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Allarme sociale e populismo penale: l’introduzione di nuovi reati non risolve i problemi

30 Giugno 2023 12 min lettura

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Allarme sociale e populismo penale: l’introduzione di nuovi reati non risolve i problemi

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Dopo l’incidente stradale di Casal Palocco, che ha causato la morte di un bambino e provocato dibattito e indignazione contro i TheBorderline e la spettacolarizzazione del trash online, dal governo Meloni è arrivato l’annuncio di una “stretta sugli youtuber”. Si prospetta l’introduzione di un nuovo reato, o, meglio, l’aggiunta di una specifica aggravante digitale all’art. 414 del codice penale, che già punisce l’istigazione a delinquere. Secondo il sottosegretario leghista Ostellari, una simile previsione, con la minaccia del carcere fino a cinque anni, servirebbe a "evitare l'effetto moda generato da chi compie bravate sul web".

Non è la prima volta che questo esecutivo introduce nuove fattispecie penali. Il primo atto del governo Meloni, meno di un anno fa, fu l’introduzione del delitto di raduni pericolosi (attraverso il cosiddetto “decreto anti-rave”). L’impegno penalistico è poi proseguito con la previsione di un reato contro gli scafisti, introdotto da una norma che è difficile non definire illogica, visto che prevede una pena molto severa (da venti a trent’anni di reclusione) qualora dal tentativo di immigrazione clandestina derivi, come “conseguenza non voluta”, l’evento di lesioni o morte delle persone trasportate. E poi ci sono gli annunci: solo per citarne alcuni, troviamo all’utero in affitto “reato universale”, l’accusa di duplice omicidio qualora venga uccisa una donna incinta, l’inasprimento o la modifica di reati che potrebbero applicarsi agli eco-attivisti, l’omicidio nautico, l’istigazione ai disturbi dell’alimentazione, le truffe agli anziani, la detenzione di cellulari da parte dei detenuti.

Stile e lessico penalistici si allargano anche ad altri ambiti, come dimostra la proposta di Matteo Salvini per la riforma del codice della strada. La minaccia del cosiddetto “ergastolo della patente” si accompagna ad altre misure non focalizzate sul pericolo concreto ma sulla repressione di determinati comportamenti, come dimostra l’annuncio relativo al ritiro della patente per tre anni in caso di test positivo alle droghe “a prescindere dallo stato di alterazione”.

Alcune di queste proposte penalistiche rientrano nella linea politica e ideologica della destra, improntata alla repressione, come si è visto con i reati inaspriti dai decreti Salvini del 2018 e del 2019, con la previsione di fattispecie delittuose e aggravanti applicabili in chiave politica contro i manifestanti. Altre proposte sembrano invece porsi nella più generale e bipartisan tendenza al panpenalismo sul piano normativo, e al populismo penale sul piano comunicativo.

Vecchi problemi, nuovi reati: le norme incriminatrici degli ultimi anni

Sebbene negli ultimi decenni siano stati depenalizzati molti reati minori, di recente sono state introdotte nuovi reati o sono state aggravate le sanzioni per reati già previsti.

Con la legge 41 del 2016, ad esempio, è stato introdotto nell’ordinamento il delitto di omicidio stradale: l’articolo 589-bis del codice penale prevede ora la reclusione da due a sette anni per chi, violando le regole del codice della strada, abbia cagionato per colpa la morte di una o più persone. Le pene previste possono andare invece dagli otto ai dodici anni, per ipotesi di violazioni del codice della strada considerate più gravi (guida in stato di ebbrezza, o contromano, o passando col rosso, o ad alta velocità, o con un’inversione di marcia…). Il reato in questione, è il caso di sottolinearlo, continua a essere colposo: l’evento (morte o lesioni) è causato da negligenza, imprudenza o imperizia, ma resta non voluto.

Sempre nel 2016, con la legge 199, nell’ambito delle misure previste per il contrasto al caporalato, è stato modificato il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, di cui all’art. 603-bis cod. pen.: oltre al caso di reclutamento di lavoratori a fini di sfruttamento e tramite violenza e minaccia, introdotto nel 2011 e punito con la reclusione da cinque a otto anni, è stata aggiunta la punibilità del reclutamento o dell’utilizzo di manodopera, con l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, anche nell’ipotesi in cui la condotta non comprenda atti di violenza e minaccia, prevedendo per questo reato una pena da uno a sei anni.

