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Le condizioni devastanti dei migranti in Grecia e l’indifferenza dell’Europa

14 Febbraio 2020 10 min lettura

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Le condizioni devastanti dei migranti in Grecia e l’indifferenza dell’Europa

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Venerdì scorso, nel corso di una conferenza stampa che si è svolta presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, l'Agenzia ONU per i rifugiati ha chiesto l'evacuazione urgente dal campo di Moria di famiglie e ammalati.

Andrej Mahecic, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), si è rivolto al governo greco affinché assuma misure di emergenza per trasferire sulla terraferma, in alloggi adeguati, la maggior parte dei richiedenti asilo.

Per Mahecic bisogna adottare al più presto soluzioni a lungo termine e migliorare le condizioni dei migranti nelle isole e ritiene che ciò sarà possibile soltanto dopo che i centri di accoglienza, da tempo in sovraffollamento, verranno svuotati. Offrendo il proprio contributo nelle operazioni di trasferimento e per trovare modalità rapide per aumentare la capacità di ricezione, l'UNHCR ha fatto appello anche agli Stati europei affinché rendano disponibili luoghi di ricollocazione per bambini non accompagnati e altri soggetti vulnerabili e velocizzino i trasferimenti dei minori per i quali è stato disposto il ricongiungimento con i familiari.

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Le richieste delle Nazioni Unite sono giunte all'indomani delle tensioni e degli scontri che ci sono stati a Lesbo il 3 e il 4 febbraio, durante i quali la polizia ha affrontato i migranti che manifestavano per chiedere un'accelerazione dell'esame delle domande di asilo.

Nelle ultime settimane anche le comunità locali greche hanno protestato vigorosamente (l'ultima manifestazione risale a ieri) chiedendo al governo di Atene un intervento urgente per alleviare la pressione sulle isole e schierandosi contro la decisione di chiudere i campi di accoglienza a marzo per aprire strutture più piccole, progettate per accogliere 20.000 richiedenti asilo per un periodo massimo di tre mesi, che saranno operative entro metà 2020, secondo quanto dichiarato dal ministro dell'Immigrazione e dell'Asilo, Notis Mitarachi, all'emittente radiofonica greca Skai.

I campi profughi di Lesbo, Samo, Chio, Kos e Leros sono ormai ridotti allo stremo. Con una capienza totale di 5.400 posti accolgono oggi 42.000 bambini, donne e uomini bloccati sulle isole greche a causa della politica di contenimento dell'Unione Europea e destinati a rimanerci fino a quando le richieste di asilo non verranno esaminate da un sistema attualmente a corto di personale e sovraccarico, con 90.000 pratiche arretrate.

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Secondo quanto illustrato da Mahecic la popolazione del campo profughi di Moria, a Lesbo, è passata dalle 5.000 persone ospitate a luglio 2019 (a fronte dei 2.200 posti disponibili) alle 18.342 attuali, con altre famiglie che continuano ad arrivare quotidianamente. A causa del sovraffollamento i nuovi arrivati, non riuscendo più a trovare collocazione nell'area adibita, sono costretti a costruirsi rifugi di fortuna in un uliveto adiacente pieno di rifiuti.

A Samo la situazione non è molto diversa con 6.782 persone che alloggiano in un campo profughi progettato per 660. Gli ultimi arrivati dimorano in rifugi improvvisati, nei campi circostanti, su un pendio ripido.

Stesse condizioni a Chio, Kos e Leros.

La maggior parte dei richiedenti asilo e migranti è composta da famiglie. Un terzo della popolazione che abita nei campi profughi è costituito da bambini, prevalentemente al di sotto dei dodici anni.

Quasi 2.000 bambini arrivati in Grecia senza genitori o parenti e che si trovano attualmente nei centri di accoglienza sono a rischio. Dei 5.300 bambini non accompagnati che si trovano in Grecia meno di un quarto risiede in alloggi adeguati alla loro età.

