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Grano, mais, olio di semi: la guerra in Ucraina e la crisi del settore agricolo in Italia

10 Marzo 2022 6 min lettura

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Grano, mais, olio di semi: la guerra in Ucraina e la crisi del settore agricolo in Italia

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“Ieri mi è arrivato il carico di farina: mi è costato una fortuna, per scherzare ho chiesto all’autista se dietro c’era la scorta”. Roberto Capello è il proprietario di uno storico panificio di Bergamo, e presidente della Fippa – Federazione italiana panificatori, pasticceri e affini. “Negli ultimi due mesi, la farina di grano tenero è passata da 35-40 centesimi al chilo a 65-80 centesimi, a seconda del tipo, e l’invasione in Ucraina ha solo peggiorato la situazione. Ormai assorbire i costi da parte dei fornai sta diventando impossibile, e parte di questa spesa ricade sul consumatore: il prezzo del pane ha già avuto un incremento del 12-15%”.

L’Ucraina ha esportato nell’ultimo anno 25 milioni di tonnellate di grano tenero, e insieme alla Russia detiene quasi il 30% delle esportazioni mondiali. È quindi in grado di influenzare i prezzi a livello internazionale: ecco perché, già nella prima settimana di guerra, il costo del grano tenero è cresciuto del 13%, secondo un report elaborato da Consorzi agrari d’Italia. Così, beni di prima necessità come farina, pane, pizza e biscotti stanno diventando sempre più cari.

L’aumento dei prezzi dovuto alla guerra arriva dopo mesi di crescita dei costi dell’energia, della logistica e degli imballaggi: attualmente il grano tenero è venduto a 314 euro la tonnellata, il 40% in più rispetto alla stessa settimana del 2021, secondo i dati della Coldiretti. Ad aumentare la quotazione c’è anche il cambiamento climatico: l’anno scorso la quantità di grano prodotta a livello mondiale è stata inferiore alla media per via di una siccità anomala, e anche in questi primi mesi del 2022 le piogge sono state molto scarse. Ci si aspetta quindi che il raccolto di grano sia scarso anche quest’anno, il che comporta un ulteriore aumento dei prezzi.

Da dove viene il grano che mangiamo?

In Italia, la produzione nazionale di grano tenero copre solo il 35% del fabbisogno dei nostri mulini, riporta Italmopa: il resto viene importato. Nel 2020 si parla di circa 4 miliardi e 355 milioni di kg importati, secondo i dati ISTAT sul commercio estero, per un valore di circa 30 milioni di euro. Tra i paesi al primo posto c’è l’Ungheria, che rappresenta il 26% delle importazioni, seguita dalla Francia (18%), l’Austria (9%) e la Germania (7%). L’Ucraina rappresenta solo il 5% del totale, mentre la Russia arriva a poco più dell’1%.

L’invasione dell’Ucraina, se da un lato incide sull’aumento dei prezzi, dall’altro non dovrebbe rappresentare un problema per gli approvvigionamenti dagli altri paesi. E invece, come conseguenza l’Ungheria (insieme alla Bulgaria) ha deciso di bloccare l’export di cereali, per coprire il fabbisogno interno e far fronte ad una crisi che potrebbe protrarsi nel tempo.

Al momento i mulini italiani hanno ancora la scorta di materia prima, avendo immagazzinato il raccolto dell’anno passato e gli acquisti fatti sul mercato internazionale fino al mese scorso, ma presto il grano tenero potrebbe iniziare a scarseggiare. Italmopa, l’associazione industriali mugnai d'Italia, ha dichiarato che l’industria molitoria italiana non sarà più in grado di garantire la produzione di farine di frumento tenero nei volumi richiesti, se non verrà revocato il blocco deciso dall’Ungheria.

“Si profila il rischio di chiusura di impianti molitori entro pochi giorni per via dell’oggettiva impossibilità di sostituire il grano tenero ungherese con frumento di altre origini”, dichiara Andrea Valente, presidente della sezione Molini a frumento tenero di Italmopa. “In questo caso, sarebbe inevitabilmente a rischio la fornitura di farine per la produzione di pane, pizza o prodotti dolciari”.

Secondo Italmopa, la misura adottata dall’Ungheria costituisce una violazione del principio della libera circolazione dei beni nel mercato interno europeo: “Si tratta della decisione autonoma di un partner europeo, che ha scelto di muoversi al di fuori delle regole alle quali ha volontariamente accettato di sottoporsi aderendo all’Unione”, afferma Emilio Ferrari, presidente di Italmopa. “L’Ungheria beneficia degli aiuti comunitari per le produzioni agricole. È per questo che chiediamo una reazione da parte della Commissione europea nei confronti di una violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro”.

