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Perché Internet è la distopia del nostro tempo

13 Gennaio 2016 35 min lettura

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Perché Internet è la distopia del nostro tempo

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Tempo stimato di lettura: 40 minuti

Quando Internet cancellava le guerre
Ascesa e declino del cyberspazio
Non c’è gravità su Internet
Tutti vincono, noi perdiamo
Ribelli nella casa d’ispezione
Contro l’ideologia del “tutto connesso”
Ripensare i social network

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Il cyberspazio è morto, se mai è esistito. La rete, Internet, non è mai stata uno stato di “allucinazione consensuale”, come per il ‘Neuromante’ di William Gibson. Il virtuale non si è (ancora) sostituito al reale, ma promette piuttosto di integrarlo in quella che abbiamo chiamato “realtà aumentata”. E la mente e i bit non sono tutt’uno; semmai dialogano con una costanza e una memoria che sempre più chiamiamo “sorveglianza”, “controllo”, “propaganda” digitale, senza precedenti nella storia umana. Ciò che invece è vivo e vegeto è l’ambiente circostante il cyberspazio, il milieu in cui proliferano le storie dei profeti di sventura tecnologica e umana degli anni 80-90. Lo abbiamo definito con una intera categoria stilistica, il “cyberpunk”; ma, tradotto e attualizzato, il termine restituisce un’impressione ben più familiare al comune utente della rete sociale, vent’anni dopo.

È una visione oscura, apocalittica dell’impatto sociale, politico e umano della tecnologia, in particolare della pervasività totale delle tecnologie della comunicazione nelle vite degli individui. I mondi cyberpunk sono bui, nebbiosi, sporchi, sopraffatti da un inquinamento senza tregua che ricorda quello che oramai perfino gli organi di propaganda del partito comunista sono costretti a documentare nelle megalopoli cinesi.

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Sono anche mondi iperurbanizzati, infelici, caotici, dove vige una strana religione del tempo reale e della connessione permanente. Mondi i cui abitanti non paiono curarsi dell’invadenza delle tecnologie nelle esistenze private, del loro farsi veicolo della violazione dei più elementari diritti civili. Peggio: del loro farsi strumento di una distruzione indifferente del potere degli Stati e dei governi, sottomessi al volere di megacorporazioni private che si trovano, per il denaro e l’influenza che accumulano, a dettare legge alla legge, assumendo le proporzioni di colossi monopolistici al di là del bene e del male politico. In quei mondi c’è poi lo spettro di super-intelligenze artificiali capaci di opporsi o sedurre mortalmente la nostra, oltre a un’ansia spasmodica di ribellione - tramite il codice e l’hacking - per sfuggire a un controllo divenuto decadente ma totalitario, a qualche modo, capace di intaccare la personalità dei singoli, di alterarne e direzionarne i comportamenti.

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E ci sono esplosioni casuali di violenza e barbarie, come se un passato ancestrale, animalesco, non potesse che fare breccia tra le resistenze e le norme sociali imposte dalla tecnologia. La potenza liberatrice e dissacrante di ‘Ranxerox’ ne fornisce uno degli esempi più vividi. Per questo, scrive Bruce Sterling nella prefazione a ‘Mirrorshades’, il cyberpunk è «una non-santa alleanza del mondo della tecnica con quello del dissenso organizzato» - nella cultura pop dei primi 80, e in particolare negli stilemi della musica rock - ma anche e insieme un rapporto “viscerale” con la tecnologia. Una tecnologia non più sinonimo di scienza confinata nella sua “torre d’avorio” - protetta da una “distratta tecnofilia” - ma “pervasiva, terribilmente intima”; non “fuori di noi”, ma “molto vicina a noi”.

Come nelle prospettive prossime venture per l’Internet delle Cose, i device per la realtà aumentata o quelli per la quantificazione del sé, la tecnologia di cui parlano gli autori cyberpunk «sta sotto la nostra pelle: spesso, dentro le nostre teste», scriveva ancora Sterling, uno dei padri di quel movimento letterario e culturale. E il mondo che racconta è “disordinato”, post-utopico più e prima che post-moderno, fatto di «caos multiculturale e costanti messaggi pubblicitari», di «macchine per l’intimità e media digitali», come riassume Henry Jenkins per il sito del MIT di Boston. Sì, se il cyberspazio vive solo nella promessa, finalmente apparentemente giunta all’ora decisiva, di una massificazione del virtuale tramite device come Oculus Rift o la sua integrazione con social network come Facebook, il cyberpunk è ovunque.

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Quando Internet cancellava le guerre

Ed è una notizia. A prendere sul serio i proclami dei suoi massimi teorici, la rete non avrebbe dovuto, venticinque anni dopo la sua commercializzazione e introduzione alle masse, nemmeno consentire l’analogia. La finzione, l’incubo anti-utopico, avrebbe dovuto rimanere tale: un monito a futura memoria, una fantasia letteraria e non una descrizione, caricaturale ma esatta, del nostro mondo iperconnesso. Internet, al suo atto di nascita, era infatti sinonimo di utopia, non del suo contrario. O almeno, questa era la visione dominante tra gli esperti e nei media di massa. Come ricorda Matthew Lasar in uno splendido compendio su Ars Technica, gli anni in cui la letteratura e il cinema si interrogavano sui rischi di una società sempre connessa - pur se al “virtuale” più che al “digitale” - sono gli stessi in cui l’idea che l’umanità in rete sarebbe stata a breve redenta per il semplice fatto di essere in rete era un dogma raramente messo in discussione. Internet avrebbe cancellato le disuguaglianze, ricorda Lasar, ci avrebbe liberato dalle catene dei governi e dell’identità personale, e connettendoci tutti avrebbe perfino reso impossibile la guerra. Nel 1997 il capo del laboratorio tecnologico del MIT di Boston aveva potuto spingersi fino a sostenere che in un ventennio la rete avrebbe portato la pace a livello globale al punto che quelli che avremmo per un pezzo chiamato “nativi digitali” non avrebbero nemmeno compreso il significato della parola “nazionalismo”.

