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La Germania riconosce l’Holodomor, la più grande catastrofe della storia ucraina, come genocidio. Osservazioni su uno dei più grandi crimini del Novecento

11 Dicembre 2022 21 min lettura

La Germania riconosce l’Holodomor, la più grande catastrofe della storia ucraina, come genocidio. Osservazioni su uno dei più grandi crimini del Novecento

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La coincidenza del drammatico inverno di guerra in Ucraina con il novantesimo anniversario dell’Holodomor, la morte per fame di milioni di ucraini provocata dal regime sovietico nei primi anni Trenta, contribuisce a rendere ancora più straziante il conflitto cui siamo costretti ad assistere da ormai più di nove mesi. Le immagini dei civili ucraini al freddo e al buio a causa dei sistematici attacchi russi all’infrastruttura critica stimolano inevitabilmente associazioni storiche che non si possono ignorare. Dopo averle negato il diritto all’esistenza come Stato indipendente (Putin: «L’Ucraina è un incidente della storia»), la Russia ha invaso l’Ucraina con l’intenzione di rovesciarne il governo. Fin dall’inizio la brutale aggressione non ha risparmiato la popolazione civile e il patrimonio culturale ucraino, con stragi, stupri, torture e deportazioni, per lo più di donne e bambini, dai territori occupati verso la Russia. Nelle regioni da loro controllate, i soldati di Putin si sono appropriati delle scorte di grano e ne hanno impedito l’esportazione, per rovinare lo Stato ucraino e ricattare l’Occidente con la minaccia di una catastrofe alimentare internazionale, ma si è anche fatto uso della distribuzione dei viveri come strumento per controllare la popolazione e piegarne la resistenza. Col fallimento della cosiddetta “operazione militare speciale” e la riconquista ucraina di vaste aeree nell’est del paese, il Cremlino è passato alla devastazione sistematica dell’infrastruttura energetica, quindi alla guerra aperta ai civili, per privarli della possibilità di sopravvivere all’inverno.

Tutto questo suscita più che un’eco inquietante delle violenze perpetrate in era sovietica, nella fattispecie della più grande catastrofe della storia ucraina, l’Holodomor. «Una volta volevano distruggerci con la fame, ora con l’oscurità e il freddo», ha detto il presidente ucraino Zelensky commemorando le vittime dello sterminio e saldando il passato al presente. I parlamenti di Irlanda, Romania e Moldavia hanno approfittato della ricorrenza per rispondere positivamente all’ultimo appello rivolto alla comunità internazionale dal ministro degli Esteri ucraino Kuleba, riconoscendo la grande carestia del 1932-33 in Ucraina come genocidio. A sorpresa si è associato anche il Bundestag tedesco, approvando una risoluzione che inserisce la Germania nel gruppo di nazioni (al momento solo una ventina, quasi tutti paesi dell’Europa orientale) che riconoscono all’Holodomor la qualifica di genocidio. La mozione parlamentare, approvata a larghissima maggioranza, è stata benevolmente accolta dall’opinione pubblica tedesca e dalla stampa; poche ma severe sono state le critiche, rivolte soprattutto alle ragioni politiche che hanno mosso alla decisione e agli effetti pratici che la risoluzione potrebbe avere, condizionando il dibattito storico: solo a ottobre, infatti, il governo federale ha inasprito le pene per il reato di incitamento all’odio, l’approvazione, la negazione e la banalizzazione del genocidio costituiscono un reato punibile con la reclusione fino a tre anni. Altri hanno fatto presente che la Germania non riconosce come genocidio vari altri crimini di massa commessi dalla stessa Germania, sebbene vi siano ragioni per farlo, in prima linea lo sterminio degli Herero e dei Nama nell’Africa sudoccidentale tedesca nel 1904-1908.

