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Guerra Israele-Hamas: uscire dall’inferno della punizione collettiva

13 Novembre 2023 16 min lettura

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Guerra Israele-Hamas: uscire dall’inferno della punizione collettiva

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Era febbraio, quando con la giornalista Paola Caridi parlavamo del rischio di una terza e nuova intifada. In quel periodo Israele stava vivendo mobilitazioni di massa contro il governo, la cui riforma del sistema giudiziario costituiva una deriva antidemocratica per il paese. Si stavano inoltre intensificando le violenze contro i palestinesi: per la Palestina il 2022 era stato l’anno con il maggior numero di morti dal 2005, ovvero dai tempi della seconda intifada. Il tutto si andava a inserire nel quadro di sistematica oppressione dei palestinesi nei territori occupati, per cui l’ONG Human Rights Watch nel 2021 ha parlato di “atti disumani”.

Eppure, ripensando a quei momenti, sembra che nulla ci abbia davvero preparato per l’attacco condotto da Hamas e dal Jihad Islamico lo scorso 7 ottobre. Così come sembra che nulla ci abbia davvero preparato per la reazione violentissima che ne è seguita. 

Ci troviamo di fronte a una nuova guerra la cui portata e scala non è ancora chiara, ma la cui brutalità è evidente. Guardare gli schermi, leggere, ascoltare: azioni che in circostanze del genere si associano a un senso di impotenza, alla rabbia o allo sconforto, mentre, all’opposto, il silenzio suona come una forma di complicità, o di colpa.

Come Valigia Blu abbiamo sempre considerato importante prendere posizione nei momenti difficili. Se obiettività ed equidistanza sono fondamentali nell’accertare i fatti, nell’analizzare un contesto nella sua interezza andando alla radice delle motivazioni più complesse, vi è un momento in cui poi la chiarezza acquisita va espressa. Altrimenti obiettività, equidistanza e complessità diventano un paravento, una maschera per l’ignavia. C’è un altro tipo di obiettività che va esercitato, e consiste nel parlare con franchezza, cercando parole il più trasparenti possibili. Mai come ora le semplificazioni tra tifoserie sono dannose, poiché separano nella pratica quei principi che dovrebbero essere alle fondamenta di qualunque società. 

Siamo consapevoli che quanto scriveremo, nell’attuale clima, potrà spingere alcune persone a non seguirci o non sostenerci più, persino nutrendo animosità. Siamo consapevoli che non esisteranno mai parole precise, se nel cuore di chi legge più forte di ogni altro impulso è la fame di un nemico, di colpe da additare. Siamo consapevoli che di fronte all’orrore le uniche nostre armi sono quelle di sempre: l’ascolto, la comprensione e la parola.

Ringraziamo chi vorrà leggere con attenzione e rispetto le nostre parole. Ringraziamo chi, pur nella differenza di opinioni, criticherà senza pregiudizi.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre: terrorismo, non resistenza 

Qualunque analisi del conflitto tra Israele e Palestina e della recente escalation, deve fare i conti con quello che è stato definito “l’11 settembre di Israele”. Hamas si è reso responsabile del maggior numero di ebrei uccisi in un giorno solo dai tempi dell'Olocausto. L’attacco, compiuto durante il sabato ebraico, non ha fatto differenza tra obiettivi civili e militari. Si è trattato di vere e proprie cacce all’uomo che non hanno risparmiato donne, bambini e anziani, con abusi e violenze animate da un totale disprezzo per la vita umana. 

I massacri compiuti sono stati trasmessi in diretta, esibiti con compiacimento per amplificare la portata dell’orrore. Circa 1400 le vittime, più di 200 le persone prese in ostaggio. Tra le vittime ci sono anche attivisti anti-occupazione. Tra gli ostaggi, solo due persone sono state rilasciate finora, mentre le altre rimangono prigioniere; almeno 22 potrebbero essere morte.