Per comprendere quanto profonda sia la distanza tra quell’utopia e la realtà non serve leggere il meraviglioso resoconto critico della bugia del cosmopolitismo digitale fornito da Ethan Zuckerman in ‘Rewire’: basta scorrere le cronache che raccontano l’ergersi di fili spinati e muri in tutta Europa, segnando la fine del sogno di Schengen. Ma allora non si parlava di una disoccupazione tecnologica tale da colpire perfino i lavori intellettuali, automatizzando il giornalismo come il management, al punto di lasciarci meditare su cosa significhi lo spettro stesso di una intera società “post-professionale”. Si sognavano invece menti collettive connesse, capaci di raggiungere il divino (Mark Pesce) o uno stato di progressione tale da diventare indescrivibile in termini umani (la “singolarità tecnologica” di Ray Kurzweil), con benefici incalcolabili. Niente di particolarmente originale: ogni conquista nel campo delle comunicazioni è stata salutata con lo stesso slancio utopistico. Eppure per la “rivoluzione digitale” si è sempre, nella vulgata utopistica, contestualmente diffusa l’idea che non fosse come le altre volte: che questa rivoluzione fosse destinata a rivoluzionare tutto davvero, e in meglio. In molti casi addirittura senza sforzo, come fosse il risultato necessario dello sviluppo stesso della Storia o di una serie di leggi di natura. La rapidità del progresso, insieme alla profondità dei cambiamenti, delle “disruption” apportate al corpo sociale dalle tecnologie di rete, non ne sono che la conferma. A meno di pensare, con David Graeber, che invece di accontentarci dei social network avremmo dovuto forse chiederci dove sono finite le macchine volanti che ci erano state promesse prima che i computer e l’idea di connessione diventassero il centro dell’universo.

Ascesa e declino del cyberspazio

Il senso di sfida del mondo connesso alle istituzioni dello status quo e del reale, così come la percezione netta della sua ineluttabilità, è tutto rinchiuso nella ‘Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio' che John Perry Barlow stese nel 1996 in una accalorata risposta al primo tentativo dei governi del vecchio mondo di normalizzare il nuovo: il passaggio del Communications Decency Act che prevedeva due anni di carcere per chiunque diffondesse “consapevolmente” immagini “offensive”, secondo gli standard morali e sociali vigenti, a minori per via informatica. Quel vecchio mondo, scriveva Barlow, può legiferare e reprimere quanto vuole, tanto “non ha sovranità” sul nuovo, quello in cui risiede “la Mente” (collettiva): «Dichiaro lo spazio che stiamo costruendo naturalmente indipendente dalle forme di tirannia con cui volete soggiogarci». Soprattutto, sono le sue imposizioni a diventare strutturalmente inapplicabili: «Stiamo creando un mondo a cui chiunque possa avere accesso senza privilegi o pregiudizi accordati secondo razza, potere economico, forza militare, o luogo di nascita», proseguiva il poeta e saggista; un mondo «in cui chiunque, ovunque, possa esprimere i suoi pensieri, indipendentemente da quanto siano singolari, senza il timore di essere costretto al silenzio o al conformismo».

Il cyberspazio, insomma, avrebbe dovuto essere libero da disuguaglianze, pregiudizi e censura per il semplice motivo di essere un luogo dove non si applicano le leggi della “materia”. Cory Doctorow è intervenuto a difesa delle parole di Barlow sul Guardian, diciannove anni dopo, sostenendo si trattasse di un “bellissimo sfoggio di retorica” più che della reale convinzione che l’immateriale fosse automaticamente ingovernabile secondo la nozione e gli strumenti tradizionali del “governo”. E certo, il progetto di Barlow era ben più articolato della sua Dichiarazione, prendendo corpo soprattutto in quella Electronic Frontier Foundation che ancora oggi è in prima linea, a volte con successo, nella lotta per i diritti digitali. Ma è perfino banale notare quanto parole simili suonino inattuali, e sarebbero considerate pura e semplice follia se scritte oggi. Non è questione di pentimenti individuali: è semplicemente mutata la percezione collettiva della rete, e in profondità. Lo hanno riconosciuto perfino David Weinberger e Doc Searls, nelle loro ‘Nuove Idee’ per aggiornare il ‘Cluetrain Manifesto’ con cui proclamavano che, nell’era connessa, «i mercati sono conversazioni», i consumatori ridiventano finalmente esseri umani e i link “sovvertono le gerarchie”. «Tutto ciò che di buono abbiamo fatto insieme finora corre pericoli mortali», scrivono invece ora. Senza tuttavia rinnegare l’entusiasmo di un tempo: «Abbiamo ancora la fede iniziale», si legge tra passaggi che a tratti ricordano il linguaggio imbevuto di ideologia californiana degli albori (“la gravità della connessione è amore”). Insomma, «non è che il cyber-utopismo è sbagliato. È che i valori di Internet non si realizzeranno senza il nostro aiuto». L’utopia sarà anche corretta, ma ridisegnarla a questo modo è un colpo mortale, se - come è vero - al suo fondamento c’è un’ideologia fondata essenzialmente sull’idea deterministica di un progresso egualitario, distribuito, collaborativo, realmente innovativo e democratico grazie a Internet. Ovvero, sul contrario di quanto è in buona parte accaduto e, senza l’irruzione improvvisa di quell’aiuto, continuerà ad accadere.

Oggi per comprendere quante volte sia stata falsificata quella profezia paradisiaca basta fissare un occhio sull’attualità, e un altro sui prodotti culturali che sempre più informano la nostra visione del rapporto tra uomo e tecnologie dell’informazione. Al sogno di libertà dalla censura tramite la rete si è sostituita la realtà del controllo globale descritta da Edward Snowden e dai sempre più numerosi rapporti sull’aumento della sorveglianza e della repressione digitale in democrazie e regimi autoritari in tutto il mondo. All’assenza di pregiudizi online, la realtà della prosecuzione per via digitale di quelli che affollano il mondo analogico. Quanto alle disuguaglianze, sono talmente elevate da rappresentare il motore del dibattito politico e della realtà sociale oltre un quarto di secolo dopo la rivoluzione che avrebbe dovuto eliminarle dalla storia umana. I cittadini sembrano non essersene in buona parte nemmeno accorti, come dimostrano le insufficienti reazioni al Datagate - che infatti si replica giorno dopo giorno nei nuovi progetti di legge post-Charlie Hebdo. Ma sempre più larghi settori della cultura, invece, sì. Da quando, con la reazione agli attentati terroristici del 2001, è divenuto evidente che la rete era - eccome - un terreno di scontro politico, le antiutopie tecnologiche non hanno fatto che moltiplicarsi.

Forse uno dei maggiori lasciti di Snowden è proprio l’aver rappresentato per il tema della sorveglianza digitale ciò che i Nirvana hanno rappresentato per il rock: un nuovo, insostituibile veicolo per portare alle masse, alla cultura pop, ciò che prima circolava solo nelle nicchie di attivisti e degli esperti di sicurezza informatica, o sui palchi di Seattle, tra i seguaci del grunge. Stimolati dai resoconti di cronaca, scrittori, registi, fumettisti hanno ricominciato a immaginare il mondo secondo linee cyberpunk: il dominio delle megacorporazioni, certo, non è più quello della Tyrell di ‘Blade Runner’ ma del Google+Facebook di ‘The Circle’, e ai replicanti si sono sostituite le notifiche senza sosta che annoiano - ma riempiono - la vita della protagonista Mae. Ma se il contenuto è diverso, la forma è la stessa: si tratta di soggetti che hanno il potere di vita e di morte sulle nostre vite, e che lo detengono in modo pressocché assoluto proprio grazie alla tecnologia. Per questo ‘The Private Eye’ immagina un mondo in cui la catastrofe non è la fine dell'umanità ma della rete, una catastrofe per giunta decisa per ridare a quel mondo una parvenza di riservatezza (tutti comunque si mascherano come un carnevale, per “offuscarsi”).