Un atto di solidarietà

La decisione del parlamento tedesco ha implicazioni non banali, innanzitutto perché si può prevedere che avrà l’effetto di spingere i parlamenti di altri grandi paesi europei come l’Italia, la Francia e il Regno unito ad allinearsi, imprimendo una svolta nella campagna internazionale di sensibilizzazione ucraina. In secondo luogo, come è già chiaramente emerso in altre occasioni, per esempio nel dibattito attorno al riconoscimento del genocidio armeno del 1915-16, in Germania si fa difficoltà a ricorrere al termine Völkermord (genocidio) senza riferirlo alla Shoah, e gli storici tedeschi sono estremamente cauti nel maneggiare il concetto, principalmente per il timore di vedere messa in discussione la singolarità del genocidio degli ebrei d’Europa. Con le parole della docente Franziska Davies, nota studiosa dell’Holodomor: «Sì, la politica di Stalin in Ucraina era indubbiamente diretta anche contro l’Ucraina come nazione, ma è sufficiente questo dato per classificare la carestia come un genocidio e quindi, almeno implicitamente, metterla sullo stesso piano dello sterminio industriale degli ebrei da parte della Germania nella Seconda guerra mondiale?» Ogni tentativo di accostare l’Holodomor alla Shoah sul piano dell’ordine di grandezza del numero delle vittime ha finora attirato in Germania puntuali critiche severe. «Ciò non è solo sbagliato», ammonì in un suo memorabile intervento nel 2007 l’autorevole slavista Gerhard Simon, «ma fatale, specialmente in Germania. Da noi l’Holodomor otterrà l'attenzione che merita solo se sarà chiaro a tutti che non c’è competizione fra le vittime di questi due grandi crimini contro l’umanità».

La volontà politica che ha ispirato il passo tedesco è palese e parte dalla consapevolezza dello straordinario significato che ha assunto la memoria dell’Holodomor quale strumento di identificazione e affrancamento nazionale nell’Ucraina post-sovietica. Le resistenze politiche che in passato hanno impedito il riconoscimento internazionale della natura di quell’immane delitto di ormai quasi un secolo fa non sono state motivate tanto dalle diverse e contrastanti valutazioni degli studiosi, quanto piuttosto dal riguardo di una parte dell’Europa politica verso la Russia, che respinge la definizione dell’Holodomor come genocidio. Evidentemente, questo riguardo si ritiene ormai superato, in conseguenza della guerra. La mozione votata dal parlamento tedesco non fa segreto della motivazione politica che la anima, il Bundestag intende inviare un messaggio di solidarietà e sostegno morale al popolo ucraino ancora sotto attacco ed un omaggio alla sua vocazione europea: «Il cosiddetto Holodomor si inserisce nell’elenco dei disumani crimini commessi dai sistemi totalitari, che nella prima metà del XX secolo in Europa hanno cancellato milioni di vite umane», lo sterminio degli ucraini appartiene «alla nostra storia comune di europei», la storia ucraina è storia europea, l’Ucraina è Europa. Attraverso il riconoscimento dell’Holodomor come genocidio, si invitano i tedeschi a ricordare che appena un decennio dopo la catastrofe, la Germania nazista elaborò il famigerato Piano Fame (che riguardò anche il grano ucraino), per assicurarsi l’approvvigionamento a discapito dei popoli sovietici, e fece dell’Ucraina il teatro di nuovi massacri. La risoluzione è infine anche un segnale all’indirizzo del Cremlino: può distruggere le sue città, può rimuovere i monumenti commemorativi dell’Holodomor, come è accaduto a Mariupol lo scorso ottobre, nessun crimine sarà dimenticato. 

Come persona sensibile alle sorti dell’Ucraina, costretta alla terribile prova della feroce aggressione russa, trovo comprensibile che la devastazione mirata dell’infrastruttura critica, con l’inverno alle porte, susciti sinistre reminiscenze e riattivi vecchi traumi. Da formatore e divulgatore, che si occupa quotidianamente della complessa vicenda storica del comunismo e della sua ricezione nella memoria pubblica europea, condivido con entusiasmo le speranze di vedere richiamata maggiore attenzione internazionale su uno dei più gravi crimini di massa del Novecento e mi auguro davvero che una più diffusa conoscenza dell’Holodomor porti a una maggiore sensibilizzazione, specie delle opinioni pubbliche dei paesi dell’Europa occidentale, verso la storia non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’area dell’Europa centro-orientale e postsovietica. Da storico, non posso fare a meno di ricordare come la questione del riconoscimento della carestia ucraina come genocidio sia problematica per varie ragioni e mi sento in dovere di fare in proposito alcuni ragionamenti e osservazioni, mettendo da parte l’aspetto politico. La storia, questo è il mio parere, non possono scriverla le risoluzioni parlamentari, urgono lucidità di analisi e indipendenza di giudizio.