Siamo di fronte a palesi violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra, che protegge proprio i civili durante i conflitti. Ciò vale sia in caso di conflitti dichiarati, che di conflitti dichiarati da una delle parti, che in caso di occupazioni. Ciò vale per tutte le parti in conflitto. Qualunque sia la vostra opinione sul conflitto tra Israele e Palestina, qualunque sia la vostra opinione sull’occupazione dei territori palestinesi (qui le Nazioni Unite), sulla sua natura e su come andrebbe risolta, non c’è ragione al mondo che giustifichi quel massacro, quei corpi su cui si è infierito, quelle persone ancora in ostaggio. 

L’unica ragione, al fondo di tutto, nasconde frasi precise e orribili: “quelle non sono vere vittime”, “quella violenza è stata giusta”, “gli israeliani se la sono cercata”, “quelle vittime sono il sacrificio necessario per raggiungere un bene superiore”. L’unica ragione passa per dividere il mondo in “persone” e “non persone”.

Esiste un diritto dei popoli all’autodeterminazione. Benché la sua disciplina sia complessa, esiste un diritto a difendersi e liberarsi dall’oppressore: storicamente, dove non è possibile la via diplomatica e nonviolenta intervengono gli eserciti, o le milizie. L’Europa contemporanea è sorta anche in base all’esercizio di questi diritti: negarlo ad altri significa considerare quei diritti un privilegio, legittimando soprusi.

Proprio perché in passato abbiamo riconosciuto questo diritto in altri contesti, proprio perché riconosciamo il diritto all’autodeterminazione e alla libertà del popolo palestinese, è doveroso sconfessare alcune letture che attualmente stanno circolando su Hamas. Questo diritto non vale perché giudichiamo degno chi lo esercita, o perché giudichiamo empio coloro contro cui è brandito. Questo diritto non è un assegno in bianco per compiere massacri di civili. Questo diritto non è il fondamento per ritorsioni o rappresaglie. 

Hamas ha compiuto l’attacco del 7 ottobre con obiettivi e modalità specifiche, e sono gli obiettivi e le modalità di un’organizzazione terroristica che dichiara una guerra totale. Hamas ha fatto saltare il tavolo delle trattative per un accordo tra Israele e Arabia Saudita, gettandovi sopra una pila di cadaveri, violando per primo una tregua col governo israeliano.

Ha radicalizzato il conflitto in corso, mettendo in pericolo ebrei e musulmani in tutto il mondo, entro la cornice nefasta dello “scontro di civiltà”. Purtroppo abbiamo già incontrato al riguardo commenti del tipo “Però Israele…”. Ma se un paese compie crimini di guerra, di solito nel mondo si organizzano marce di protesta, sit-in davanti alle ambasciate. Non si assaltano luoghi di culto come le sinagoghe, non si fanno pogrom, com’è successo invece in queste settimane.

Infine, Hamas ha affermato la propria centralità attraverso la violenza politica, compiendo un attacco che ha soffocato qualunque altra forma di resistenza della società palestinese. Eppure Hamas non era certo Gaza prima del 7 ottobre, e riesce davvero difficile capire come si possa ritenere l’organizzazione amica del popolo palestinese. Quale amico accumula cibo e medicine cui avresti diritto, si arricchisce sulla tua povertà, la tua disperazione e la tua rabbia? Quale amico tortura e uccide i tuoi fratelli e le tue sorelle? Quale amico scava bunker e tunnel sotto la tua casa per proteggere sé stesso, o fa partire lanci di missili vicino a dove vivi

L’unica ragione per cui si può accettare tutto ciò è pensare che simili soprusi e violenze siano un sacrificio necessario a raggiungere un bene superiore. E infatti Khalid Mashaal, uno dei leader di Hamas, considera “sacrifici” e “martiri” i civili palestinesi morti nelle scorse settimane. Per un altro esponente di spicco di Hamas, Mousa Abu Marzouk, l’incolumità dei civili è responsabilità di Israele e delle Nazioni Unite. Al sicuro in Qatar, invece, un altro leader, Khalil al-Hayya parla dei civili morti in termini di costo necessario per “cambiare l’intera equazione, senza limitarsi a un semplice scontro”, auspicando inoltre uno stato di guerra “permanente”. 