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Per questo l’intera serie ‘Black Mirror’ ruota intorno all’idea di una sorta di “dittatura dell’istantaneo" che si intromette nelle vite sentimentali, nel ricordo, nella politica, nel sistema della giustizia, nell’idea stessa di punizione, distruggendo ogni parvenza di umanità. Tutti moniti sulle derive distruttive di un affidamento cieco alla connessione come unità di misura del mondo - nel “virtuale” degli anni 90 o nel “social” di oggi, poco importa.

Non c’è gravità su Internet

Quel che importa è che qualcosa è andato storto, ed è l’unico aspetto che appare inevitabile della vicenda dell’introduzione di Internet nel mondo. No, ricorda Evgeny Morozov, la rete non è regolata da leggi immutabili come la gravità, e che si possa ancora sostenere in un dibattito accademico il contrario è semmai «un segno di quanto acritico sia diventato il dibattito su “Internet”». Piuttosto, come scrive il collettivo Ippolita, «La Rete non è un’entità dotata di una natura fissa e immutabile né di caratteristiche invarianti. È composta da macchine meccaniche (computer, cavi, router), da macchine semiotiche (codici e linguaggi) e da macchine biologiche (esseri umani) che interagiscono fra loro in maniera estremamente complessa». Di conseguenza, farne la base di una speranza utopica è un costrutto ideologico, puramente ideologico. La fede, cioè, che rende attraente tutta una serie di precetti pratici su come regolamentare o non regolamentare Internet, e dunque buona parte dei rapporti economici che stanno al centro dell’ecosistema attuale della rete. L’insieme di credenze utopistiche che ne fanno un organismo cinico, capace di reggersi su domini monopolistici, disuguaglianze crescenti, diritti al collasso e il diffondersi di una pericolosa accettazione di ogni forma di manipolazione e propaganda si presenti sotto l’allettante veste della “viralità” da social media.

Quali sono questi precetti? Per esempio, l’idea che sia opportuno affidare a un colosso come Facebook, e non a soggetti pubblici, la missione di connettere i due terzi del mondo che ancora non accedono a Internet. E se ciò significa trasformare la “neutralità della rete” in una insignificante e bugiarda “uguaglianza digitale”, è semplicemente il prezzo da pagare. Vorrà dire che per miliardi di persone sarà a Facebook, con i suoi partner, a decidere se connettersi a Internet significhi disporre o meno di sicurezza informatica, scegliere in liberà a quali siti accedere, e in ultima analisi essere ancora in grado di distinguere tra un social network e Internet. Un ulteriore precetto è che sia lecito fare di qualunque settore dell’attività umana una provincia dell’impero del mercato tramite la “sharing economy” ; l’idea, cioè, che condividere un divano o dare un passaggio sia un sostituto o anche solo un complemento del lavoro, e dunque dello stato sociale. Anche se di fatto vuol dire rinunciare a diritti, tutele, ovviare a normative che per tutti gli altri invece valgono e, di passaggio, annunciare l’inevitabilità della resa ai taxisti robot, nel prossimo futuro, come vorrebbe Uber.

Altre mistificazioni ideologiche dell’utopia del “tutto connesso”? L’idea per cui tutto ciò che è buono è digitale, e tutto ciò che è digitale è buono - nella scuola come nella pubblica amministrazione, nel governo centrale e nelle amministrazioni locali, nei progetti di partecipazione online come nel dispiegarsi del dibattito pubblico. La bugia della “trasparenza”, sempre invocata dai controllori per raggranellare residui di consenso - e sempre applicata ai soli controllati. La “fine della teoria”, teorizzata da Chris Anderson, nelle correlazioni statistiche dei “big data”. L’automazione di quasi tutto, senza conseguenze negative per il lavoro e la vita. L’innocenza del tracciamento di ogni attività a scopi pubblicitari. La menzogna del capitalismo fai-da-te delle startup, sempre buone e sempre modello di sviluppo e innovazione - quando i livelli di concentrazione di ricchezza non sono mai stati pari a quelli oggi raggiunti dai giganti tecnologici. L’illusione che “digitalizzare” sia sempre sinonimo di “rivoluzionare”. Più in profondità, a livello umano e individuale, il “tutto connesso” impone che un contatto in più, sia un amico o un collega, sia sempre meglio. Che un tweet, un commento, un mi piace in più siano sempre meglio di uno in meno. È questa l’essenza della promessa utopistica della rete, oggi: non più una condivisione di conoscenza e coscienza totale e immediata, dirompente al punto di mettere in ginocchio tutte le forme di potere costituito, ma una più modesta connessione di più o meno sconosciuti a mezzo di strutture private perfettamente controllate dalle istituzioni - le stesse che rappresentano, peraltro, proprio il vecchio volto del potere che si voleva combattere, pur se con abiti nuovi, e più seducenti.

Dall’origine a oggi, l’utopia di Internet non è nemmeno più la stessa: ciò che ieri sembrava inevitabile è relegato alle immaginifiche e para-scientifiche visioni dei “transumanisti” che con la tecnologia vogliono sconfiggere la morte, diventare tutt’uno con l’informazione. Google ha vinto, ma la sua radicale distribuzione di conoscenza non ha distrutto né l’ignoranza né il potere, che su quell’ignoranza continua invece a costruire le proprie fortune. Tutto ciò che Google ha distrutto sono i rivali di Google.

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Il problema è che ciò è avvenuto con la stessa suadente invisibilità del potere giapponese in ‘The Man in The High Castle’ di Philip Dick. Siamo davvero ridotti a pensare, come i suoi soggiogati protagonisti, che «potevamo stare peggio di così» - nel nostro caso, senza la rete. Davvero, come il Robert Childan che ragiona sul senso degli artefatti della sua cultura in via di dissolvenza, siamo portati a dire che «siamo sconfitti, e le nostre sconfitte sono così tenui, così delicate che siamo a malapena in grado di percepirle». Vale per il controllo totalitario in Dick come per il controllo iperconnesso odierno. Ed è qui che finisce l’utopia e si tramuta nel suo contrario: nell’accettazione indifferente dell’esistere online come sudditi senza voce, invece che come cittadini consapevoli (che non è lo stesso di “empowered dalla Silicon Valley”). Un fenomeno difficile da spiegare se non si indaga la natura profonda dell’ecosistema della rete, così come si configura oggi e non come la immaginavano gli utopisti. E indagarlo davvero significa smentire l’assunto per cui è un luogo dove non vigono rapporti di potere gerarchico, economico e politico; piuttosto, si tratta di individuarne la fonte, e capire come mai continui a non incontrare una più decisa opposizione nell’opinione pubblica.