Una catastrofe provocata dalle politiche del regime sovietico

Quali sono precisamente gli aspetti della vicenda oggetto di divergenti interpretazioni degli storici, al punto da renderne controversa la categorizzazione come genocidio? Partiamo da ciò che è fermo, dai fatti ormai esaustivamente documentati e accertati dalla storiografia internazionale, attorno ai quali si è coagulato un larghissimo consenso degli studiosi (compresi tutti quelli più autorevoli). Le grandi carestie sovietiche del 1931-33 non furono provocate da disgraziati eventi naturali, che pure in misura ridotta vi contribuirono, bensì dalle politiche adottate dal regime sovietico per realizzare i propri piani di radicale trasformazione violenta della società sovietica attraverso l’industrializzazione forzata, la centralizzazione economica e la collettivizzazione. Nello specifico, furono le politiche agrarie dello Stato sovietico e le resistenze che queste incontrarono nella loro attuazione a causare una forte riduzione della produzione cerealicola, generando una grave crisi alimentare che colpì tutto il paese.

Nella seconda metà degli anni Venti il Cremlino decise di impossessarsi dei raccolti, sottraendoli ai contadini, sia per nutrire le città e l’esercito, sia per esportare grani e altre materie prime, in modo da incassare la valuta pregiata necessaria all’acquisto della tecnologia occidentale. Quest’ultima era indispensabile per accelerare l’espansione dell’industria pesante e militare, trasformando in brevissimo tempo l’Unione sovietica da paese prevalentemente agricolo a grande potenza industriale. Ripresero così nel 1927-28 le requisizioni forzate nelle campagne, praticate già nel periodo della guerra civile, incontrando già allora fortissima resistenza contadina. La collettivizzazione, cioè la concentrazione forzata dei contadini nelle fattorie collettive, concepita come grande impresa modernizzatrice, prevedeva l’assoggettamento economico allo Stato e lo sfruttamento violento delle popolazioni rurali, contadine e pastorali. Nelle zone nomadi, per esempio in Kazakistan, si procedette alla sedentarizzazione forzata dei pastori per assimilare la società kazaka al sistema economico sovietico (il nomadismo era visto dai bolscevichi come una pratica economicamente arcaica e contraria alla modernità del socialismo), nelle campagne ucraine invece si perseguì la liquidazione degli odiati kulaki, termine spregiativo (“sfruttatori rurali”) usato già ai tempi di Lenin per indicare i contadini possidenti, in genere i più intraprendenti e produttivi. Fra il 1930 e il 1933 furono deportati verso le regioni artiche, la Siberia e la steppa kazaka oltre due milioni di contadini, confinati in cosiddetti “insediamenti speciali”, dove creparono di fame e di stenti a centinaia di migliaia.

Esodo contadini in cerca di cibo

Le deportazioni non riuscirono a impedire lo scoppio di nuove rivolte nelle campagne, le più vaste si verificarono in Ucraina, Kazakistan e nel Caucaso. I contadini si ribellarono apertamente contro i rappresentanti del regime, assassinando centinaia di attivisti comunisti e amministratori, e fecero resistenza passiva, lavorando poco e male per le fattorie collettive o macellando grandi quantità di bestiame, indispensabile per lavorare i campi, pur di non cederlo allo Stato. La disorganizzazione del ciclo agricolo per effetto delle violente requisizioni di grano e bestiame, della collettivizzazione e delle deportazioni provocò una serie di carestie, concentrate soprattutto nelle aree rurali e tradizionalmente produttrici di grano, che durò fino alla seconda metà del 1933. Si calcola che circa cento milioni di persone, due terzi dell’allora popolazione totale dell’Unione sovietica, patirono la denutrizione, gli unici a essere riforniti con un sistema di razionamento, dal quale era esclusa la popolazione rurale, furono gli abitanti delle città, specialmente Mosca e Leningrado. Il Cremlino si rifiutò di prestare soccorso alle regioni più colpite dalla fame e si sforzò di tenere segreta la catastrofe umanitaria, quando notizie trapelarono in Occidente la diplomazia sovietica e la propaganda comunista respinsero qualsiasi aiuto dall’estero, liquidando le voci come agitazione antisovietica. Inoltre, si proseguì a esportare grano. Michael Ellmann ha calcolato che solo il grano esportato avrebbe consentito al governo sovietico di nutrire almeno un milione e mezzo di persone per un anno intero e, qualora si fossero accettati aiuti umanitari interni e internazionali, si sarebbe potuto coprire il fabbisogno minimo dell’intera popolazione.