Bollare come appoggio ad Hamas il sostegno ai diritti del popolo palestinese è un’odiosa strumentalizzazione. Ma, proprio per questo, sostenere i diritti del popolo palestinese significa anche vedere quanto evidenziato finora, e trarne le conseguenze nella propria azione politica, nelle conversazioni pubbliche. Non si tratta semplicemente di "prendere le distanze da Hamas". Altrimenti il diritto internazionale diventa un tappeto sotto cui si nascondono cadaveri scomodi, mentre si dà dell’assassino al nemico che si desidera punire. 

Non è pensabile un futuro che non si lasci Hamas alle spalle, a meno che non si immagini un percorso che consideri giusti esecuzioni, cacce all’uomo, abusi e torture contro gli israeliani. Non è tollerabile un orizzonte politico in cui Hamas sia considerato com'era prima del 7 ottobre. C'è una ferita violentissima inflitta agli israeliani di cui qualunque soluzione al conflitto deve tenere conto. E c'è un problema che Hamas costituisce anche per quel percorso di liberazione del popolo palestinese.

La reazione del governo israeliano: distruzione, non difesa

A condurre una guerra con un costo di vite elevatissimo, mentre gli ostaggi restano ancora nelle mani dei loro aguzzini, è il governo presieduto da Benjamin Netanyahu, figura dominante della politica israeliana degli ultimi trent’anni. Ovvero colui che l’Economist ha da poco definito “l’uomo sbagliato al momento sbagliato”. 

L’attacco del 7 ottobre va visto anche nell’ottica dei fallimenti di Netanyahu, l’ennesima macchia di una carriera politica su cui il giudizio della storia non sarà clemente. Come ricordato su Haaretz da David Rothkopf, Netanyahu e i suoi alleati di governo si sono finora concentrati soprattutto sul tenere “Bibi” al potere e lontano dai processi per corruzione, più sulla sete di potere ai danni dei palestinesi in Cisgiordania.

Tollerando e persino favorendo negli anni Hamas, Netanyahu ha creduto di poter scegliere il nemico a lui più comodo, attraverso la politica del dividi et impera tra Gaza e Cisgiordania. Insieme ai suoi alleati ha voluto fiaccare la Palestina per rendere possibile l’ignorarne ogni rivendicazione, o l’avere mano libera per usare il pugno di ferro. Per regolarizzare l’eccezione e farne norma. Pur di indebolire l’Autorità Palestinese e distruggere alla base l’idea di uno Stato palestinese, ha persino consentito i finanziamenti da Qatar e Iran, così come l’importazione di quei materiali che hanno costruito nel tempo le infrastrutture militari di Hamas. 

Il 7 ottobre è anche la pietra tombale sugli errori commessi da Netanhyahu e dai suoi alleati di governo. In queste difficili settimane, non sono mancate le contestazioni da parte di cittadini israeliani, tra cui i familiari degli ostaggi. Perché, ed è evidente, la reazione del governo israeliano colpisce anche gli stessi ostaggi, che a tutti gli effetti sono ormai possibili danni collaterali. Non sfugga un ultimo elemento: l’opinione pubblica israeliana ritiene Netanyahu in parte responsabile per l’attacco del 7 ottobre, ma supporta la guerra. Netanyahu ha bisogno della guerra per proteggersi da crisi interne e richieste di dimissioni, ma c’è un concenso verso il proseguimento del conflitto che prescinde da lui. 

Proprio perché riconosciamo al popolo israeliano il diritto a vivere sicuri e liberi, e comprendiamo come Hamas sia una minaccia, ci preme far notare come sia in atto una punizione collettiva del popolo palestinese. Da più di un mese, ormai, l’esercito israeliano sta bombardando una delle aree più densamente popolate al mondo, venendo meno a ogni principio di distinzione, proporzionalità e precauzione. Almeno 10 mila i morti: di questi, si stima che più del 40% siano bambini. Circa un milione e mezzo di palestinesi sono rimasti senza casa.

Tra le vittime ci sono anche oltre 100 persone che lavoravano per le Nazioni Unite. Il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha definito l’emergenza medica a Gaza “disperata e pericolosa”, dopo l’attacco all’ospedale Al-Shifa.  Secondo il Committee to Protect Journalists, sono almeno 40 i giornalisti e operatori dei media uccisi. Le forze di difesa israeliane (IDF, Israel Defense Forces) hanno fatto sapere a Reuters di non poter garantire la sicurezza dei giornalisti che lavorano per l’agenzia. Non solo a Gaza si muore, ma sono attivamente ostacolati il racconto di come si muore e la possibilità di salvare vite. 