Tutti vincono, noi perdiamo

I livelli di analisi sono due. Il primo riguarda quello che viene comunemente definito come il “petrolio” della nostra era: i dati. Chi possiede i nostri dati, chi li tratta e come? La domanda è semplice e insieme complessa. Semplice perché dovrebbero essere norme e condizioni di utilizzo a rispondervi; complessa perché, guardando appena oltre il filantropismo delle mission aziendali dei colossi web (Do no evil!), l’apparente innocenza del gergo adottato dagli uffici relazioni pubbliche, e i buoni propositi dei regolatori di tutto il mondo - chi mai potrebbe opporsi all’idea che la rete debba essere “libera”? - si scopre che quelle norme e condizioni di utilizzo valgono solamente fin quando non valgono più. E noi, gli utenti, nemmeno ce ne accorgiamo. Finché non è troppo tardi. Nel frattempo siamo cavie in esperimenti continui di data scientist che, per rendere più efficiente un algoritmo, giocano con le nostre emozioni o preferenze politiche; soggetti sperimentali il cui “consenso informato” è la firma annoiata che apponiamo con un click sulla casella “I agree”. Il nostro mondo, filtrato dagli algoritmi di “personalizzazione” di Facebook, Google, Amazon, diventa una sorta di “autopropaganda” (Eli Pariser) che ci indottrina con i nostri stessi contenuti. E la giustificazione ultima, non esattamente nobile, è unicamente l’efficienza di fornirci offerte pubblicitarie che parlino proprio a ciascuno di noi. Siamo anche tutti sospetti criminali o terroristi, grazie alla stessa dinamica di affidamento indifferente dei nostri dati più personali ai gestori di motori di ricerca, social network e di tutti i servizi gratuiti che compongono la rete sociale. Perché il tracciamento diventa il serbatoio a cui le agenzie di intelligence di tutto il mondo possono attingere più o meno indiscriminatamente. Se poi qualcuno dovesse mai osare alzare la voce contro nuove norme repressive, la soluzione è semplice: o lo si zittisce, o si creano leggi che legittimano gli abusi, normalizzandoli a posteriori.

"Potevamo stare peggio di così"? Certo, è questo il problema. Le aziende che gestiscono i dati non potrebbero stare meglio, perché grazie alle tracce che lasciamo sul web raggiungono profitti ineguagliati nella storia del capitalismo. I governi anche potrebbero passarsela peggio, visto che ogni fallimento dell’intelligence può essere ricondotto a una carenza di dati, a una zona della rete “rimasta al buio” (gone dark) e proprio per questo di certo responsabile dell'ennesimo attentato non previsto o sventato, nonostante gli attentatori fossero tutti o quasi in qualche database. In più, ricondurre il terrorismo a un problema comunicativo è comodo: aiuta a deviare l’attenzione da pericolosi discorsi geopolitici, dalle guerre - che comunque continuano, pur se con altri mezzi o altri nomi - o dalle proprie insanabili contraddizioni (nella coalizione che contrasta ISIS, non c’è altro). Ancora, senza i collettori di “petrolio” privati il lavoro di controllo dei governi sui governati sarebbe terribilmente più complesso. Per questo i regimi, autoritari e non, impongono regole sempre più severe alle aziende delle telecomunicazioni e alle piattaforme social locali in tema di condivisione delle informazioni degli utenti in loro possesso. La Russia, per esempio, costringe qualunque operatore attivo in patria a detenere i dati di soggetti russi all’interno dei confini nazionali; in Turchia chi non ubbidisce viene semplicemente mandato offline nel paese. Quanto agli utenti, potranno anche vivere in un ambiente online che somiglia sempre più a un incubo totalitario - «Internet è la più grande macchina da spionaggio che l’umanità abbia mai conosciuto», diceva già nel 2011 il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange - ma quantomeno tutti i servizi di cui hanno bisogno per definire la propria identità a se stessi e in termini sociali sono gratuiti, funzionano bene e sono sempre disponibili (con ‘Free Basics’, anche se sei il povero contadino indiano Ganesh: grazie, Mark Zuckerberg).

Quanti sarebbero disposti a rinunciarvi una volta appreso che alla base di quella gratuità c’è la trasparenza totale delle proprie vite al potere economico e politico? Si è visto con il Datagate: nessuno. E se la consapevolezza del problema, dal 2013 a oggi, è certamente cresciuta, i dati di utilizzo dei servizi forniti dai soggetti coinvolti nello scandalo - per non parlare dei loro fatturati - dimostrano che risposte prefabbricate e prive di alcun significato in una democrazia, come “le spie spiano” e “se non fai nulla di male non hai nulla da temere”, trovano terreno fertile di fronte a un’intera civiltà costruita intorno al narcisismo istantaneo, e al bisogno di riaffermarlo continuamente, in tempo reale e nei luoghi esatti in cui il tempo reale scorre. Quelli del momento, insomma, che non sono certo di norma quelli dove si tutela la privacy.

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Di conseguenza, il primo livello di analisi ci costringe a dire che quella che molti chiamano “distopia” - la realtà di una rete fatta di controllori sempre più insaziabili, monopolisti sempre più spregiudicati e utenti sempre più felicemente arresi all’inevitabilità di entrambe le cose - si presenta come una “win-win-win situation” in cui, all’apparenza, tutti beneficiano dalla “rivoluzione digitale” che ci ha “tutti connessi”. La realtà è ben diversa, ma c’è un residuo di utopia nel non volerla osservare davvero. Certo, insieme all’ignoranza e alla mancanza di consapevolezza che derivano da un pessimo giornalismo - uno dei fattori chiave nel mantenimento di quella illusione collettiva sul potere della rete. Ma non solo. C’è qualcosa di ciclico nel presentarsi e ripresentarsi di utopia e distopia internettiana, scriveva lo studioso dell’Università di Oslo, Pet Hetland, nel 2012. Ed è qui che entrano in gioco, e in modo decisivo, i media. Che non solo diffondono informazioni, ma le creano. Nella terminologia adottata dallo studioso, significa “mediatizzare” l’idea di Internet, crearne problemi e contestualmente soluzioni.

Qualche esempio? Gli infiniti ragionamenti sui media di massa, ancora oggi, sulla presunta “anarchia del web” - quando è evidente ogni singolo giorno, anche sulle pagine e i canali di quegli stessi media, che le regole dell’offline si applicano anche alla rete, e che anzi il problema è come evitare che diventino talmente invadenti da renderla un luogo meno, e non più, libero di quelli analogici. O il gonfiarsi e sgonfiarsi di statistiche e fenomeni all’occorrenza, dalla pedopornografia al terrorismo, passando per i siti pro-ana all’hate speech e il cyberbullismo. Tutti problemi sempre presentati come emergenziali (specie quando le statistiche dicono che non lo sono), e che dunque richiedono interventi non meditati e processati attraverso le garanzie democratiche, ma spinti in fretta e furia nel corpo normativo e sociale per vie emergenziali.