Morti di fame per le strade a Kharkiv

Il bilancio complessivo delle vittime della Grande carestia, la seconda più grande del secolo dopo la Grande fame nella Cina di Mao, fu di almeno sei milioni di morti, più della metà dei quali concentrati in Ucraina (circa 3,5 milioni), un quarto (circa 2 milioni) in Kazakistan e centinaia di migliaia nel Caucaso settentrionale, nella regione del medio e basso Volga e negli Urali. Il numero esatto delle vittime, probabilmente, non potrà mai essere accertato perché agli uffici pubblici fu ordinato di non documentare le morti, i risultati del censimento del 1937 furono tenuti segreti e i dirigenti responsabili delle rilevazioni internati nel Gulag come nemici del popolo, per seppellire la verità. Solo dopo lo scioglimento dell’Urss è stato possibile studiare quei dati, il confronto dei censimenti del 1926 e del 1937 è infatti una delle fonti principali per il conteggio o la stima delle vittime.

La carestia nella carestia e la fame come arma

Per cogliere le importanti peculiarità del caso ucraino e comprendere le ragioni che giustificano una categorizzazione dell'Holodomor come evento a sé stante dentro la carestia pansovietica, bisogna declinare quest’ultima al plurale e avere contezza del fatto che non solo la fame non colpì tutte le regioni in maniera uniforme, ma anche le misure politiche adottate non furono le stesse dappertutto. Come ci invita a notare Niccolò Pianciola, la comparazione fra le varie carestie regionali è fondamentale per riconoscere le premesse che portarono allo sterminio in Ucraina. Occorre inoltre pensare la carestia in due fasi: fino all'estate 1932 le vittime d'inedia in Ucraina erano state “solo” circa 150.000.

Mappa Ucraina ottobre 1932

La carestia non era stata pianificata, era una conseguenza imprevista di scelte politiche ideologiche e del ricorso a pratiche violente, cui Stalin e i suoi collaboratori erano abituati dai giorni della guerra civile. Solo dall’autunno dello stesso anno la carestia venne consapevolmente usata dalla dirigenza sovietica per piegare la resistenza dei contadini. E fino all'estate 1933, in poco meno di un anno, i morti aumentarono esponenzialmente, fino a superare i tre milioni. Per avere ragione dei contadini ucraini, che a suo modo di vedere preferivano morire di fame piuttosto che cedere, e l’avrebbero fatto per sobillare gli altri contadini contro lo Stato, Stalin inviò come plenipotenziari in Ucraina e nel Kuban, abitato in maggioranza da ucraini e cosacchi, i suoi fedelissimi Lazar Kaganovič e Vjačeslav Molotov, con l'incarico di dirigere le requisizioni armate nelle regioni granarie più importanti, ricorrendo a durissime misure speciali, che non furono adottate invece nelle altre regioni colpite dalla carestia, nemmeno in Kazakistan, dove la rivolta dei pastori contro le requisizioni fu altrettanto violenta che in Ucraina. Perché?

