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Giornalisti che scrivono di scuola? Bocciati

17 Settembre 2012 5 min lettura

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Giornalisti che scrivono di scuola? Bocciati

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Questo bel post di Tullio de Mauro ha portato alla luce un problema sottovalutato della scuola italiana, cioè la totale mancanza di una corretta comunicazione fra la scuola e il mondo dei media.

L'immagine che il cittadino si fa della scuola, soprattutto quella pubblica, è legata infatti solo in parte alla sua reale frequentazione con essa: se non ha figli in età scolare, della scuola egli si ricorda quello che ha vissuto lui quando era alunno, e in base a questo ricordo si forma un'opinione, dando per scontato che la scuola sia rimasta esattamente così com'era ai tempi suoi e che sia tutta esattamente come l'ha percepita lui all'epoca. Ma anche se è genitore e ha figli in età scolare, paradossalmente, spesso l'immagine che si fa della Scuola in generale è legata a quello che gli viene raccontato dai mass media. Pertanto, per esempio, se anche si trova ad avere a che fare con scuole che mediamente funzionano abbastanza bene, può essere che, a forza di sentirsi raccontare che la scuola pubblica è nel caos, funziona malissimo, prepara poco e gli insegnanti sono scadenti, si convinca che la scuola reale dove vanno i suoi figli (e magari non è affatto così male) sia una sorta di unica isola felice in un disastro immane.

Perché è così difficile raccontare la scuola sui giornali?

Perché, come giustamente sottolinea De Mauro, non esistono più, in Italia, giornalisti davvero specializzati nel settore, che ha le sue caratteristiche peculiari e anche il suo lessico giuridico. Far scrivere un articolo sulla scuola a qualcuno che non sa cosa sia un Pof, ignora le direttive delle ultime circolari ministeriali, non conosce la differenza fra un concorso abilitante per entrare in ruolo e uno aperto solo agli abilitati è come affidare la spiegazione di un discorso di Mario Draghi a un giornalista che non mastica neppure i termini base dell'economia.

Gli articoli che riguardano la scuola e i suoi problemi (ma anche le sue sfide), invece, nelle redazioni ormai sono affidati in molti casi a cronisti generici. Questo perché, mancando pagine specializzate e un interesse continuativo per il settore, l'articolo parte quasi sempre da un fatto specifico di cronaca spicciola avvenuto in tale o tal altro istituto, e che viene portato a conoscenza dei media da persone estranee alla scuola stessa: la bocciatura apparentemente incomprensibile di un alunno segnalata dalla famiglia, il ricorso al Tar per qualche irregolarità nei concorsi o negli esami, segnalata da coloro che si sono sentiti discriminati, oppure l'annuncio da parte del Ministro o del suo staff di nuovi investimenti per vari settori (tecnologie, computer, Lim, etc).

La buona volontà non basta

Il cronista, per quanto armato di buona volontà e grondante correttezza professionale, non essendo ferrato sulle normative del settore e sui termini tecnici e non avendo neppure una memoria storica consolidata di quanto è avvenuto in precedenza, si trova così a raccontare cose di cui spesso non capisce la reale sostanza, sbaglia i termini tecnici o i riferimenti normativi, o peggio ancora cade nel tranello di presentare come sconvolgenti novità introdotte per la prima volta pratiche che magari sono invece da anni ormai routine in gran parte degli istituti.

A ciò si aggiunge la difficoltà da parte delle scuole di gestire il rapporto con i media. Quando scoppia qualche caso particolare, il singolo istituto si trova “assediato” da cronisti che richiedono interviste e dichiarazioni al Preside o ai singoli insegnanti, i quali si arrangiano un po' a naso, non esistendo strutture che possano aiutarli. Una scuola, al contrario delle aziende, non ha un ufficio stampa o un addetto ai rapporti con i media, il Ministero non interviene se non con scarni comunicati che riguardano cose sue, i Presidi si trovano a dover rispondere a domande che rischiano di toccare particolari aspetti della privacy degli alunni e che, se rivelati incautamente, possono avere pesanti ripercussioni sulle vite di ragazzi spesso minorenni. Di qui, purtroppo, l'impressione che talvolta danno di rispondere evasivamente, cercare di insabbiare, rifiutare di parlare chiaramente o trincerarsi dietro citazioni di circolari e norme di leggi che al lettore medio e al cronista paiono escamotage per non rendere conto di quanto successo, mentre sono vincoli deontologici ed etici che vanno rispettati per la salvaguardia degli alunni, ad esempio.

Che confusione!

La mancanza di giornalisti specializzati nel campo è visibilissima anche quando si hanno notizie di nuovi investimenti o di nuovi concorsi o immissioni in ruolo. In questo caso la confusione regna spesso sovrana, e l'equivoco crea false speranze o ingiusta indignazione nel lettore medio. Basti pensare alla imprecisione che si ha per la definizione dei «precari», categoria in cui vengono fatti confluire, come se fossero un tutto unico e indistinto, centinaia di persone con storie diversissime, e anche con diversissime probabilità e diritti di essere assunti a tempo indeterminato a scuola.

Ci sono infatti precari rimasti tali anche dopo aver conseguito le abilitazioni all'insegnamento per concorso o nei corsi delle Scuole di Specializzazione, precari che queste abilitazioni non le hanno mai conseguite perché non sono riusciti a passare né i concorsi né le selezioni per entrare nelle scuole, e pertanto non possono sperare di entrare in cattedra senza prima averle conseguite, e anche neolaureati che vorrebbero entrare nel mondo della scuola e per ora lo fanno con qualche supplenza qui e là.

Situazioni, come si vede, diversissime, che però vengono raccontate come un'unica grande «poltiglia» in cui il lettore non specializzato non capisce nulla e finisce col farsi l'idea, sbagliata, che gli insegnanti, in fondo, arrivino in cattedra senza alcuna reale selezione alla base, solo per aver vegetato per anni nelle graduatorie, mentre non è proprio così.

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Forse a nessuno, in realtà, perché non credo che sia frutto di un «grande complotto». È più figlia del nostro tempo e delle nostre priorità, in cui il giornalismo si è sempre più ridotto alla ricerca della «notizia ghiotta» ed è sempre meno interessato a raccontare invece con sistematicità il mondo, che è complesso e sfaccettato. E anche della brutta abitudine, molto italiana ahimè, che ha spinto il giornalista medio (poi i bravi ci sono sempre) a diventare più uno che va in cerca di conferme per i pregiudizi suoi o dei suoi lettori che di storie da raccontare sulla base dei fatti e dei documenti.

Il racconto sulla scuola diviene quindi sempre più prigioniero di queste tendenze: la scarsa conoscenza delle specificità della scuola, la difficoltà a raccontare un mondo che per sua stessa natura varia molto da istituto ad istituto, da città a città, da regione a regione, e anche, in parte, la faziosità di chi vuole raccontare la scuola in base ad una tesi già precostituita, e basata sulle proprie idee filosofiche o politiche.

In mezzo i lettori, che la scuola la vivono ogni giorno, da insegnanti, da alunni, da genitori. E che spesso, in una informazione così combinata, non si riconoscono in quello che viene raccontato, e non riconoscono neppure la scuola che hanno sotto gli occhi e che vivono ogni giorno, così differente dall'immagine un po' imprecisa che viene passata dai media.

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