Questo sono dunque le tre “narrative” (innovazione, controllo e rigetto) che secondo Hetland guidano lo sviluppo dei cicli di ottimismo e pessimismo delle società rispetto alle tecnologie, e in particolare verso Internet: versioni mediatizzate della realtà. Da cui tuttavia dipendono conseguenze concrete. Se nell’introduzione di nuove tecnologie prevale la narrazione “pro-innovazione” - quella, utopistica, in cui ogni resistenza viene vista come una opposizione al potere liberatorio delle tecnologie - significa che la percezione di quella innovazione sarà influenzata in modo non marginale in senso positivo. Per questo sopravvive in pagina e su schermo, e in modo così schizofrenico, il racconto idealizzato del “digitale” come portatore di lavoro, dinamismo, opportunità. Per questo perdura e insiste anche quando i dati mostrano che i lavori della classe media sono sull’orlo di essere inghiottiti dall’automazione. Perché le profezie, in qualche misura, si autoavverano. E quando una tecnologia è sufficientemente matura per presentare dei rischi, ecco la “mediatizzazione” ricondurli a soluzioni praticabili dallo status quo. Perché, scrive Hetland, «sia gli utenti che la tecnologia devono essere regolati e controllati, ovvero addomesticati, affinché la tecnologia possa essere messa al servizio della comunità». Sì, si tratta di “addomesticare” - e in questo, come ben spiega Noam Chomsky nella sua teoria della propaganda, i media mainstream sono maestri. Del resto cos’è quella teoria se non un sistema di filtri che, si legge ne ‘La fabbrica del consenso’, «interagiscono tra loro e si rafforzano reciprocamente»? Quando quei “filtri” di selezione delle notizie includono le dimensioni e il peso finanziario della proprietà del giornale, il «ruolo primario della pubblicità come fonte di finanziamento», «l’uso fiduciario delle informazioni fornite dal governo, dal mondo degli affari e da ‘esperti’ sovvenzionati e riconosciuti dalle fonti primarie di finanziamento e dagli agenti del potere», si comprende perché abbondino le discussioni sull’ultimo caso di bullismo via Facebook, in qualche oscura località di provincia e sulla base di indizi molto spesso ritrattati e incerti, mentre le rivelazioni sulla sorveglianza di massa e gli abusi globali della National Security Agency, dopo alcune sporadiche e disinformatissime comparse, sono sparite dai radar della stampa e dei siti (in televisione ci erano già arrivate col contagocce, e male).

Semplicemente, la “mediatizzazione” riflette gli interessi dei proprietari dei media e di chi li può influenzare. E oggi sempre più sono i colossi tecnologici a imporsi, perfino sui governi. Per cui perché ricordare agli utenti che quello che considerano gratis in realtà non lo è? Perché ricordare loro che il prezzo è il mercato di ogni dettaglio delle proprie vite per broker di dati personali al riparo da qualunque sostanziale controllo, e lo status imperituro di “sospetto” nel caso un qualche algoritmo dovesse rilevare pattern definiti in qualche inconosciuto e inconoscibile modo “sospetti” nei loro comportamenti online? Perché, soprattutto, dire così chiaramente che gli interessi del potere e di chi dovrebbe controllarlo sono, dal punto di vista dell’economia del “digitale”, gli stessi? Ora se non capite nulla quando si parla di “neutralità della rete”, l’infelice espressione coniata da Tim Wu che si traduce in differenze milionarie in termini di investimenti e possibilità di innovazione, ma sapete tutto del prossimo mirabolante progetto di digital champion, “animatori digitali” e altre inutili figure affini che abitano il sottobosco istituzionale di uno dei paesi più digitalmente arretrati d’Europa - il nostro - avete una chiave di lettura sul perché.

È chiaro che a questo modo si svuota la rivoluzione del potenziale rivoluzionario. Ma a chi importa? Lo studio condotto da Hetland su tre giornali norvegesi monitorati per questioni riguardanti Internet dal 1995 al 2006 ha concluso che «la posizione pro-innovazione è risultata dominante nel 68,7% dei casi», con il 31,3 invece dominato dalla visione del “controllo” - e una pressocché totale assenza della narrativa che l’autore definisce “distopica”, opposta alla diffusione di Internet. Risultato? Nel 2010, secondo l’Eurobarometro, la Norvegia era il paese più ottimista in Europa sulle tecnologie considerate dall’indagine. E certo, questi dati non sono leggi matematiche - ma si trovano anche in altri paesi, scrive Hetland. La schizofrenica esperienza di leggere ogni giorno, in pagina, lodi sperticate all’innovazione (è l’ultimo rifugio per la credibilità della politica) e critiche apocalittiche al “digitale” (ancora in molti casi concepito come un nemico mortale della carta e dunque del giornalismo “professionale”, prima ancora che del corpo sociale) non fa che confermare. Siamo giunti alla fine di un qualche ciclo di ricalibrazione mediatica del nostro rapporto con le tecnologie? Siamo a un punto talmente confuso della storia del rapporto tra media e potere che perfino le proprietà dei mezzi di informazione e il potere politico non sanno più come fare i propri interessi, nel mondo digitale? Se la propaganda muore per ignoranza, forse è tempo di cambiare propagandisti.

Ribelli nella casa d’ispezione

Eppure la distopia è (ri)apparsa, e prepotentemente. Da dove veniva? L’origine, ed è significativo, precede molti dei proclami utopistici di cui si è detto. E non a caso, risale a un movimento, quello dei “Cypherpunk”, che trova l’attitudine e i temi cyberpunk - a partire dall’antiutopia, appunto - già nel nome. Un movimento nato e restato ai margini, non nel mainstream in cui sono finiti i suoi continuatori odierni. Ma che ha gettato semi che ancora oggi resistono alle intemperie dell’era post-Snowden. Perché erano semi solidi, matematici: i semi della crittografia che, proprio come allora, torna oggi di nuovo in pericolo, sotto il tiro incrociato di governi incapaci di far fronte alla minaccia terroristica - se il problema è comunicativo, quali zone d’ombra sono più umbratili di quelle cifrate? - e media che ne assecondano le interessatissime deficienze.