Kaganovich e Voroshilov coi delegati Unione dei Kolchozy febbraio 1933

L’Ucraina era il maggiore granaio dell’Unione Sovietica, quindi al centro della “battaglia del grano”. Ma non solo: l’Ucraina era la repubblica sovietica con la tradizione nazionalista più significativa, cosa che aveva convinto i bolscevichi ad abbracciare la politica delle nazionalità. E proprio in Ucraina la cosiddetta “indigenizzazione” (korenizacija) dei quadri politici e amministrativi era stata effettuata con successo. L’Ucraina era, inoltre, il territorio più occidentale dell’Unione sovietica e, come retrovia del fronte di una possibile guerra contro la Polonia e la Germania, il più delicato in termini geopolitici. L’insufficiente produzione di grano indusse il regime a intensificare le requisizioni nelle aree dove lo Stato aveva concentrato i suoi ammassi, vitali per la sopravvivenza dello Stato sovietico. Stalin temeva dunque di potere perdere il controllo in una regione cruciale come l’Ucraina. Nell’estate del 1932 il dittatore sovietico si convinse che la causa della crisi fosse d’addebitare al nazionalismo ucraino e che la resistenza dei contadini ucraini contro il potere centrale meritasse una punizione esemplare, il problema andava risolto una volta per tutte. È questa la cosiddetta lettura dell’“interpretazione nazionale” data da Stalin alla carestia e alla resistenza ucraina, proposta nel 2001 dallo storico Terry Martin (ma alle stesse conclusioni era giunto anche James Mace) e fondamentale per gli studiosi che riconoscono nella carestia del 1932-33 un atto genocida perpetrato dal regime di Stalin contro il popolo ucraino. Questa è invece rigettata dagli storici russi che non riconoscono come la gestione politica della carestia ebbe tratti più brutali che in altre regioni né la stretta correlazione, nella visione di Stalin, fra politica delle nazionalità e requisizioni del grano.

L’11 agosto 1932 scrisse a Kaganovič che gli amministratori del partito comunista ucraino, infestato di elementi ostili, spie polacche e “seguaci di Petljura”, incoraggiavano la rivolta e proteggevano i contadini contro il governo centrale: «Se non mettiamo le cose a posto in Ucraina, rischiamo di perderla.» Con “mettere le cose a posto” Stalin intendeva evidentemente spezzare la resistenza ricorrendo a due armi che il gruppo dirigente bolscevico considerava legittime ed efficaci fin dai tempi di Lenin: affamare i villaggi, per disciplinare con la fame i contadini ribelli, e l’epurazione del partito ucraino. Nel novembre 1932 i plenipotenziari Kaganovič e Molotov ordinarono sanzioni in natura per privare anche di carne e patate i contadini che non adempivano alla consegna delle quote di ammasso stabilite (circa il 90%), blocco degli approvvigionamenti, liste nere e requisizione dei fondi di semina ingigantirono la carestia in corso, che assunse le dimensioni di uno sterminio della popolazione rurale ucraina. Per sfuggire alla sicura morte per inedia i contadini tentarono di fuggire verso altre regioni, nel gennaio 1933 Stalin pretese che l’esodo di massa venisse bloccato con ogni mezzo. Scattò il blocco dei confini della Repubblica ucraina e fu vietata la vendita di biglietti ferroviari ai contadini, pattuglie della polizia politica intercettarono i contadini in fuga sui treni e sulle strade verso le città per ricacciarli indietro. L’85% circa fu costretto a rientrare nei villaggi d’origine, condannato alla morte per fame, il resto finì internato nel Gulag o confinato negli “insediamenti speciali”. Contemporaneamente, due decreti segreti firmati da Stalin nel dicembre 1932 bloccarono le politiche di ucrainizzazione dei quadri dirigenti e quelle di promozione culturale e linguistica della minoranza ucraina in Russia. Una vasta purga si abbatté sul partito ucraino, la più vasta e sanguinosa verificatasi fino a quel punto in Unione Sovietica, con tratti che anticipavano le “operazioni di massa” del Grande Terrore del 1937-38. Questa ondata di terrore anti-ucraino fece strage anche di intellettuali, artisti, insegnanti, accademici e scienziati, accusati di incoraggiare la causa dell’autonomia ucraina o di volere la secessione.

