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Giuseppe D’Avanzo come io l’ho conosciuto

26 Luglio 2013 4 min lettura

Giuseppe D’Avanzo come io l’ho conosciuto

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Vittorio Zambardino ha scritto un ebook su Giuseppe D'Avanzo, Peppe. Si legge tutto d'un fiato in un paio d'ore e quando l'hai finito te lo senti dentro, in circolo, ed è una sensazione salutare. Nel percorrere con la scrittura il solco scavato dai ricordi, l'autore si impone di raccontare un D'Avanzo che, da postumo, rischia di diventare un'istituzione, di scivolare via nelle inesattezze («credo che gran parte dei giovani che ritengono di conoscerlo sposino la versione di un P. manettaro [...]. Ma per carità, ragazzi miei»), o di essere un santino da commemorare una tantum, giusto per togliersi il pensiero.

Nel testo usa «P.» invece del più colloquiale e biografico «Peppe». È uno dei modi per raffinare l'argomento ed evitare d'essere troppo soggettivo, perché, come Zambardino ammette, è impossibile scriverne in modo asettico:

Il suo nome, che è sempre puntato, a eccezione della prima volta: anche scriverlo e riscriverlo costa emozione e su questo testo io ho lavorato a «togliere». [...] Sul piano soggettivo il mio è un insulto all'automaticità dell'oblio. Perché il tempo distrugge ogni cosa ma soprattutto distrugge noi. Pensi di ricordare ancora tutto perfettamente, ma la realtà è che le persone che non ci sono più scivolano ogni giorno di un passo indietro nella memoria. Quando succede, in genere è tardi, ti sei perso i pezzi.

E questa continua messa a fuoco, la fatica che si coglie qua e là, è un valore aggiunto, perché mostra il valore che hanno le parole quando si tratta una materia delicata sotto molteplici aspetti: c'è l'aspetto personale, poiché Zambardino scrive di un caro amico; quello professionale, essendo l'ebook di un giornalista che racconta un altro giornalista; c'è, infine, l'aspetto storico, perché D'Avanzo è stato uno dei più importanti protagonisti del giornalismo italiano degli ultimi decenni. 
E questa importanza si può cogliere ad esempio in un passaggio che sintetizza la lucidità dell'approccio di D'Avanzo alla professione, l'idea di mestiere continuamente vagliato nella prassi:

il nocciolo del pensiero di P. nel 1987 era quello del 2001 e poi quello del 2011. Se il giornalismo viene fatto male, vive male e tradisce l'opinione pubblica. Di tutte le chiacchiere che ci siamo fatti sulla rete, il suo interesse selezionava solo quelle che potevano migliorare il giornalismo. Il resto non lo udiva nemmeno.

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C'è un empirismo della volontà, dunque, che mal sopporta a partire dagli anni Ottanta la progressiva «deskizzazione». Perché così si lavora sulle parole, e non sui fatti, sull'infinito riverbero che racconta l'albero che cade nella foresta, senza che nessuno vada a vedere se poi nella foresta l'albero è caduto davvero. «Si copiano agenzie, le si incolla. E questo sarebbe giornalismo?» è la domanda che animava la critica di D'Avanzo: nel vivere quotidianamente la risposta, punto imprescindibile è il lettore.

Nella diatriba «lecture Vs conversation» si schiera contro «il giornale come cattedra», che pur esprimendosi con mezzi digitali resta chiuso alle possibilità che proprio quei mezzi offrono: «ripeteva che bisognava scrivere per la "generazione Balotelli", che restava irraggiungibile dalla scrittura dei giornali»; anche se diffidava dei social network, del loro troppo «rumore». Una via al giornalismo che porterà D'Avanzo - racconta Zambardino - ad abbandonare nel 2001 la vicedirezione di Repubblica. Nella lettera che accompagna la decisione, espone i dubbi verso un «giornalismo sushi» con cui si sente incompatibile: la notizia scompare «dietro un trattamento che, se non la omette, la spezzetta. La rende insapore e contemporaneamente l'allontana dal fatto e dalla sua dotazione di senso». Il senso è in ciò che accade, e il lavoro del giornalismo è nel ricostruire il contesto in cui si muovono gli attori (da qui la necessità di usare fonti molteplici, per non essere manipolati da una fonte sola) e offrire al lettore, attraverso la scrittura, l'esito della ricostruzione. Se il dispiegamento di mezzi e risorse perde questa direttiva, il giornalismo «divorzia da un matrimonio mai celebrato: quello con la nuova opinione pubblica» e diventa autocelebrazione. Ecco perché, prima della morte, D'Avanzo stava lavorando a un blog, Avanzi, da lanciare su repubblica.it.

In un periodo in cui i giornalisti addirittura hanno pr che curano loro l'immagine e in cui un articolo sì e uno evoca il popolo del web con le sue rivolte, la sua indignazione e la pericolosità del suo odio, quasi fosse un'orda barbara che minaccia l'Impero, la curiosità, l'apertura mentale e la discrezione di D'Avanzo sono un testamento di cui far tesoro il più possibile; la sua memoria un esercizio doveroso. Stiamo parlando di un giornalista morto nel 2011, in fondo, non di un marziano, anche se talvolta, sfogliando un quotidiano o visitandone il sito, può sembrare il contrario.

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