cypherpunk

Per questo continuano a susseguirsi, ormai da due decenni, editoriali che invocano compromessi sulla sicurezza delle nostre comunicazioni e attività online, nonostante sia chiaro all’intera comunità informatica che non è possibile dare un accesso privilegiato ai “buoni” senza fornirlo contestualmente anche ai “cattivi” - terroristi o comuni criminali che siano. Per questo è prassi facciano capolino tra le righe, senza mai replicare nel merito alle argomentazioni dei critici, dichiarazioni di anonimi “ufficiali” dell’intelligence o delle agenzie governative delle autorità di tutto il mondo che rivelano, minacciose, che senza quei compromessi anticrittografia - Hillary Clinton per la sua corsa alle presidenziali li ha equiparati a un nuovo “Manhattan Project” - continueremo a vedere le nostre città, e le nostre vite, assediate dall’incubo ISIS. L’aspetto straordinario di questa ricerca nell’albero genealogico della distopia internettiana, è che i Cypherpunk, pur dai margini, fossero riusciti a vincere. Quelli che Steven Levy definiva nel 2001 code rebels, i “ribelli da codice”, e che in realtà erano un miscuglio di accademici, hobbisti e membri di organizzazioni per i diritti civili, «sconfissero davvero il governo» degli Stati Uniti, ricorda Arvind Narayanan della Princeton University. È grazie a loro, prosegue, se le restrizioni immaginate negli anni 90, sotto l’amministrazione Clinton, sono state largamente disattese. Nato sulle orme del pensiero di David Chaum alla fine degli anni 80, il movimento cypherpunk credeva che «la crittografia fosse al centro di una visione su come la tecnologia avrebbe causato profondi cambiamenti sociali e politici, indebolendo il potere dei governi e delle istituzioni costituite». Un po’ gli stessi discorsi anarco-libertari che avrebbero informato, di lì a poco, la nascita di Bitcoin, e in precedenza lo sviluppo del movimento per il “free software” - le comunità, insomma, che più di ogni altra hanno contribuito a mantenere viva l’idea di una rete libera, senza tuttavia soccombere all’ingenuità degli utopisti sul rapporto tra nuovi media e potere.

Anche i “manifesti” cypherpunk hanno tuttavia una vena utopistica, pur se annegata nella lucida e profetica disperazione del cyberpunk. Oggi ne resta molta meno, se perfino uno dei suoi membri più famosi, Assange, ritiene che «i giochi per la privacy sono finiti» e che la sorveglianza sia destinata a rimanere un nostro scomodo, impossibile compagno di viaggio in rete. Soprattutto, se oggi le conquiste degli anni 90 tornano tutte in discussione con la richiesta, in Cina come negli Stati Uniti, di indebolire scientificamente la crittografia per garantire ordine sociale e contrasto del terrorismo; se perfino dopo Snowden, scrive l’ultimo rapporto di Freedom House, nuove leggi restrittive sulla sorveglianza digitale sono state approvate in ben 14 paesi nel mondo. Eppure quanto scriveva Eric Hughes nel suo ‘Cypherpunk Manifesto’ del 1993, tre anni dunque prima dei proclami di Barlow, è ancora disperatamente vero: «la privacy è necessaria per avere una società aperta nell’era elettronica», si leggeva fin dall’incipit; la libertà di espressione, proseguiva il breve testo, anche di più. E che cos’è la privacy se non «la facoltà di rivelarsi in modo selettivo al mondo»?

A questo modo l’anonimato garantito dalla crittografia diventa l’ossatura della democrazia stessa, l’unico riparo dalla casa di vetro digitale che, nata con le fattezze bonarie delle richieste di maggiore “trasparenza” ai potenti, aveva già allora cominciato a presentare le fattezze del ‘Panopticon’ benthamiano, la inquietante casa d’ispezione dove si può sempre essere visti senza sapere se lo si è davvero. Di nuovo, l’utopia diviene il suo rovescio: e il sogno di trasparenza del potere, l’incubo di visibilità totale e permanente - come possibilità - dei suoi sudditi. Un incubo che è il nostro, secoli dopo, di fronte al fantasma delle spie della NSA, come dei servizi russi o cinesi, sempre potenzialmente nelle nostre vite. Peggio: lo spettro di un potere impalpabile, invisibile, fondato essenzialmente sul vedere sempre (e noi mai), senza alcuna zona d’ombra. Michael Foucault spiega perfettamente cosa ciò comporti per l’uomo comune, in una conversazione con Michelle Perrot proprio sul senso della trovata architettonica concepita da Bentham come un’utopia super-razionale: «Lo sguardo (…) richiede molte poche spese. Non c’è bisogno di armi, di violenze fisiche, di costrizioni materiali. Ma uno sguardo. Uno sguardo che sorveglia e che ciascuno, sentendolo pesare su di sé, finirà con l’interiorizzare al punto di osservarsi da sé; ciascuno così eserciterà questa sorveglianza su e contro se stesso. Formula meravigliosa», annota cinicamente il filosofo francese: «un potere continuo e di un costo finalmente irrisorio!»

Il problema di quel potere è, come hanno correttamente intuito i Cypherpunk, che anche opporsi a una distopia digitale modellata sul ‘Panopticon’ - la nostra - ha un costo irrisorio. Anzi, è gratis, e viene dalla matematica: il modo per opporsi è la crittografia, ed è dunque tecnologico - non politico. È qui che si rintracciano gli accenti utopistici di un movimento sorto nella piena consapevolezza della gravità della situazione che si sarebbe presto presentata in tutta la sua gravità al mondo connesso. E se nel manifesto di Hughes c’è il senso di rivalsa, lotta e urgenza che viene da chi crede che sia solo il codice - e quindi fare - a poter cambiare le cose, di chi sa che quella per conservare la privacy è una battaglia dall’esito tutt’altro che stabilito, in quello dei “cripto-anarchici” di Timothy May, di un anno precedente, si respira un determinismo che di nuovo puzza di irrealismo. Di utopia. L’inevitabile diffondersi delle comunicazioni cifrate consentirà a chiunque lo voglia di restare anonimo, si legge. E per quanto già allora la NSA sia indicata come un attento nemico, i progressi del prossimo decennio renderanno la tecnologia “inarrestabile”, scrive May, ignaro della difficoltà di un reale anonimato online perfino utilizzando sistemi come Tor, ventiquattro anni più tardi. «Proprio come la tecnologia della stampa ha alterato e ridotto il potere delle gilde medievali e la struttura del potere sociale», si legge invece nel passaggio più schiettamente utopistico, «allo stesso modo i metodi crittografici modificheranno radicalmente la natura dell’interferenza di aziende e governi nelle transazioni economiche». Può darsi: il punto è che garantirsi un angolo al buio potrebbe non bastare, quando quelle modifiche portano un solo soggetto privato - Facebook - a gestire le vite più o meno intere di un miliardo e mezzo di persone, e un governo - quello degli Stati Uniti - a monitorare il mondo intero per cavarne (molto spesso per giunta fallendo) segnali di un possibile futuro attentato.