Le migliaia di minori, donne e uomini che attualmente vivono in piccole tende sono esposti al freddo e alla pioggia con poco o nessun accesso a riscaldamento, elettricità e acqua calda. L'igiene e le condizioni sanitarie sono scarse. Le malattie in aumento. Nonostante la dedizione di medici professionisti e volontari, molti non riescono a consultare un dottore a causa della carenza di personale.

La dottoressa Hana Pospisilova, consulente cardiologa volontaria a Lesbo, intervistata dal Guardian ha dichiarato di nutrire serie preoccupazioni a causa dell'impossibilità di curare persone molto malate e vulnerabili. Questa situazione potrebbe determinare un'emergenza sanitaria di portata catastrofica.

«Sono un medico esperto, ho visitato molti pazienti nella mia vita, ma quello che ho visto a Lesbo mi ha fatto piangere. Ho incontrato molti bambini che temevo sarebbero morti di malnutrizione. Ho visitato un bambino che aveva un cattivo odore. Sua madre non lo lavava da settimane perché c'è solo acqua fredda ed era preoccupata che se lo avesse fatto sarebbe morto».

https://twitter.com/BehnamZarei21/status/1220362441680474112?s=20

Pospisilova ha spiegato che ci sono bambini, tra i 12 e i 15 anni, che vivono nell'oliveto adiacente al campo e che camminano scalzi. Molti di loro hanno la scabbia e non vengono curati perché dovrebbero lavarsi. E lavarsi significa non solo aspettare tre ore al freddo ma anche rischiare che possa accadere qualcosa, perché nelle file d'attesa ci sono persone munite di coltelli. Quando va tutto bene e non succede nulla è consentito rimanere sotto la doccia non più di due minuti.

«Gli dicevo di buttare via i vestiti e mi rispondevano di avere solo quelli. Li hanno indossati per sette mesi. Ogni giorno incontravo venti persone e tutte e venti avevano una storia terribile da raccontare».

«Ho visitato molti pazienti con problemi respiratori e nonostante faccia freddo ed è inverno li rimandiamo indietro, in tende bagnate, in un campo sovraffollato. Sono preoccupata che possa scoppiare una pandemia. Non hanno acqua calda, devono aspettare tre ore al freddo per il cibo, non ricevono abbastanza vitamine, tanti hanno le gengive sanguinanti», prosegue Pospisilova. «Le persone vanno e vengono dalle strutture mediche, prendono antibiotici, continuano a tossire, hanno la febbre. L'influenza spagnola iniziò a diffondersi esattamente così, in strutture sovraffollate dove le persone avevano un'infezione virale che è diventata un'infezione batterica che li ha uccisi. Per questo sono preoccupata. Curiamo i pazienti ma nessuno è guarito, è impossibile guarirli in queste condizioni».

In un articolo pubblicato dal Guardian domenica 9 febbraio Annie Chapman, un medico di Londra che ha trascorso tre settimane a Lesbo come volontaria della ong Boat Refugee Foundation (BRF) presso il campo profughi di Moria, ha descritto la sua esperienza ricostruendola attraverso un diario in cui ha annotato, nel corso della sua permanenza, i casi di cui si è occupata.

BRF è l'unica unità medica di emergenza di riferimento nel campo di Moria dalle ore 16 alla ore 23. Secondo Chapman senza l'intervento di BRF molte persone sarebbero morte. Ha potuto verificarlo e poi testimoniarlo durante le tre settimane in cui ha vissuto nell'isola greca.

Ogni giorno le persone fanno la fila per ore prima che la clinica apra alle 16, sperando di poter parlare con un medico dell'eruzione cutanea del proprio bambino, dei dolori addominali legati alla gravidanza, delle allucinazioni e dei ricordi delle violenze a cui si è assistito, dei disturbi del sonno, del prurito causato dai pannolini indossati di notte per paura di dover andare in bagno nell'oscurità del campo dove l'energia elettrica manca da più di due mesi e mezzo e la possibilità di subire violenze è incredibilmente alta.