Ma se parliamo di punizione collettiva, non è soltanto per questi numeri impressionanti, cui si associano le immagini di quartieri rasi al suolo i video delle bombe che illuminano i cieli di notte. È la strategia generale impiegata dall’IDF e dal governo israeliano a indicarlo. Strategia che passa per il taglio di cibo, acqua, elettricità e carburante, per il blocco di aiuti ai civili. Per le rappresaglie contro i civili palestinesi in Cisgiordania, nei territori che Hamas non controlla. Per i civili costretti a evacuare e poi bombardati nelle “zone sicure”, come dimostrato dalla BBC. Per l’uso di proiettili al fosforo bianco su Gaza e ai confini con il Libano.

Anche qui, siamo di fronte a palesi violazioni del diritto internazionale, a partire dalle già citate Convenzioni di Ginevra. A ciò bisogna poi aggiungere le dichiarazioni rilasciate da vari leader israeliani, il lessico disumanizzante per cui molti esperti (tra cui un gruppo delle Nazioni Unite) hanno lanciato allarmi e appelli sul rischio di genocidio o di una nuova Nakba

Il ministro della Difesa per giustificare l’assedio di Gaza ha parlato di una guerra contro “animali”, mentre il presidente israeliano Herzog ha detto che per lui non esistono “civili innocenti a Gaza”. Il primo ministro Netanyahu ha citato l’Antico Testamento per dare un carattere messianico alle azioni dell’esercito. Nel passo in questione, Saul riceve l’ordine di sterminare gli Amaleciti da Samuele, che per bocca del “Signore degli eserciti” lo esorta a uccidere “uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. Il ministro della Cultura ha ricevuto una sospensione-farsa per aver ipotizzato l’uso della bomba atomica su Gaza. Quello delle Finanze ha detto che “non ci sono grosse differenze tra Hamas e l’Autorità Palestinese. Gli arabi sono arabi”, senza ricevere alcuna sanzione. Infine, il ministero dell’Intelligence israeliano in un documento del 13 ottobre ha ipotizzato tra i vari scenari di conflitto l’espulsione permanente dei palestinesi da Gaza. La Nabka è stata esplicitamente menzionata dal ministro dell’Agricoltura a proposito della situazione a Gaza.

Sappiamo come l’accusa di genocidio possa essere strumentalizzata fino a sfociare nell’antisemitismo, o come nel nostro paese questa accusa sia stata largamente ignorata in altri contesti, come per gli uiguri in Cina. Tuttavia bisogna ricordare che la Convenzione sul Genocidio del 1948 è stata scritta per prevenire questo orribile flagello dell’umanità, non perché esso sia constatato a posteriori, una volta avvenuto. Gli Stati che l’hanno ratificata, tra cui Israele, hanno l’obbligo di prevenire un crimine del genere, che contempla il tentativo, l’incitamento, l’intenzione e la complicità. 

Da questo punto di vista, Israele dovrebbe fornire il più possibile garanzie alla comunità internazionale sul fatto che questo pericolo non sia in essere, e la comunità internazionale dovrebbe alzare il più possibile l’asticella - non è qualcosa che si risolve con un comunicato stampa dell’IDF. Da questo punto di vista, sarebbe irresponsabile parlare di esagerazione, o bollare certe dichiarazioni dei leader israeliani come semplici “provocazioni”. Se guardiamo alle intenzioni palesate, vanno molto pericolosamente oltre la protezione dei cittadini israeliani, o la difesa da Hamas. 

Accetteremmo mai un simile livello di morte e distruzione nella civilissima Unione Europea, in nome della “sicurezza” o della “lotta al male”? Accetteremo mai diecimila civili morti in poche settimane a Parigi, o Berlino, o Roma? Eppure verso i palestinesi tutto ciò diventa tollerabile. 