Contro l’ideologia del “tutto connesso”

Il secondo livello di analisi, dunque, deve considerare il rapporto tra slittamento dell’utopia nella distopia internettiana e reale sviluppo di Internet, andando alla radice della “win-win-win situation” che mantiene l’illusione che quella attuale sia una situazione benefica per tutti i portatori di interessi in campo: governi, aziende e cittadini. L’analisi deve compiere, in definitiva, quella che si potrebbe definire una operazione di critica ideologica in senso proprio. Perché alla base della bugia della “win-win-win situation”, di quella “falsa coscienza”, sta l’ideologia del “tutto connesso”. In termini più semplici, si potrebbe dire che avere generalizzato la mission aziendale di Facebook, facendone la ragione stessa dell’esistenza dell’intera rete Internet, ha finito per farci scambiare la natura delle nostre relazioni sociali online per una necessaria e perpetua donazione di ogni dato riguardi le nostre vite personali, le nostre idee e convinzioni, i nostri rapporti umani e professionali, i nostri slanci creativi, estetici e morali a Mark Zuckerberg. E a chiunque sia altrettanto bravo a mantenere l’illusione, naturalmente; se necessario, a suon di milioni di dollari di lobbying e propaganda. Solo se una connessione online in più è sempre preferibile a una in meno - o alla stasi, quel silenzio che nell’iperconnesso appare impossibile e realmente rivoluzionario - siamo strutturalmente condannati a far fronte al problema di gestire l’unico bene davvero scarso, e dunque di valore, rimasto nell’era dell’abbondanza digitale: il tempo, e di conseguenza l’attenzione. Solo se la nostra più importante attività quotidiana diventa selezionare a cosa dedicare la nostra scarsa attenzione è fondamentale, e naturale, affidarsi ad algoritmi che in una certa misura lo facciano per noi. Solo se siamo sempre alla rincorsa del tempo reale - cosa avranno detto o fatto i nostri amici, follower, contatti? - ci è possibile l’indifferenza rispetto al nostro essere sempre potenziali vittime di forme di “autopropaganda algoritmica" (accade ogni volta che apriamo Facebook) o di manipolazione ideologica. Come quella messa in atto dallo stesso Facebook quando ha spregiudicatamente spinto i suoi utenti indiani a esprimersi, con un apposito strumento di mobilitazione preimpostato, in favore di una connessione gratuita a Internet (‘Free Basics’, già ‘internet.org’) che in realtà è una connessione gratuita a Facebook (e a qualche altro servizio deciso da Facebook e dai suoi partner, non certo dagli utenti e non certo in modo “neutrale”).

Ma è solo la punta dell’iceberg. Perché potremmo anche un giorno trovare un modo per automatizzare l’ottimizzazione della gestione del nostro tempo e della nostra attenzione, ma ciò non significa che avremo per questo debellato l’antiutopia internettiana. Semplicemente, e al contrario, saremmo perfettamente inseriti all’interno di una macchina deterministica che stabilisce personalità e ricompense, discrimina secondo basi di dati imperscrutabili e oscure, e sorveglia computando gesti, comportamenti e pensieri per noi del tutto innocenti. Diversi pensatori, specie a partire dal diffondersi della “sharing economy”, hanno ipotizzato che l’era del “tutti connessi” sia anche quella in cui finisce il capitalismo. La questione è enorme, ha una lunga storia e non è certo affrontabile in modo esaustivo in queste poche righe. Ma Jeremy Rifkin e Paul Mason, solo per citare due dei nomi che hanno incarnato l’idea di recente e in modo più autorevole, potrebbero finire altrettanto facilmente per trovarsi, proprio se le loro previsioni economiche fossero corrette, in un mondo che somiglia molto più al dominio incontrastato dell’ideologia neoliberista della Silicon Valley sotto nuove e mentite spoglie - è empowerment dell’utente! - ipotizzato da Morozov ne ‘I signori del silicio’ che al loro, postcapitalista. In soldoni: potremmo finire per trovarci in un enorme giocattolo con cui distrarci dalla distruzione scientifica dello stato sociale, ma poco altro. Un giocattolo destinato inoltre a farsi sempre più seducente e insidioso, tra auto che si autoguidano (ma guidate a loro volta da Google, Tesla o qualche altro produttore di codice), servizi di base erogati in base a “big data” e piccole e grandi demenze delle città e degli oggetti “intelligenti” che presto vivremo e indosseremo, useremo, abiteremo.

Il lavoro parcellizzato e ridotto a input in un algoritmo, poi, diventa perdente: con altri algoritmi, quelli dei robot che presto in buona parte li sostituiranno (dove sono le forze sociali, su questo?), ma anche nel confronto con il lavoro vero e proprio. Quello che prevede diritti, tutele, malattie, assenze, svago, formazione, crescita umana oltre che professionale, e dunque una stabilità e progressione di vita secondo tempi umani - non di una società necessariamente efficiente. Invece l’idea di essere sempre osservati perché connessi è talmente diffusa che in Italia si è potuto abrogare il divieto di controllo a distanza dei lavoratori, stabilito nello Statuto del 1970, in modo totalmente ambiguo e senza nessun tipo di reale, strutturata contestazione. È la stessa logica secondo cui i taxisti vengono scavalcati da altri taxisti, che però hanno un altro nome e giungono fino allo schedato passeggero, con le loro vetture, grazie a una app. E che importa se anni di sacrifici per ottenere le licenze vanno in fumo senza che nessuno solidarizzi (la app, è indiscutibile, ha molto più appeal). O ancora, è il motivo per cui gli affitti non avranno più senso, perché ogni rapporto di locazione temporanea sarà sempre racchiuso in un diverso tipo di affitto - quello di Airbnb, dove il concetto stesso di “casa” diventa una sorta di chat in condivisione con amici e sconosciuti in cui, invece di scambiarsi parole, i partecipanti si scambiano appartamenti, divani, soppalchi, angoli cottura e via dicendo. Poi c’è l’educazione, che va personalizzata (come le pubblicità), controllata (come i terroristi), immagazzinata (come i dati di navigazione) e analizzata (come tutto) per restituire un esatto punteggio dell’apprendimento ottenuto dall’alunno-bersaglio. I libri di testo saranno sottolineati e la sottolineatura scrutata, registrata, utilizzabile sempre come prova della valutazione. Gli studenti saranno come maniaci del quantified self, intenti a misurare ogni cosa, anche e soprattutto ciò che non è misurabile. I progetti sono già in corso, e ogni volta che si aggiunge una telecamera - intelligente o meno - nessuno protesta.

Se questa è la tendenza, l’induzione porta a concludere - con tutta la sua fallibilità - che ogni altro aspetto della vita umana sarà presto o tardi ridotta a un numero, un dato, un’analisi statistica, una serie di correlazioni che un giorno decideranno - ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia, diceva Arthur Clarke - il nostro tasso creditizio o assicurativo, il posto in una graduatoria pubblica, le tasse da pagare, la possibilità di avere una reputazione e una vita pubblica, se non quella direttamente di esprimere idee politiche o religiose. Questo è il mutarsi concreto e reale dell’utopia internettiana in una distopia di proporzioni difficilmente immaginabili in assenza delle tecnologie di rete.