Un tassello fondamentale della storia del Novecento

Non importa se oggi può apparirci un’esagerazione paranoica, ma il timore di Stalin e del gruppo dirigente sovietico di perdere l’Ucraina era reale, il terrore staliniano muoveva dalla fragilità del potere centrale, di fronte alla destabilizzazione del potere, alla minaccia di una perdita di controllo della periferia dell’impero, l’unica soluzione era annientare il nemico, identificato non più solo genericamente nei contadini ma nel “nazionalismo” ucraino (questa naturalmente è una spiegazione, non una giustificazione). Il confronto col caso Kazakistan è utile perché conferma le peculiarità dell’Holodomor nella carestia pansovietica: la contestuale carestia kazaka, che fece registrare una mortalità ancora più elevata che in Ucraina e altrettanto, se non ancora più profonde conseguenze demografiche e sociali (i kazaki si ritrovarono ad essere un gruppo etnico minoritario nel loro stesso paese, soppiantati dai russi, come attestò il censimento del 1937), era già cominciata nell’autunno 1931, provocata dalle politiche di sedentarizzazione forzata e dalle requisizioni del bestiame, principale ricchezza dei pastori kazaki. Seppure vi fu resistenza altrettanto violenta, Stalin giudicò la situazione meno preoccupante: il dittatore era quasi maniacalmente interessato al grano, molto meno al bestiame, l’indigenizzazione dell’apparato di governo locale era stata più modesta, per l’“arretratezza” culturale e la debole identità nazionale dei pastori nomadi la resistenza alla collettivizzazione non poteva essere interpretata da Stalin come nazionalista, infine il Kazakistan era sul piano geopolitico un regione decisamente meno critica dell’Ucraina, pertanto le misure adottate furono diverse e non ci fu un attivo impiego della carestia come arma di sterminio punitivo. Anche a causa del diverso rapporto con la Russia e l’eredità sovietica, con l’eccezione di una fase nel periodo della proclamazione dell’indipendenza dall’Unione sovietica nel dicembre 1991, nessuno parla oggi di genocidio dei kazaki. In Ucraina, invece, dopo lunghi decenni di silenzio imposto sulla verità dell’ecatombe, senza possibilità di elaborare i lutti e la terribile eredità di dolore, l’Holodomor è diventato il perno della memoria collettiva della nuova Ucraina indipendente, in una cornice di affrancamento dal passato sovietico, di svincolamento ed emancipazione dalla soggezione alla Russia, e un orizzonte di consolidamento democratico della società civile e dello Stato.

A ben vedere, le posizioni degli storici sull’Holodomor non sono poi così divergenti. Se prescindiamo dalla contrapposizione fra studiosi ucraini e russi, i primi praticamente unanimi nel qualificarlo come genocidio, i secondi idem nel respingere il carattere specificatamente anti-ucraino della carestia, abbiamo un sostanziale consenso sulle cause della carestia e sull’uso dell’arma della fame per imporre la volontà politica. Inoltre, la maggioranza degli storici, compresi i più autorevoli (Graziosi, Simon, Wheatcroft, Martin, Applebaum, Werth), condividono la cosiddetta “interpretazione nazionale” della carestia e della resistenza in Ucraina da parte di Stalin, insieme al riconoscimento delle due fasi nell’evoluzione della carestia in Ucraina presupposto per la categorizzazione dell’Holodomor come evento a sé stante dentro la carestia pansovietica e l’attribuzione all’Holodomor di un profilo genocida. Non vi è disaccordo sul fatto che si stia parlando di uno dei più vasti, gravi e terribili crimini contro l’umanità commessi nel XX secolo, e questo non è poco. A dividere è l’opportunità del ricorso alla categoria del genocidio per qualificare l’Holomodor.

Riassumendo, i problemi sono sostanzialmente due. Il primo: la definizione di genocidio adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 appare troppo stretta e imprecisa per classificare eventi di sterminio di massa, molti storici ne lamentano la dubbia utilità sul piano analitico. A dirla tutta i limiti della definizione hanno una motivazione storica, che non può essere ignorata. Raphael Lemkin, il giurista polacco che la elaborò, considerava l’Holodomor «un caso da manuale» ed era favorevole a una definizione ampliata di genocidio che includesse anche crimini di massa contro gruppi sociali, economici e politici. Come ben documentato da Norman Naimark nel suo studio Stalin’s Genocides (2010), questi gruppi erano menzionati nelle prime bozze della Convenzione ONU sul genocidio accanto a quelli etnici e religiosi e fu proprio Mosca, allora, ad opporsi all’inclusione dei gruppi sociali e politici, intervenendo, e con successo, per evitare che comparissero nella versione finale. La Convenzione del 1948 fu così limitata, perché non potesse venire applicata anche ai crimini staliniani.