Ciò accade solo accettando che a Gaza si stia compiendo un bene superiore, che quelle vittime siano sacrificabili. O, ancora una volta, accettando che a morire non siano persone. Che siano al massimo “danni collaterali”, oppure “colpevoli” - di appoggiare Hamas, di odiare Israele, di non sapersi opporre, di non volersi salvare. Oppure se proprio sono persone, sono comunque un affare altrui: “È Hamas che deve proteggere i civili”, sentiamo dire, come se lo scudo umano non fosse anche una responsabilità di chi lo bombarda dal cielo. 

Ciò accade perché chiudiamo gli occhi di fronte a eccidi e rappresaglie che nel frattempo avvengono in Cisgiordania. Il New Yorker ha parlato di “gazificazione” della Cisgiordania, dove i coloni e i militari, oltre a compiere raid e uccisioni, stanno spingendo i palestinesi ad abbandonare le proprie terre.

Si trovano relativismi, giustificazioni, si trasformano le vite in numeri, coefficienti; si guarda al diritto internazionale cercando le clausole in piccolo che permettano di aggirarlo, o renderlo nebuloso quel poco che basta per farla franca. Si razionalizza l’orrore espresso nei versi di Lena Khalaf Tuffaha: “Non contano i vostri progetti. / Non conta chi siete. / Dimostrate di essere umani. / Dimostrate di saper stare sulle vostre gambe. / Correte”. 

Certo, qualcuno potrà dire che non ha senso tirare in ballo paragoni con l’Europa, che il contesto palestinese e Hamas sono realtà ben diverse. Eppure le convenzioni e i trattati su cui si fonda il diritto internazionale (o diritto bellico) sono nati proprio dalle macerie delle città europee. Dalle apocalissi nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Oggi, tuttavia, quelle distruzioni sono evocate come esempio da chi giustifica il massacro dei palestinesi. 

La “guerra di civiltà” è il racconto di un fallimento collettivo

Il lungo e complesso conflitto tra Israele e Palestina è arrivato a un livello tale per cui i due principali attori in campo parlano apertamente di distruggere il nemico. Non vedere per intero questa duplice minaccia, la combinazione esplosiva che ne scaturisce, è parte del problema e del dibattito attuale. L’occupazione stessa, così come lo storico di violazioni dei diritti umani rimaste impunite, hanno certamente un ruolo nella cause di questa escalation. Ma lo studio delle cause e dei contesti dovrebbe servire a capire come intervenire, non a trovare argomenti per incolpare un nemico. 

Purtroppo in Italia un certo vuoto informativo sia stato ora rimpiazzato da una riproposizione dello “scontro di civiltà”. Gli stessi che 20 anni fa hanno fallito nel raccontare l’11 settembre e le invasioni di Iraq e Afghanistan, propinando spiegazioni tra la propaganda e il testosteronico culto della potenza, sono ancora ai loro posti, adesso, per spiegarci un nuovo “scontro di civiltà”. O al massimo troviamo i loro eredi, in perfetta continuità. Dopo due invasioni inutili, centinaia di migliaia di morti e numerosi crimini di guerra rimasti impuniti, sono ancora a parlarci di civiltà superiori e inferiori. Confrontate cosa passa in televisione e sui giornali con l’editoriale di redazione con cui il Financial Times, ovvero una delle bibbie di questi sedicenti “moderati”, chiede un cessate il fuoco umanitario e la liberazione degli ostaggi. 

Nella nebbia di guerra e nel caos informativo viene inghiottita anche la possibilità di comprendere la portata del conflitto, e quindi la lettura complessiva in cui va inquadrato. Ad esempio, mentre gli occhi del mondo sono concentrati su Gaza, il 24 ottobre un bombardamento russo ha devastato un campo sfollati nella Siria nord-occidentale. L’attacco è solo uno dei tanti che si sono verificati nel mese appena trascorso Secondo David Carden (Nazioni Unite), in Siria stiamo assistendo alla più feroce escalation dal 2019. 