Anche il tema della violenza di genere è stato affrontato tramite lo strumento penale. Nel 2009 è stato introdotto il reato di stalking, la cui pena è stata di recente inasprita tramite il cosiddetto Codice rosso, ossia la legge 69/2019 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Tramite questo provvedimento sono state innalzate le pene per i reati di violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo, stalking e maltrattamenti in famiglia, e sono stati introdotti nuovi reati: diffusione illecita di materiale sessualmente esplicito (il cosiddetto revenge porn), deformazione dell’aspetto mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio, violazione dei provvedimenti di allontanamento o di divieto di avvicinamento

A queste riforme penali si aggiungono nuove norme incriminatrici in materia di ecoreati e di tutela del patrimonio culturale. La legge 68 del 2015 ha introdotto nel codice penale nuove fattispecie delittuose come i reati di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, mentre la recente legge Franceschini-Orlando (22/2022) ha innalzato le pene per alcuni reati già previsti dal codice dei beni culturali e ha introdotto nuovi delitti specifici, partendo dai corrispondenti illeciti in materia di furto, appropriazione indebita, ricettazione, riciclaggio, danneggiamento.

Che cos’è il panpenalismo?

Il panpenalismo è una tendenza politico-normativa caratterizzata dalla pervasività del diritto penale in ambiti sociali normalmente estranei a esso. Questo uso, al limite dell’abuso, dello strumento penale si evidenzia in particolare con la proliferazione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene, in base a riforme simboliche, e talora inefficaci, spesso varate sull’onda dell’emotività dell'opinione pubblica.

Che cos'è il populismo penale?

Il populismo penale è un approccio politico e comunicativo che si caratterizza per discorsi semplicistici, che enfatizzano la componente emotiva di paura e odio e sfociano in proposte repressive verso chi ha commesso un reato, ma anche contro chi è considerato deviante rispetto al modello conforme. Lo slogan tipico del populismo penale è “tolleranza zero”, e riassume bene l’inflessibilità nell’adattamento delle regole alla realtà e l’abbandono dell’idea rieducativa della pena, in favore della sola funzione punitiva e afflittiva.

Lo scenario sociale sulle questioni affrontate tra misure e risultati

Nella pagina di presentazione di queste novità legislative, sul sito della Camera dei Deputati, si legge che “l’introduzione di nuove fattispecie di reato e l’aggravamento di illeciti già esistenti” è avvenuta “anche sull'onda di emergenti illeciti di particolare allarme sociale”. L’allarme sociale, tuttavia, dipende non solo dall’effettiva gravità di una questione, ma anche dalla sua percezione, che può essere condizionata dalla narrazione mediatica e dalla propaganda politica, oltre che dal vissuto personale.

I diversi rapporti Perils of perspection, basati su indagini Ipsos in diversi paesi, hanno rivelato false rappresentazioni su diversi temi, dagli errori nel quantificare le principali cause di decesso (le morti violente sono ampiamente sovrastimate rispetto alle morti per malattia) alla composizione sociale della popolazione (con la sopravvalutazione della quota di stranieri). Anche le rilevazioni ISTAT sulla sicurezza confermano la fallibilità delle percezioni: nonostante le statistiche sui reati ne mostrino una continua riduzione, un cittadino su tre ritiene di vivere in una zona a rischio criminalità e, nel dettaglio, le paure non rispondono ai rischi registrati dalle autorità (ad esempio, furti in abitazione e furti d’auto sono uno dei principali timori per gli italiani intervistati, anche se le dimensioni del fenomeno sono ridotte e in costante diminuzione).

L’allarme sociale, che ha portato all’introduzione o all’inaspimento dei citati reati, deriva da reali esigenze di maggior sicurezza o da una percezione di insicurezza? Difficile a dirsi con certezza, ma i dati possono fornire qualche elemento di realtà. Ad esempio, “i traffici illeciti di beni culturali”, si legge nel report del 2021 del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, “continuano a calare, proseguendo una tendenza che va avanti da anni”. Eppure, in linea con i contenuti della Convenzione di Nicosia, ratificata nel 2022, sono stati introdotti nuovi reati per arginare la minaccia della distruzione del patrimonio culturale.

Allo stesso modo, il numero di incidenti stradali continua fortunatamente a ridursi: grazie anche al miglioramento delle dotazioni di sicurezza e della progettazione stradale, dal 1984 al 2014 gli incidenti sono diminuiti di un terzo e quelli a esito mortale si sono dimezzati. Questa tendenza non ha potuto però ridurre la percezione di un allarme sociale in tema di sicurezza stradale, in base al quale si è agito sul piano penale.

In effetti, la riduzione statistica degli episodi indicatori di un problema non è l’unico fattore per valutare la necessità di un intervento normativo sul tema: se è possibile diminuire ancor di più il traffico illecito di beni culturali o limitare il numero di morti sulla strada, è perfettamente legittimo, e anzi lodevole, che il legislatore si attivi. Tuttavia, la risposta penale pare la preferita negli ultimi anni, e non è detto che sia la più efficace.