Il secondo problema è il rapporto con la Shoah. Si teme che il riconoscimento di un genocidio degli ucraini metta in discussione la singolarità del genocidio degli Ebrei d’Europa, più precisamente che abbia come effetto una negazione sostanziale dell’unicità del crimine genocida per antonomasia, la cui elevazione a categoria di ordine superiore è componente centrale della nostra civiltà europea. L’annacquamento semantico di una categoria come quella del genocidio attraverso la sua estensione a un più largo ventaglio di violenze e persecuzioni di massa spalancherebbe le porte a pericolosi revisionismi. Interessante a proposito è la posizione di Andrea Graziosi, uno dei massimi esperti internazionali dell’Holodomor e convinto sostenitore del suo riconoscimento ufficiale come genocidio. La consapevolezza di quanto sia delicata la revisione di canoni e immaginari della sedimentata coscienza storica europea non impedisce allo storico romano di sostenere (a mio parere, a ragione) che la storia del Novecento europeo non potrà essere compresa appieno senza che la tragedia dell’Holodomor non vi venga integrata, con la sua propria singolarità: «L’Holodomor è stato molto diverso dall’Olocausto. Esso non si propose lo sterminio dell’intera nazione ucraina, non si basò sull’uccisione diretta delle vittime, e fu motivato e costruito teoricamente e politicamente […] e non su basi etniche e razziali […]. In questa luce, l’Olocausto è eccezionale perché rappresenta la più pura forma di genocidio immaginabile. Esso fa parte dunque di una categoria a sé stante, ma allo stesso tempo rappresenta il vertice di una piramide a più strati, i cui gradini sono costruiti da altrettante tragedie. Quello dell’Holodomor si trova vicino alla sua sommità.»

Il genocidio e i crimini staliniani fra storiografia, politica e memoria

Altri apprezzati studiosi come il sovietista tedesco Jörg Baberowski, docente di storia dell’Europa orientale presso la Humboldt Universität di Berlino, segnalano un problema più generale di difficile applicabilità della categoria del genocidio ai crimini di massa staliniani, non solo le carestie, ma anche la decimazione, l’internamento e la deportazione di massa di intere nazionalità, minoranze etniche e gruppi sociali indesiderati o considerati ostili allo Stato sovietico. Il terrore di massa sovietico fu evidentemente sterminatore, ma a motivare lo sterminio sociale non sarebbe stata tanto l’intenzione fine a se stessa di eliminare tutti (o quanti più possibile) i membri di una categoria o gruppo etnico in quanto tali, bensì quella di stravolgere l’ordine sociale, stabilizzare regioni inquiete oppure annientare strutture sociali tradizionali e spezzarne la resistenza, insomma raggiungere un obiettivo prestabilito senza alcun riguardo per il costo in termini di vite umane cancellate. La categorizzazione delle vittime nello stalinismo era più articolata e meno coerente di quella dei nazisti, le categorie «erano molto più fluide e moltissimi carnefici finirono a loro volta vittime della violenza che loro stessi avevano usato ad altri.» La violenza bolscevica, specie nel periodo staliniano, aveva poco a che vedere con la lotta di classe marxista. Nella pratica epurativa il concetto di classe era una categoria arbitraria, non oggettivamente definibile in termini sociologici, cui si riconosceva un carattere di genetica ostilità ed ereditarietà: la moglie e i figli di un “nemico del popolo”, i familiari di un kulak o di un intellettuale “borghese” erano pure loro “nemici del popolo” come i loro coniugi, parenti e antenati e formavano una categoria a sé stante fra i milioni di internati.

Il professor Baberowski dubita della volontà deliberata di Stalin di uccidere milioni di ucraini in quanto ucraini e respinge l’interpretazione dei fatti presentata da Anne Applebaum, secondo la quale l’Holodomor sia stato pianificato prima dell’autunno 1932 per risolvere alla radice la “questione nazionale” ucraina. Bisogna stare attenti a non proiettare sul terrore staliniano i caratteri di quello nazista: come accadeva anche nel Gulag e nel sistema degli “insediamenti speciali” (vere pattumiere per gli esclusi della società sovietica) a uccidere in Unione sovietica spesso non era tanto, come nei lager nazisti, la diabolica efficienza di una macchina di morte organizzata per sterminare, bensì il più avvilente spregio per la vita e la dignità umana unito alla fatale convinzione che si potesse disporre liberamente del “materiale umano”, costruendo il comunismo come i faraoni le piramidi, con gli schiavi. Baberowski insiste inoltre che non è corretto attribuire ai russi la responsabilità delle misure politiche che provocarono la carestia: Stalin non era russo, ma georgiano; nel Politbjuro erano rappresentate diverse nazionalità dell’Unione e nella carestia morirono anche molti russi etnici, mentre fra i responsabili delle requisizioni c’erano anche i comunisti ucraini. Insomma, la collettivizzazione forzata che provocò la catastrofe era un progetto bolscevico, non russo, e i bolscevichi erano di diverse nazionalità (anche ucraina). 