Non solo grano: anche mais e olio di semi a rischio

Ma il problema degli approvvigionamenti e dell’aumento dei prezzi non si presenta solo con il grano tenero. L’Ucraina è anche il principale esportatore mondiale di girasole, che è la base di numerose produzioni, alimentari e non: dall’olio, molto utilizzato nell’industria alimentare e nelle pasticcerie, alle farine per uso zootecnico, fino alle oleine, fondamentali per l’industria oleochimica ed energetica, ad esempio per il biodiesel. Nell’ultimo anno l’Ucraina, insieme alla Russia, ha rappresentato il 60% della produzione mondiale di olio di girasole e circa il 75% dell’export mondiale di questo prodotto. Secondo i dati ISTAT sul commercio estero, nel 2021 l’Italia ha acquistato olio di girasole dall’Ucraina per un valore di circa 260 milioni di euro, che si sommano agli oltre 140 milioni per il mais destinato all’alimentazione degli animali.

L’Ucraina, infatti, è il secondo fornitore di mais dell’Italia dopo l’Ungheria: insieme rappresentano circa la metà delle importazioni totali, per un totale di 2,25 miliardi di kg nel 2021. Fino a dieci anni fa, il nostro paese era quasi autosufficiente per la produzione di mais: ora importa il 53% del suo fabbisogno. “Siamo di fronte a una nuova fase della crisi”, avverte il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini. “Dopo l’impennata dei prezzi, arriva il rischio concreto di non riuscire a garantire l’alimentazione del bestiame”.

La speculazione finanziaria sulle materie prime agricole

Il grano, così come il mais e l’olio di semi, è quotato sui mercati finanziari, proprio come altre commodities come il petrolio e l’oro. Il punto di riferimento per le materie prime agricole è la borsa merci di Chicago, la più antica borsa di futures e opzioni al mondo. Questo meccanismo apre le porte alla speculazione: banche, fondi pensione e fondi di investimento scommettono sul prezzo del cibo, il che porta a forti oscillazioni a livello mondiale. Oscillazioni che dipendono da tanti fattori: andamento del meteo e quindi dei raccolti, costo delle materie prime essenziali per l’agricoltura, ma anche disponibilità degli stock sul mercato.

Questo non fa che disincentivare la produzione locale di materie prime: molte industrie hanno acquistato per anni sul mercato mondiale, approfittando dei bassi prezzi. A causa degli scarsi compensi riconosciuti agli agricoltori, molti contadini hanno abbandonato i terreni: negli ultimi dieci anni è scomparso un campo di grano su cinque, con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati. E così, per soddisfare il suo fabbisogno di materie prime come mais e grano, l’Italia oggi è costretta ad importare dall’estero.

“Produrre cibo e non dipendere dall’estero è un tema strategico di sicurezza nazionale”, spiega Prandini. “Lo hanno capito grandi paesi come la Francia di Macron, che ha annunciato un piano per la sovranità alimentare, o la Cina, che ha inserito il settore agricolo nelle linee di investimento programmatico dello stato insieme all’industria meccanica e all’intelligenza artificiale”.

I contratti di filiera, uno strumento per potenziare la produzione nazionale

Nella situazione di emergenza in cui ci troviamo, cosa si può fare allora? Una strada è quella di incentivare i contratti di filiera, per garantire gli approvvigionamenti con prodotto nazionale. “Perché l’industria alimentare deve cercare di volta in volta il prodotto con un prezzo più basso, importando da paesi esteri?”, si chiede Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti. “È un atteggiamento speculativo, che paga solo quando c’è un prezzo di mercato particolarmente fiacco. Sarebbe meglio invece stipulare un contratto con gli agricoltori italiani, accordandosi su un prezzo fisso: questo permetterebbe a tutti di lavorare meglio, assicurando livelli qualitativi più alti e una filiera equa in ogni anello della catena, dal produttore al consumatore”.

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E poi, bisognerebbe istituire l’obbligo di etichettatura anche per i prodotti contenenti farina di grano tenero: questo renderebbe la filiera più trasparente, e permetterebbe al consumatore di avere informazioni sulla provenienza delle materie prime. “Il consumatore, pagando, ha il diritto di sapere che cosa sta acquistando”, afferma Bazzana. “Eppure, quando compriamo la pizza o il pane, non sappiamo da dove viene il grano con cui sono stati prodotti. Questo impedisce la valorizzazione del prodotto locale di qualità”.

Infine, bisognerebbe educare il consumatore e incentivarlo a combattere gli sprechi. “Se il pane manca o se il suo prezzo aumenta scoppiano proteste, ma quando c’è lo diamo per scontato”, conclude Roberto Capello. “E allora, dobbiamo insegnare al consumatore come comprare il pane con intelligenza, acquistando solo quello che serve o comprando delle tipologie che si conservano più a lungo. Ridurre gli sprechi non è una costrizione della povertà, bensì un atto di civiltà, ancora più necessario in un momento come questo”.

Immagine in anteprima: campo di grano a Oblast Lviv, Ucraina – foto di Raimond Spekking, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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