I dati sugli incidenti stradali tornano in aiuto. Come anticipato, nell’ultimo trentennio il numero di sinistri è diminuito e, se concentriamo l’analisi sugli anni più recenti, possiamo notare che i cali più significativi nel numero di incidenti mortali si sono concentrati dopo due riforme prevalentemente amministrative: l’introduzione della patente a punti, nel 2003, e la riforma del Codice della Strada, nel 2010, con il generale aumento delle sanzioni monetarie, la maggior graduazione dei punti, nuovi limiti per i neopatentati e alcune misure per disincentivare la guida sotto effetto di alcolici.

Osservando i dati, appare evidente come l’introduzione del reato di omicidio stradale sia stata pressoché ininfluente sul numero di incidenti mortali, che anzi, nei primi due anni di vigenza della legge, sono addirittura aumentati. Mentre a ridosso di riforme legate al codice della strada si è registrato un calo significativo degli incidenti mortali, lo stesso non è avvenuto con la strategia penalistica e questo dovrebbe quanto meno condurre a una riflessione sul grado di efficacia dei diversi strumenti normativi a disposizione della politica.

Se anche volessimo ignorare questi indizi sulla preferibilità delle pratiche normative non penalistiche, dovremmo comunque registrare una certa ipocrisia riguardo ai temi citati, che desterebbero allarme sociale senza però meritare un impegno politico diverso dall’inasprimento delle pene. La tutela della parità di genere, della dignità sul lavoro, dell’ambiente e del patrimonio culturale sono state affrontate negli ultimi anni attraverso lo strumento penale, ma le misure politiche di altro genere appaiono purtroppo carenti.

Rispetto ad ambiente e cura del patrimonio culturale, come visto, sono stati introdotti nuovi delitti specifici, ma, secondo le rilevazioni ISTAT, “in una graduatoria della spesa pubblica per il paesaggio e il patrimonio culturale, formata rapportando al PIL la somma di entrambe le voci di spesa (che comunque definiscono un’area d’intervento ben più ampia di quella strettamente riferibile agli ambiti della tutela e della valorizzazione), l’Italia si colloca solo al 22° posto tra i 27 paesi dell’Unione”. In servizi culturali e protezione della biodiversità e del paesaggio, inoltre, l’Italia nel 2019 ha speso una frazione del prodotto interno lordo inferiore a quella del 2010, e l’impegno pubblico per la tutela ambientale, anche alla luce della crisi climatica, è ben rappresentata dall’odissea del PNACC, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici.

L’azione politica ridotta, a fronte degli interventi penalistici, si ritrova anche per gli altri temi di allarme sociale. Il caporalato è un problema profondo e radicato, come più in generale lo sfruttamento lavorativo, ma alla previsione di un nuovo reato si è accompagnata la riduzione dei controlli: secondo i report dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, negli ultimi otto anni il totale annuale di ispezioni e accertamenti si è più che dimezzato, passando dai 221.476 del 2014 ai 100.192 del 2022. Anche volendo tralasciare gli ultimi anni, con le distorsioni statistiche dovute alla pandemia, la riduzione dei controlli si registra già in precedenza: il rapporto del 2016, presentando il dato complessivo di ispezioni e accertamenti, specificava come esso apparisse “particolarmente positivo se si considera la fisiologica diminuzione del personale di vigilanza che da tempo interessa gli Uffici territoriali”. Al costante depotenziamento dei controlli si sono inoltre aggiunte norme in materia tanto di lavoro (con il contratto a tutele crescenti, ad esempio, la cui disciplina dei licenziamenti è stata in gran parte censurata sia dalla Corte Costituzionale, sia dal Comitato europeo per i diritti sociali), quanto di gestione del fenomeno migratorio e delle richieste di protezione, che rischiano di aumentare precariato e invisibilità, due fattori che rappresentano il terreno di coltura di quello “stato di bisogno” di cui approfitta chi commette il reato introdotto con l’art. 603-bis cod. pen. 

L’insicurezza sociale del precariato lavorativo ha impatto anche sulla libertà delle donne, e sulla possibilità di sottrarsi alla violenza (violenza economica compresa), attraverso percorsi di emancipazione e indipendenza. Femminicidio, molestie e maltrattamenti sono fenomeni inaccettabili, ma l’impegno pubblico nel loro contrasto non può esaurirsi con la repressione penale, pur necessaria. Ad aggravare lo scenario della violenza di genere, infatti, ci sono anche questioni culturali, come la vittimizzazione secondaria e la minimizzazione delle violenze denunciate, oltre alla complessità del contesto sociale, che vede partner conviventi ed ex partner, con cui spesso è condivisa l’eventuale potestà genitoriale, come i principali responsabili di atti di abuso: il timore di mandare in carcere il padre dei propri figli, così come, più in generale, la paura di un’escalation di violenza all’indomani di una denuncia, spingono molte donne a rinunciare a chiedere tutela. A questo si aggiunge l’insufficienza nel finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio, realtà che possono supportare le vittime nell’uscita da una relazione abusante, ma che tuttora si reggono in gran parte sul volontariato. E la stessa situazione delle carceri rende la soluzione penale spesso problematica. 

