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Yemen: una tregua di due mesi dopo 8 anni tra scontri, promesse negate e la peggiore crisi umanitaria al mondo

5 Aprile 2022 5 min lettura

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Yemen: una tregua di due mesi dopo 8 anni tra scontri, promesse negate e la peggiore crisi umanitaria al mondo

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di Laura Silvia Battaglia

Molto probabilmente sarà un gentlemen agreement islamico e durerà lo spazio di un solo mese di Ramadan, come il primo, siglato nel 2016. Ma la tregua unilaterale, firmata a Riyadh, in Arabia Saudita, dopo tre giorni di colloquio tra alcune delle parti in conflitto in Yemen, è un piccolo passo avanti in una guerra entrata nel suo ottavo anno di scontri, promesse negate e infrante, e interessi contingenti e di più lunga durata. Tradotto, darà uno stop ai bombardamenti a tappeto della Coalizione a guida saudita, alle rappresaglie dell’artiglieria filo-iraniana Houthi casa per casa, alle vendette delle milizie filo-emiratine del Gigante nei confronti dei sodali dei Fratelli Musulmani ancora al governo, alle prove tecniche di droni armati sempre più sofisticati, e ai mercati neri di ogni genere: petrolio, armi, plastiche, farine, perfino leopardi e coca-cole, al netto del traffico di bambini orfani e di migranti africani, quelli sempre assai redditizi. 

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Il fatto che la guerra in Yemen resti un oggetto percepito come lontano e sconosciuto, in un quadro geopolitico sempre più fosco e complesso, non aiuta a capirla di più e nemmeno a interessarsi ad essa. Eppure il fatto che, alla fine di questo stillicidio, il vincitore avrà il controllo dello stretto delle Lacrime (Baab al Mandab) ossia quella stretta striscia di mare davanti la città di Aden, da cui transita qualsiasi petroliera (e non solo) che da Hormutz (Iran) salpi per il Mediterraneo via Canale di Suez, dovrebbe destarci una certa preoccupazione, quasi quanto il passaggio dei gasdotti Nord Stream1 e 2 dai Paesi di Visegrad. Ancora non è ben chiaro chi tra i contendenti di questa guerra ci riuscirà, nonostante gli Emirati Arabi Uniti sembrino avere guadagnato un certo vantaggio, ma chiunque esso sia, si sarà guadagnato la moneta di scambio più pesante tra Asia e Corno d’Africa. 

via U.S. Energy Information Administration

Al momento, si temporeggia e probabilmente si affilano le armi per round di guerra ulteriori: di fatto, "le parti hanno accettato di fermare tutte le operazioni militari offensive aeree, terrestri e marittime all'interno dello Yemen e oltre i suoi confini; hanno anche concordato che le navi per il rifornimento entrino nei porti di Hodeidah e che alcuni voli commerciali operino dentro e fuori l'aeroporto di Sana’a verso destinazioni predeterminate nella regione, maggiormente verso e dall’Iran”. Così riferisce l'inviato speciale delle Nazioni Unite Hans Grundberg che ha faticato non poco per replicare condizioni prima verificatesi solo nel 2016. 

Certo è che, se a Riyadh si è riusciti a portare faccia a faccia i rappresentanti del governo centrale di Mansour Hadi, adesso basato ad Aden, con il GCP (General Congress of the People), ossia il partito dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, operante nel Nord del paese, dei ribelli Houthi comunque non c’è stata fisicamente traccia, essendosi rifiutati di raggiungere l’Arabia Saudita perché “luogo non neutrale per degli accordi di pace”, a loro giudizio. 

Dunque è stata una tregua con un convitato di pietra che alcuni sostengono abbia già violato gli accordi forzando pochi posti di blocco nel Marib, l’area dove oggi si guerreggia per il controllo definitivo del Paese. Ma la reazione ufficiale, via Twitter, da parte del ministro degli esteri yemenita Ahmed bin Mubarak pare del tutto positiva anche perché gli Houthi sono in pieno esaurimento strategico: avevano ritenuto che il loro successo fosse inevitabile, ma si sono trovati ad avere un'enorme battuta d'arresto nell’avanzata sulla città di Marib, assediata per oltre un anno. Le prime azioni di tregua intraprese dalle parti sono condivise mentre il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres raccomanda agli attori del conflitto di darsi da fare anche sul piano politico, per gettare le fondamenta di un futuro di pace. Ma questo esito non è garantito. 

Il vantaggio effettivo del momento è che la popolazione civile potrà tirare un po’ il fiato e gli aiuti umanitari verranno erogati nei prossimi giorni, dopo un paio di mesi di buio, complicati dal fatto che il Nord del paese sotto controllo Houthi rischia di non riceverli più da quando il gruppo militare è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche per l’amministrazione americana della presidenza Biden nonché dalla crisi del grano russo-ucraino, sulle cui importazioni il paese dipende per il 40%.

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Del resto, le Nazioni Unite da tempo avvertono che la guerra in Yemen ha causato la peggiore crisi umanitaria del mondo e, secondo il Programma alimentare mondiale (WFP), circa 16,2 milioni di yemeniti, ovvero circa il 45% della popolazione totale, rischiano la fame. Più complessa è la valutazione sulle perdite delle vite umane: sempre le Nazioni Unite stimano che più di 377mila persone siano morte a causa del conflitto fino alla fine del 2021. In un rapporto pubblicato alla fine dell'anno scorso, il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite sostiene che circa il 60% di questi decessi è il risultato di cause indirette, comprese carestie e malattie prevenibili, come colera, difterite, febbre gialla. Il resto è stato causato da combattimenti e raid aerei. Anche per questo, la commissione di esperti che ha indagato per l’attribuzione di crimini di guerra alle parti in conflitto ha faticato a trovare un bilanciamento tra cause primarie e secondarie dei decessi nel conflitto.  Il rapporto rileva però un aspetto che supera queste difficoltà che evidentemente non si vogliono superare: nel freddo computo dei morti i bambini rappresentano il 70% dei decessi totali. Se questa non è tragedia nonché deliberata azione contro i civili inermi – azione che attende ancora giustizia – non sapremmo come altro chiamarla.

Immagine in anteprima: frame video France24 via YouTube

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