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Gaza, la Corte Internazionale di Giustizia e la definizione di genocidio

4 Agosto 2025 9 min lettura

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Gaza, la Corte Internazionale di Giustizia e la definizione di genocidio

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Sono ormai trascorsi venti mesi da quando il Sudafrica ha avviato il procedimento giudiziario contro Israele per contestare le violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio di fronte al più alto organo di giustizia internazionale, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.

Da allora, la Corte si è pronunciata più volte indicando a Israele delle misure d’urgenza, ma l’offensiva a Gaza non si è arrestata, e le condizioni della popolazione civile sono sempre più in deterioramento. Da ultimo, anche i giornalisti rimasti a Gaza per documentare quanto sta accadendo rischiano di morire di fame.

Di fronte a tanta sofferenza e all’estrema precarietà delle condizioni di vita di un intero popolo, viene spontaneo domandarsi perché la giustizia internazionale impieghi così tanto tempo a fare il suo corso.

Fin dalla sua fondazione nel 1945, la Corte Internazionale di Giustizia ha adottato un atteggiamento improntato a una rigorosa cautela e prudenza, soprattutto quando si trova a dover decidere su casi particolarmente complessi, sia sotto il profilo tecnico-giuridico quanto sotto quello politico, come è il caso di una accusa di genocidio, il “crimine dei crimini”.

Nelle due volte precedenti in cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su reciproche accuse di genocidio, la decisione è arrivata molto lentamente, quando i conflitti tra gli Stati coinvolti erano oramai già cessati. Nel caso Bosnia c. Serbia, la Corte si è pronunciata dopo ben 14 anni dall’inizio del procedimento. Nel caso Croazia c. Serbia, nel quale la Croazia accusava la Serbia della distruzione della popolazione croata durante l’assedio di Vukovar, e la Serbia accusava la Croazia dell’eliminazione dei serbi della Krajina, la decisione è arrivata dopo 16 anni.

Un simile esito può sorprendere o persino deludere, ma riflette le inevitabili tempistiche procedurali lunghe che caratterizzano il procedimento contenzioso di fronte alla Corte. Le parti in causa possono regolarmente richiedere proroghe dei termini processuali previsti per la presentazione delle proprie memorie difensive, e la Corte tende ad accogliere queste richieste, nella doppia logica politica processuale. In questo modo la Corte se da un lato “guadagna tempo”, dall’altro riesce a disporre di un quadro istruttorio quanto più ampio e approfondito possibile.

È una peculiarità, questa, che riguarda principalmente il procedimento contenzioso, dove uno Stato è posto contro un altro e la Corte deve garantire che entrambi siano in condizioni di potersi difendere. La procedura consultiva, invece, attraverso cui la Corte adotta dei pareri consultivi su questioni di diritto internazionale, può durare dagli uno ai due anni, come è stato per esempio il caso del recente e storico parere che la Corte ha reso sulle conseguenze giuridiche che derivano per gli Stati dal fenomeno del cambiamento climatico.

Di recente, Israele ha chiesto una proroga del termine per presentare la propria memoria difensiva, inizialmente fissato al 28 luglio 2025, chiedendo che fosse posticipato al 26 gennaio 2026. Il Sudafrica si è opposto alla richiesta, sostenendo che non c'erano motivi sufficienti per accoglierla, e sottolineando le esigenze di arrivare a un verdetto senza ritardo alla luce della drammatica situazione umanitaria in corso a Gaza. Nonostante l’opposizione sudafricana, la Corte ha accolto l’istanza israeliana, fissando il nuovo termine per la presentazione della memoria al 12 gennaio 2026.

Dopo il deposito della memoria difensiva israeliana, ciascuna delle parti avrà a disposizione un ulteriore periodo per repliche e controrepliche, normalmente di sei mesi, salvo ulteriori proroghe. Una decisione della Corte non potrebbe dunque realisticamente essere attesa prima dell’inizio del 2027, con la possibilità che slitti addirittura al 2028.

Diversi fattori potrebbero, infatti, prolungare ulteriormente i tempi processuali, tra cui l’intervento di altri Stati della comunità internazionale nel procedimento, che è concesso a sostegno di una delle parti processuali oppure per far valere un proprio interesse. Ogni intervento implica che la Corte debba esaminare decine e decine di osservazioni, con il rischio che questa attività richieda ulteriore tempo.

Attualmente, dieci Stati hanno presentato richiesta di intervento: Colombia, Libia, Palestina, Spagna, Turchia, Cile, Maldive, Irlanda, Cuba e Belize. Il Nicaragua, che aveva inizialmente chiesto di intervenire a sostegno della Palestina, ha ritirato la propria richiesta il 1° aprile.

La richiesta di intervento della Palestina, come Stato direttamente leso dall’offensiva israeliana, potrebbe rivelarsi particolarmente complessa, perché richiede preliminarmente di accertare che la Palestina sia uno Stato e dunque titolato a intervenire. Questo però potrebbe richiedere maggiore sforzo da parte della Corte, perché la questione della statualità della Palestina nel diritto internazionale è attualmente dibattuta, sia tra i giudici internazionali, che tra gli Stati, che infatti continuano a discutere circa il suo riconoscimento.

Nelle more del procedimento, la Corte può comunque intervenire, per evitare che si producano danni gravi in attesa della decisione finale: si tratta delle misure cautelari (o d’urgenza, o provvisorie) che la Corte può adottare su richiesta di parte per evitare danni irreparabili. 