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Concludendo, sono del parere che a inchiodare la memoria dell’Holodomor alla sua qualifica o meno come genocidio si commetta un errore. Le grandi carestie sovietiche del 1931-33 sono evento complesso e come tale meritano di essere conosciute e studiate a fondo. Ciò che conta davvero ed è importante anche per l’Ucraina e gli ucraini è fare uscire l’Holodomor dal cono d’ombra dell’oblio, riparare al crimine dopo il crimine, il silenzio troppo a lungo imposto per tenerlo nascosto e cancellarne la memoria. L’iniziativa del parlamento tedesco è significativa, ma temo non sarà risolutiva e potrebbe anche avere alcuni effetti indesiderati. Al di là della sua storia e del suo valore analitico, il termine genocidio ha un peso particolare soprattutto per le sue implicazioni giuridiche. Da tempo assistiamo in vari paesi al fenomeno di “leggi della memoria” approvate dai governi per imporre letture obbligatorie degli eventi storici. Timothy Snyder vi ravvisa un rovesciamento della logica originaria propria della prime norme finalizzate a proteggere la verità sulle vittime, come la legge tedesca del 1985 che punisce la negazione della Shoah: «Una misura introdotta per proteggere la santità dell’olocausto è diventata una forma di controllo sull’intero universo delle atrocità non naziste.» Le cosiddette “leggi della memoria” non imbavagliano solo gli storici, sollecitando meccanismi di autocensura, alla lunga frustrano il valore civile della memoria storica sacrificandolo alla strumentalizzazione politica. In assenza di un pieno consenso storiografico, il riconoscimento di un genocidio, di cui si punisce per legge la negazione, condiziona gli storici e potrebbe rivelarsi un atto pericoloso per libertà di opinione e dunque per la salute della democrazia.

L’Holodomor appartiene a una lunga storia di sofferenze che si presta a essere funzionalizzata come grande narrazione vittimistica nazionale. Il fenomeno è diffuso nell’est europeo in uscita dalla cattività sovietica; specialmente laddove la minaccia russa alla propria autodeterminazione è avvertita con maggiore urgenza, come nei paesi baltici e in Polonia, è andata assumendo anche una valenza securitaria: la “nazionalizzazione” della memoria attraverso la costruzione di una narrazione esternalizzata, incardinata sul proprio ruolo di vittime, tacendo o marginalizzando aspetti come il collaborazionismo e la complicità nella Shoah, serve a difendere l’identità nazionale da chi la mette in discussione. Una componente centrale di queste narrazioni è l’identificazione dell’“occupazione” sovietica con la volontà imperialista della Russia, la riduzione del periodo sovietico a soggezione coloniale, combinata all’attribuzione di un carattere genocida alle deportazioni e repressioni subite nel periodo staliniano, miranti ad annientare un popolo, una etnia, e a favorirne la russificazione. La maggior parte degli storici contemporaneisti tedeschi segue da tempo con preoccupazione queste tendenze, che sono anche certamente un corollario della legittima rivendicazione, portata avanti da quei paesi, di vedere accolto nella memoria collettiva europea il loro specifico bagaglio di esperienze e traumi del periodo comunista, e per questo motivo non possono essere trascurate né banalizzate. Il silenzio di questi giorni degli studiosi di fronte all’approvazione della risoluzione al Bundestag è segno di uno scollamento fra la politica e gli storici sul terreno delicato e conteso della memoria pubblica. 

Immagine in anteprima e foto nel testo: Fonte delle illustrazioni: Famine Photo Archive /Ukrainian Research Institute Harvard University

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