Persone che parlano la lingua della condivisione, dell’uguaglianza, della libertà, della rivoluzione - sempre, i protagonisti della rivoluzione (appunto) digitale sono “ribelli”, moderni Che Guevara intenti a sovvertire l’ordine costituito a colpi di connessione, invece che di armi da fuoco - e che sfruttano, all’occorrenza, il gergo dell’attivismo informatico (apertura, interoperabilità, trasparenza, programmazione) finiscono così per istruire una schiera di sudditi, incapaci di deliberare come cittadini, di fare richieste al potere e condurre lotte sistemiche per ottenerle; incapaci, soprattutto, anche solo di considerare possibile una qualunque alternativa all’ordine costituito. L’ideologia, del resto, è questa illusione di non potere desiderare che come vuole l’ideologia stessa: in questo caso, l’imperativo di essere “tutti connessi”, a ogni costo e prima di qualunque altro comandamento, è stato insieme il motivo animatore dell’utopia di Internet e delle sue riletture distopiche attuali, che portano il mondo non verso il paradiso di opportunità e conoscenza che immaginavano i padri della rete ma tra le braccia di un controllo senza peso né “costi”, come diceva Foucault, invisibile e addirittura desiderabile - specie in un contesto in cui la legittimazione del potere politico è ai minimi storici e non accenna a risalire se non in rigurgiti di populismo e razzismo. E allora perché non credere a Zuckerberg quando dice che connetterci tutti risolve i problemi del mondo? Perché dubitare del suo genio, se è stato capace di creare la spina dorsale che muove la contemporaneità, e la tiene tutta insieme come un unico organismo? Chi altro, del resto, ci è riuscito?

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Ripensare i social network

Il fatto che abbiamo lasciato sfuggirci il senso dello stare tutti insieme in rete a questo modo, abbandonandoci senza opposizione alla sua riduzione propagandistica che impone condivisione totale dei nostri dati a compenso zero (a parte sorveglianza e profilazioni), è già indicativo della potenza dell’ideologia del “tutti connessi”, che poi non è che uno dei modi in cui si esprime l’ideologia di Silicon Valley e del “digitale” più in generale. Per questo, una volta riconosciuto che è stata proprio quella utopia di Internet a causare - a mezzo mediatizzazioni e propaganda - l’antiutopia internettiana in cui viviamo, bisogna a mio avviso recuperare la critica dell’ideologia in quanto tale, e aggiornarla per contrastare davvero l’ideologia del “tutti connessi” (che andrà, ovviamente, meglio definita: impossibile colpire un bersaglio incerto). Bisognerà poi capire se si tratta di una operazione di disvelamento di una “falsa coscienza”, come in Marx, o se di presa d’atto di una forma di cinismo, come vorrebbero - pur se in modo diverso - filosofi come Sloterdijk e Zizek. Ancora, a seconda di quanto scoperto, bisognerà predisporre un’alternativa pratica, fatta di codice quanto di politica, secondo lo spirito - ma non i precetti - dei Cypherpunk. Secondo uno spirito, cioè, incentrato sul conflitto, la resistenza, il dissenso per tutelare libertà sempre più ideologicamente inconcepibili. In questo, anzi, emerge già ora con chiarezza la necessità che tecnologi e politici lavorino insieme nell’ottica di una cornice di valori democratici, tutelati dal potere pubblico, e dunque in ultima analisi dai cittadini. Riappropriarsi del concetto di essere connessi, e dunque della radice stessa del social networking, significa anche e prima di tutto liberarsi dal presupposto, tutto ideologico, che solo soggetti privati possano garantire l’ottimo di efficienza ed estetica che la Silicon Valley vuole far credere ai suoi ammirati utenti di avere raggiunto.

Il pubblico, invece, può giocare un ruolo determinante. Di certo ben superiore a quello attuale, già oggi peraltro vittima dell’illusione ideologica descritta da Mariana Mazzucato ne ‘Lo Stato innovatore’: essere sinonimo di conservazione quando, storicamente, ha già avuto un ruolo determinante nello sviluppo per esempio delle tecnologie con cui Silicon Valley si arricchisce a dismisura (iPhone incluso). Ma se anche così non fosse, c’è da considerare che le vite e le decisioni pubbliche dei cittadini saranno sempre maggiormente in rete: è, lo si è accennato, l’indiscutibile assunto di chiunque voglia mantenere una parvenza di credibilità e vita al governo. Anche solo per questa semplice previsione quantitativa le tutele per i cittadini-utenti dovranno aumentare, e fanno bene Brasile e Italia ad avviarsi verso un percorso di costituzionalizzazione di alcuni, elementari diritti di base in Internet. La via per uscire dalla distopia iperliberista dipinta dal “tutti connessi” passa insomma per una buona regolamentazione delle attività pubbliche online: non è pensabile, detto altrimenti, che si voti via Internet con la stessa facilità con cui oggi si dichiara su Facebook di avere votato. Se allo stato attuale il passaggio sembra azzardato, si consideri che, fino a poco tempo fa, l’idea di influire in modo significativo sul risultato elettorale modificando unicamente l’ordine di presentazione dei contenuti in un motore di ricerca sarebbe apparsa fantascienza. Oggi, invece, le manipolazioni a mezzo Facebook e Google sono oggetto di studio sperimentale - oltre che di svariate domande su competizioni elettorali già tenutesi. Quando a decidere è un algoritmo privo di alcuna reale trasparenza, chi garantisce che un candidato non sia stato in qualche modo favorito? E chi che i tassi di presenza di articoli per qualche ragione sgraditi a un social network, o a un candidato di un social network, saranno per certo gli stessi di quelli invece compiacenti?

Questa oggi è la nostra distopia cyberpunk: non è fatta di connessioni neurali con una realtà fisica, tridimensionale e virtuale, ma si basa interamente allo stesso modo sulla necessità, per chi da quella distopia guadagna, di tenere “tutti connessi”. Ciò che dobbiamo problematizzare è che non equivale a essere tutti insieme, a tenerci per mano in un abbraccio di pace, uguaglianza e progresso che includerà, un giorno, il mondo intero. Che lo stare insieme umano, il nostro essere “animali sociali”, non è riducibile a un essere “tutti connessi” come animali “social”. L’utopia sarà anche stata genuina, ma si è rivelata funzionale alla realizzazione del suo contrario: l’imporsi di una classe spregiudicata di giovani e intelligentissimi monopolisti superprogressisti, armati di filantropismo, ambientalismo, salutismo, ambizione - ma anche di una quantità di potere economico e, sempre più, politico senza precedenti nella storia del capitalismo. Le megacorporazioni e le loro incessanti manipolazioni pubblicitarie ci sono. Lo spettro delle intelligenze artificiali e dell’automazione contro l’uomo pure. Qualche disinvolto leader idealista? Solo l’imbarazzo della scelta. Vuoto della politica? Check. Vuoto delle istituzioni? Check. Tensioni sociali, disuguaglianze crescenti, nuovi razzismi, eruzioni di violenza incontrollate? Check, a tutto. Potrebbe mancare l’ironia, se non fosse che senza non si viene a patti con l’idea fondamentale: che è stato proprio il sogno di Internet a realizzarne l’incubo.

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