I pazienti possono accedere all'unità medica soltanto se muniti dei documenti forniti dalla polizia, gli “ausweis”, che contengono fotografia, nome e cognome e un numero. Prima di entrare sono sottoposti a triage (il metodo di valutazione e selezione immediata usato per assegnare il grado di priorità del trattamento quando si è in presenza di molti pazienti) da un medico che è affiancato da un traduttore che parla arabo e farsi. I pazienti in “codice verde" sono quelli che hanno bisogno di cure urgenti, quelli in "codice giallo" sono gravemente ammalati e richiedono un esame completo mentre quelli in codice "rosso" solitamente soffrono di gravi attacchi di panico, dolori acuti, hanno avuto collassi o sono stati feriti da armi da fuoco o hanno subito altri tipi di violenze.

I nomi dei pazienti da visitare vengono scritti su una lavagna in un elenco composto in base alla priorità. La clinica ha due sale, suddivise in quattro aree, e quattro letti che possono essere portati all'esterno in caso di necessità. Il gruppo di infermieri e medici, composto da volontari provenienti da tutto il mondo, lavora insieme ai traduttori (rifugiati che vivono nel campo arrivati da Afghanistan, Congo, Iran, Siria e Somalia). In un giorno mediamente si riescono a visitare dai 180 ai 250 pazienti.

Per spiegare quanto la situazione sia grave e angosciante Chapman ha descritto un giorno di attività nell'unità medica di emergenza dove, a ritmi serrati, si incrociano storie e si salvano vite.

Come quella di un bimbo di quattro anni arrivato con la febbre molto alta. Non mangia, non beve e non risponde ai genitori da ore. Per farlo visitare la famiglia ha dovuto attraversare tutto il campo e aspettare pazientemente in fila, al freddo. La mamma è molto preoccupata perché ha sentito dire che un bambino di una tenda vicina è stato trasportato in un ospedale ad Atene con un'infezione al cervello.

Mentre Chapman inizia a visitare il bambino, si sentono le urla di qualcuno che viene trascinato all'esterno. Il membro dello staff che controlla la porta sul retro grida che si tratta di un "paziente rosso" per cui il bambino viene spostato per portare all'esterno un lettino. Il paziente è un giovane adolescente, privo di sensi, trasportato in una coperta da quattro persone delle tende adiacenti alla sua. È stato visto urlare e poi svenire. I quattro uomini lo hanno portato privo di sensi correndo per 10 minuti.

Nel momento in cui gli viene misurata la pressione, il giovane apre gli occhi e urla in preda a un attacco di panico associato a PTSD (disturbo da stress post-traumatico). Fortunatamente nell'unità è presente un'infermiera psichiatrica e, dopo aver escluso qualsiasi altra patologia, il giovane uomo viene trasferito in una stanza sul retro per riposare ed essere visitato.

Per la salute mentale dei rifugiati esistono attualmente a Moria due percorsi di riferimento. Nella fase acuta viene fornita assistenza in emergenza ai pazienti e ai loro amici, parenti e compagni di tenda, che li ascoltano piangere di notte e li portano in clinica quando sono in preda ad attacchi.

Quando Chapman riprende a visitare il bambino, il piccolo ha ancora una temperatura elevata, è in stato letargico e ha un'eruzione cutanea preoccupante. Gli viene somministrato per via intramuscolare il ceftriaxone, un antibiotico, e successivamente viene portato in ospedale con un taxi. Sull'isola ci sono soltanto due ambulanze, un numero del tutto insufficiente a soddisfare le richieste ora che la popolazione è aumentata smisuratamente.

Dopo aver terminato la visita al bimbo Chapman riceve i pazienti in codice "giallo". Si tratta, per lo più, di bambini con febbre, di adulti con dolori addominali, di donne in gravidanza, di minori con scabbia. La frustrazione è tanta perché cala la sera e non c'è elettricità nel campo per cui bisogna ricorrere alle lampade frontali e alle luci alimentate a batteria.