Funzioni ed effetti: il rapporto tra legge, carcere e società

Nelle carceri italiane, secondo i dati di Antigone, il tasso di sovraffollamento è del 119,7%, ma in almeno 80 istituti penitenziari è superiore al 120% (e in 25 istituti supera addirittura il 150%). In media, c’è più di un agente ogni due detenuti, ma un educatore ogni 77.

Questi pochi dati già denunciano una realtà carceraria intesa quasi come una espulsione delle persone recluse dalla società, nonostante l’unica funzione costituzionalmente esplicita della pena sia il suo dover tendere alla rieducazione del condannato, che non può prescindere dall’effetto che il reato commesso ha sulle relazioni sociali.

Qualunque discorso sul diritto penale, su com’era, com’è e come dovrebbe essere, non può prescindere dalla consapevolezza che le punizioni agiscono a danno fatto: qualcuno, per dolo o per colpa, ha violato delle regole, e, con esso, un patto sociale, dei legami con la sua comunità. La repressione penale non può rimediare al danno: può, al più, raccogliere i cocci. L’impressione, invece, è che la politica panpenalistica degli ultimi anni aggravi le situazioni criminali, utilizzi i metaforici cocci per ferire tanto i colpevoli quanto le vittime, attraverso due pericolose tendenze culturali.

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La prima è la strumentalizzazione del dolore. Anche nel racconto mediatico dei fatti di Casal Palocco è stata enfatizzata la reazione del padre del piccolo Manuel, verso il quale umanamente non può che esserci solidarietà e comprensione. La repressione dei comportamenti criminali, però, non è una questione privata, anche nell’interesse delle vittime. Se così fosse, ci sarebbero rischi tanto di impunità, in caso di timore verso i carnefici, quanto di eccesso nella punizione, quando chi subisce il reato è più violento di chi lo commette. L’approccio vendicativo esporrebbe la comunità alle faide, alimentando il circuito violento in un altalena perenne che trasforma le vittime in carnefici e viceversa. Inasprire sempre più le pene, senza nel contempo impegnarsi sul piano culturale ed elaborare strumenti sociali di prevenzione e rimedio, utilizza il dolore delle vittime come pretesto: rinchiudere (anche giustamente) qualcuno in carcere non lenisce la ferita inferta, né rimedia al danno subìto.

La seconda tendenza è la segregazione fisica, che si traduce in abbandono culturale dei colpevoli. Le attuali condizioni carcerarie sono inadatte alla funzione rieducativa prescritta dalla Costituzione, presentando carenze di spazi, percorsi e cultura del recupero individuale e collettivo. Il rischio, quindi, è che il condannato non risponda solo delle azioni che ha commesso, ma anche delle carenze del sistema penitenziario generalmente inteso. Così, in assenza di rieducazione, viene meno anche la funzione protettiva delle pene, cioè l’obiettivo di difesa della società dal rischio che il reo commetta altri reati. Un colpevole rinchiuso senza prospettive, una volta uscito rischia di restare escluso dalla comunità. Il periodo di reclusione diventa così una fase stigmatizzante e potenzialmente criminogena, in cui il condannato può perfino covare sentimenti di vendetta nei confronti delle sue vittime. La prevenzione dei reati avviene invece anche attraverso la ricostruzione della relazione sociale tra chi ha commesso sbagli, più o meno gravi, e la comunità che si è trovata ferita da quelle azioni.

La recente deriva panpenalistica risponde allora a una strategia politica semplicistica, che incontra ampie adesioni. La costruzione e conservazione di un contesto sociale virtuoso, di comunità, è un investimento sulla generale qualità della vita, ma richiede uno sforzo di elaborazione complesso, che non può essere rivendicato nel breve termine della campagna elettorale permanente in cui siamo immersi. In questo scenario, risulta più convincente la soluzione di comodo, quella che promette l’introduzione di nuovi reati, minaccia pene più severe, ma non indaga sugli effetti delle leggi, non studia pratiche civili, non garantisce strumenti di partecipazione e inclusione sociale: si preferisce un ordinamento repressivo a una comunità sicura.

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