificazione, ma dobbiamo sbloccare le linee che da Sud vengono a Nord, perché la loro capacità è molto bassa". In pratica sono le linee programmatiche ripetute poi dal ministro Fratin. In tutta Italia, intanto, si sta estendendo un’opposizione a questa rete di rigassificatori che dovrebbero consentire, se avviati tutti quanti, un surplus di offerta di gas e legherebbero l’Italia per decenni a quello che rimane un combustibile fossile. Con tanti saluti agli sbandierati impegni di riduzione delle emissioni di gas serra. 

La paura di restare senza energia non può costituire un alibi per non affrontare adeguatamente una crisi climatica che, come ci sta dimostrando ancor di più questo schizofrenico inverno, è diventata il nostro più urgente e drammatico presente.

Immagine in anteprima via Financial Times

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