Arriva un'intera famiglia, due dei quattro figli sono privi di sensi e il padre, che appare confuso, continua a urlare “fuoco". Sembra siano stati esposti al monossido di carbonio per un lungo periodo mentre si trovavano nella tenda di un vicino dove era stato acceso un fuoco per riscaldarsi. I due bambini, a cui viene dato l'ossigeno, sono avvolti nelle coperte. Viene chiamata un'ambulanza. La clinica è dotata di due bombole di ossigeno che vengono utilizzate in base alle esigenze. Dopo il tramonto l'ambulanza non accede fino alla clinica per motivi di sicurezza, a meno che non si tratti di un'emergenza grave. I bambini vengono così portati verso il mezzo e le loro maschere collegate all'ossigeno dell'ambulanza. Durante il viaggio fortunatamente riprendono conoscenza.

Intanto giunge un altro codice "rosso". Questa volta si tratta di due giovani, ansimanti e pieni di sangue, provenienti dalla sezione del campo in cui si trovano i minori non accompagnati. Sono portati da alcuni amici. Entrambi sono stati pugnalati al petto. I cinque dottori e l'infermiera di emergenza si dividono in squadre, con due traduttori a ogni lato del letto. La maggior parte dei medici non è abituata a trattare ferite da taglio acute ma l'esperienza sul campo gli ha insegnato a curarle. È rimasta un'unica bombola di ossigeno dopo che l'altra è stata usata per i bambini avvelenati da monossido di carbonio.

La priorità viene data al ragazzo che ha ricevuto una pugnalata al centro del petto che sembra abbia avuto episodi apnoici. Mentre si attende l'arrivo di un'ambulanza, l'altro ragazzo inizia a dare segni di soffocamento. Uno dei suoi polmoni si sta riempiendo di aria e sangue dell'area dove è stato pugnalato. Gli viene data la bombola di ossigeno, mentre si cerca di fermare l'emorragia dell'altro adolescente. I traduttori - che sebbene non siano medici sono abituati a questo tipo di emergenza - afferrano maschere di ossigeno, garze e medicazioni lavorando ormai come membri di un team addestrato.

Quando arriva l'ambulanza viene chiesto di accostare fino alla porta della clinica per ridurre al minimo il tempo di trasferimento dei ragazzi nel freddo gelido. I due giovani vengono trasportati insieme. La settimana precedente un ragazzo era morto a causa di una coltellata. Il suo ricordo è ancora vivo.

Intanto si visitano altri pazienti. Le persone continuano ad arrivare e i medici a cercare di proteggerle in qualunque modo possibile.

Al termine della giornata di lavoro, la responsabilità dell'assistenza medica nel campo passa a un unico medico dell'esercito, al quale i pazienti non possono accedere a meno che la polizia non ritenga che vi sia un problema medico abbastanza grave. A meno che non ci sia un'emergenza che metta la vita a repentaglio, i migranti aspetteranno fino alle nove del giorno successivo. Alle 6:30, quando è ancora buio, la gente comincia già a fare la fila, in cerca di aiuto.

Per Chapman la sofferenza è palpabile, la disperazione è subdola e può far compiere gesti inconsulti, il sentimento di abbandono è totalizzante. La donna non ritiene di aver svolto un lavoro speciale. Non è stata la prima e non sarà l'ultima volontaria nel campo. Dopo aver offerto il suo contributo è tornata nella sua casa, con il riscaldamento centralizzato, pasti regolari e la sua libertà: tutto quello che le è stato concesso solo per essere nata nel posto giusto.

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La situazione nel campo profughi di Moria sta per implodere e le persone più vulnerabili del mondo ne subiranno le ripercussioni. L'implosione probabilmente causerà alcuni danni all'esterno per poi essere dimenticata perché il mondo continua a voltare le spalle.

«Dobbiamo tenere viva l'attenzione, dobbiamo prendere in considerazione la possibilità di assumerci la responsabilità dei nostri simili», conclude Chapman. «Non ho una soluzione, ma voglio dare voce a queste persone che vengono messe a tacere. E spero che ci sia un pubblico disposto a iniziare ad ascoltare».

foto in anteprima via Boat Refugee Foundation

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