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Il giornalismo politico in Italia non funziona: ecco perché

14 Luglio 2015 5 min lettura

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Il giornalismo politico in Italia non funziona: ecco perché

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Ci sono risposte a domande sul giornalismo (politico) italiano che lasciano pochi spazi a dubbi.

Credi nell'informazione? Solo il 35% dice sì, e la percentuale sale solo al 48% se si considerano le fonti "affidabili". Eppure il 74% degli italiani ha voglia di ricevere informazioni. (dati Reuters, giugno 2015)

Pensi che l'informazione sia attivamente manipolata? Il 70% dice di sì (dati Censis del 2013). Manipolare non è cancellare, omettere, dire mezze verità. Manipolare vuol dire intervenire direttamente sulla realtà per mistificarla. Per sette italiani su dieci i giornalisti italiani fanno questo.

Da questo punto di vista, un recente video dei The Jackal per una web-serie della Rai racconta molto bene la condizione di crescente disillusione (per non dire esplicitamente sfiducia) nei confronti del giornalismo politico, attraverso la ricostruzione di un tg i cui contenuti si riproducono stancamente in un format altrettanto prevedibile.

Quando leggi un'informazione sui social media, di chi ti fidi?
Il 63% risponde "amici e famiglia", l'unica fonte trusted di una ricerca Edelman di gennaio 2015. I giornalisti sono nella categoria 'distrusted' (non affidabili) con il 38% di fiducia.

 

Basandoci su questi dati, la risposta alla domanda che dà titolo al post è chiarissima: il giornalismo politico in Italia non funziona. Non convince i lettori, non restituisce un'idea positiva della categoria professionale dei giornalisti, in definitiva non fa vendere giornali, o comunque non rende meno doloroso il calo stabile di copie di quotidiani nazionali e locali vendute dal 2000 al 2013, -38.7% (dati Censis, marzo 2015).

Cosa non funziona, a mio avviso?

1. Il dominio del retroscena sulla notizia: sui giornali italiani è molto facile leggere ricostruzioni condite da espressioni "secondo fonti autorevoli" e smentite il giorno dopo dalla realtà, è molto più difficile leggere analisi basate su dati empirici. Il retroscena è facile da confezionare, l'analisi basata su dati molto meno.
2. Il dominio del tifo sull'oggettività: quando i giornalisti si schierano, abdicano alla loro funzione. È legittimo provare simpatie o antipatie, ma quando si scrive solo bene o solo male di qualcuno basandosi su pregiudizi positivi o negativi, magari omettendo le circostanze in cui il politico che ti sta antipatico fa la cosa giusta, o quella in cui il politico che ti sta simpatico fa la cosa sbagliata, non si fa giornalismo: si fa propaganda, più o meno involontaria. Ma il mondo è pieno di gente che fa propaganda, il mercato è saturo 0da questo punto di vista.
3. Il dominio dell'informazione autoreferenziale sull'informazione per tutti. Il passaggio della "velina" a uso interno (molto romano, molto istituzionale) fa riempire le pagine dei quotidiani, ma fa svuotare le edicole (anche online). Chiedere soldi a un lettore per assistere passivamente a scambi di riferimenti incrociati, avvisi politici, bozze di trattative è poco razionale prima di tutto dal punto di vista commerciale: il servizio offerto non è attrattivo.
4. Il dominio del lancio di agenzia sul post (con i commenti). Sono le agenzie di stampa, troppo spesso, a decidere quale sarà la notizia del giorno. Le redazioni, sempre più in difficoltà economica e in alcuni casi rallentate da qualche pigrizia di troppo, si fanno dettare l'agenda dai politici, dalla loro propaganda e dai suoi effetti. Ma un giornalista può andare a cercare le notizie in mare aperto, andando ad esempio a spulciare tra i commenti ai post dei politici (c'è spesso materiale di assoluto interesse, anche perché c'è tanta gente sui social in Italia, a partire da Facebook) e non accettando più l'idea, spesso autoimposta per quieto vivere, di giornalismo come "passaggio di carte".
5. Il dominio del "volemose bene" sul "giornalismo come cane da guardia del potere". È difficile parlare male di una persona con cui esci a cena, anche quando se lo meriterebbe. Penso che sia emotivamente comprensibile per tutti. La soluzione, però, non è smettere di parlarne male, è smettere di andarci a cena. Se non si può parlare liberamente di qualcuno, difficilmente l'autorevolezza di un giornalista resterà intatta.

Quali soluzioni sono possibili per chi vuole fare giornalismo politico in Italia?

Ne cito qualcuna qui, invitandovi a un ulteriore approfondimento nelle slide in coda all'articolo, ma soprattutto invitandovi a dire la vostra qui tra i commenti o sui social media.

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1. Rinunciare al ruolo di unico depositario della notizia: i politici non hanno più un rapporto di dipendenza acclarata nei confronti dei media tradizionali, perché hanno oggi gli strumenti per decidere di comunicare anche senza mediazione. I giornalisti devono dunque cambiare funzione sociale, impegnandosi maggiormente sulla verifica dell'attendibilità di ciò che il politico ha appena finito di dire.
2. Decidere: o si fa il tifo, o si fa analisi. Entrambe le soluzioni sono legittime, ma sono incompatibili tra loro.
3. Rinunciare a qualche velina a vantaggio di qualche buona storia raccolta sui social media. Difficile, perché mette a rischio le relazioni con le fonti privilegiate. Ma se non si cambia in fretta, saranno i lettori a mollare i giornalisti, prima ancora dei politici.
4. Non circoscrivere Internet a "quello che dicono i miei colleghi su Twitter". Il potere è (giustamente) considerato autoreferenziale da tanti cittadini italiani, i giornalisti hanno l'opportunità di spezzare questa catena.
5. Rinunciare, per quanto possibile, alla "Grande Bellezza" delle cene, delle feste e dei salotti. L'integrità è faticosa, ma è l'unica soluzione possibile alla crisi di fiducia che stiamo vedendo.

Chiudo con un'ultima domanda: chi potrebbe risolvere il problema di fiducia nei cittadini nei confronti del giornalismo politico italiano ha davvero voglia di farlo?

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