Almeno 40 attacchi dall’inizio di ottobre hanno colpito le forze armate americane in Iraq e in Siria. Gli attacchi sarebbero stati portati da gruppi sostenuti dall’Iran. In risposta, ha riferito il Pentagono, l’esercito americano ha colpito due strutture in Siria che sarebbero state usate dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica e da gruppi affiliati. L’ala libanese delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, ha invece rivendicato il 6 novembre il lancio di razzi verso Israele partito dal confine con il Libano. Un missile iraniano lanciato Yemen è stato intercettato dall’IDF. La propaganda online di Russia, Cina e Iran sembra essersi schierata con Hamas, secondo il New York Times. Il 26 ottobre una delegazione di Hamas si è recata a Mosca per incontrare esponenti del governo russo. Nel fine settimana si è tenuto invece il vertice della Lega Araba, per la quale le azioni di Israele contro i palestinesi non costituiscono auto-difesa. La Lega ha condannato “l’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza, i crimini di guerra, i massacri barbari e disumani da parte del governo di occupazione”.

Ci sono molte domande che l’attuale situazione solleva, e la maggior parte finora resta senza risposta, mentre la conta dei morti aumenta. La condotta di Israele come può salvare gli ostaggi e rimuovere la minaccia di Hamas, che può contare su appoggi da Iran e Qatar? Come può impedire il collasso interno della società civile israeliana? Un cessate il fuoco verrebbe rispettato? Come dovrebbero essere organizzati i corridoi umanitari e i soccorsi ai civili? Come impedire che aumentino antisemitismo e islamofobia nel mondo? Come si può arrivare a una soluzione “due Stati per due popoli” o “uno Stato per due popoli”, se nazionalismo e fondamentalismo religioso sono cultura di potere dominante? Uccidere migliaia di civili palestinesi diminuisce o favorisce il sostegno ad Hamas? Diminuisce o favorisce la radicalizzazione in chiave anti-israeliana? Se si permette che le atrocità vengano commesse impunemente, quale autorità internazionale potrà poi opporsi ad altri crimini di guerra nel mondo? Se Hamas resta dov’è, quanti nel mondo prenderanno le sue azioni terroristiche ad esempio? Quando finirà l’occupazione della Palestina? Come si garantisce sicurezza per Israele? Che futuro immaginiamo per Israele? Che futuro immaginiamo per la Palestina? Come interrompere il ciclo di violenza e stallo? 

Sono solo alcune delle domande che ci siamo posti guardando a questo duplice abbraccio mortale di radicalismi. Attualmente in Israele vivono oltre 9 milioni di persone, mentre in Palestina ne vivono più di 5 milioni. Solo uscendo dalla logica della distruzione, della punizione collettiva e della vendetta è possibile evitare un collasso umanitario. Solo vedendo il trauma collettivo che affrontano le popolazioni coinvolte si possono usare parole come “giustizia”, “pace” e “libertà”, sottraendole a un orizzonte di forme vuote o macerie. Da questo punto di vista, come ci ha ricordato di recente sempre Paola Caridi, “il 7 ottobre è stato una cesura per tutti quanti, è stata una cesura per israeliani e palestinesi, ma è stato anche una cesura nel nostro sguardo”.

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Per il momento dobbiamo registrare una sconfitta collettiva che ci riguarda tutti, anche se le conseguenze non colpiscono tutti allo stesso modo. Quelle regole che dopo la Seconda Guerra Mondiale ci siamo dati come umanità per evitare l'abisso senza ritorno, le strutture sovranazionali che abbiamo creato, sembrano insufficienti. I veti incrociati, i giochi di alleanze, la preoccupazione che certi paletti del diritto possano applicarsi tanto ai nostri avversari quanto a noi, fin troppo spesso hanno spinto gli Stati a considerare lettere morta quelle regole, a rendere vane quelle strutture. O a svilirle, facendone un tassello di giochi di potere, una posta negoziabile al ribasso. 

Abbiamo ricevuto un lascito affinché, nell'impossibilità di superare definitivamente il ricorso alla guerra, quantomeno si potessero limitare i danni per i civili, fare giustizia delle efferatezze, chiamare a rispondere i colpevoli. Nell'arco di oltre 70 anni, quel lascito è stato sprecato più e più volte nel mondo. Guardando a Israele e alla Palestina, si perde il conto di quante volte sia stato tradito, e di questo infinito tradimento siamo corresponsabili. Come europei, come occidentali, come esseri umani.

(Immagine in anteprima via WikiMedia Commons)

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