Nell’esercizio di questo potere, dall’avvio del procedimento la Corte ha emesso tre serie di misure provvisorie, tutte rivolte a Israele su richiesta del Sudafrica. Ritenendo “plausibile” che alcune violazioni della Convenzione sul genocidio possano essersi verificate a Gaza (la Convenzione proibisce non solo la commissione, ma anche la mancata prevenzione, l’incitamento, il tentativo, e la complicità nel genocidio), la Corte ha quindi ordinato a Israele di fare tutto il possibile per prevenire atti o incitamenti al genocidio e di permettere subito l’ingresso degli aiuti umanitari (gennaio 2024), di impedire la carestia di cibo e acqua (marzo 2024) e di fermare l’offensiva a Rafah, riaprendo il valico con l’Egitto per far passare gli aiuti (maggio 2024). Israele ha però quasi del tutto ignorato queste misure.

Da maggio 2024, complice anche come riporta il Guardian la pressione di Trump, che a febbraio ha firmato un ordine per bloccare gli aiuti al Sudafrica, accusando il paese di discriminare i bianchi Afrikaner, il Sudafrica ha cessato di chiedere alla Corte di intervenire in via provvisoria. 

Ciò non impedirebbe comunque alla Corte di agire di propria iniziativa. A norma dello Statuto, la Corte può infatti modificare propria sponte il contenuto delle misure provvisorie già adottate, quando sopravvengano nuovi fattori di rischio e urgenza. Soprattutto alla luce del deteriorarsi delle condizioni di vita a Gaza, questo sembrerebbe proprio essere lo scenario a cui fa riferimento nella disposizione e che dunque legittimerebbe la Corte ad agire anche senza richiesta del Sudafrica, imponendo nuove misure nei confronti di Israele.

La questione più delicata del ricorso resta quella di dimostrare l’intento genocidario, ossia la volontà specifica di distruggere, in tutto o in parte, il gruppo protetto dei Palestinesi. Nei casi precedenti in cui la Corte ha interpretato la Convenzione sul genocidio, non è mai stato riscontrato questo intento, e la Corte ha stabilito uno standard probatorio estremamente elevato.

Nel caso Croazia contro Serbia, la Corte ha ritenuto che l’assedio di Vukovar (tre mesi di bombardamenti durante i quali morirono tra 1.100 e 1.700 persone e decine di migliaia furono costrette a fuggire) non integrasse questo requisito, avendo avuto come scopo l’espulsione dei croati dalla città, ma non la loro distruzione fisica come gruppo.

La Serbia, a sua volta, aveva accusato la Croazia di aver cercato di sterminare la popolazione serba durante l’Operazione Tempesta del 1995, con cui la Croazia aveva riconquistato la regione della Krajina, abitata prevalentemente da serbi, provocando l’esodo di circa 200.000 persone. L’elemento di prova fornito dalla Serbia era la trascrizione integrale di una riunione che si era tenuta sull’isola croata di Brioni tra il presidente Franjo Tudjman e i vertici militari croati, in cui sembrava poter emergere l’obiettivo di eliminare i serbi della Krajina. La Corte però non ritenne quella prova sufficiente, e considerò che dalla trascrizione emergeva piuttosto che i leader croati avevano previsto l’esodo dei serbi, ma non la loro distruzione.

Perché sia dimostrato l’intento genocidario, la Corte richiede che la volontà di compiere un genocidio sia l’unico motivo (“only reasonable inference”) desumibile dalle azioni dello Stato. Se questo requisito fosse interpretato in maniera restrittiva, ciò necessiterebbe che le azioni israeliane non debbano poter essere spiegate ad altro titolo, ossia per esempio come condotte adottate a scopi militari. In questo caso non si tratterebbe di genocidio, ma di altre violazioni del diritto umanitario. Se lo si interpretasse in maniera più estensiva, la formula dell’unica inferenza ragionevole possibile potrebbe non escludere la coesistenza, accanto all’intento genocidario, di altri motivi di carattere strategico o militare.

La Corte potrebbe fornire qualche indicazione di come intende interpretare questo requisito per i futuri casi nel procedimento pendente attualmente intentato dallo Stato del Gambia contro il Myanmar per il possibile genocidio dei Rohingya. Il caso è in fase molto più avanzata rispetto a quello del Sudafrica. Da questa sentenza potremmo con tutta probabilità trarre delle indicazioni circa lo standard della prova che la Corte richiede per dimostrare l’intento genocidario, che necessariamente avrà delle ripercussioni sul ricorso contro Israele.

Ad ogni modo, più il procedimento si protrae nel tempo, maggiore è la probabilità che il Sudafrica riesca a raccogliere prove determinanti a sostegno delle proprie argomentazioni. Se il ricorso era stato originariamente presentato pochi mesi dopo l’offensiva israeliana, a due anni dallo scoppio del conflitto le evidenze sulle condizioni di vita insopportabili, deliberatamente imposte alla popolazione civile, appaiono oggi molto più nitide.

Non bisogna disperare della giustizia internazionale. Non è vero che la Corte non ha mai rinvenuto l’esistenza di un genocidio. Nella causa Croazia c. Serbia, la Corte confermò l’interpretazione innovativa che il Tribunale penale per l’Ex Jugoslavia aveva dato della nozione e dell’intento genocidario con riferimento al massacro di Srebrenica, dove morirono circa 8.000 bosgnacchi ad opera della Repubblica Srpska e di altre forze militari irregolari. Il Tribunale penale aveva infatti determinato che si poteva trattare di genocidio nonostante si fosse trattato dell’eccidio di un numero, seppur molto alto di persone, non corrispondente alla totalità del gruppo dei bosgnacchi, e che l’intento potesse essere dedotto da un insieme di documenti e comunicazioni degli ufficiali serbo-bosniaci, seppur nell’assenza di un piano scritto certificante la volontà di sterminio. Sebbene la responsabilità diretta della Serbia non fu accertata, le due sentenze del tribunale e della Corte contribuirono a consolidare la memoria collettiva attorno a quella vicenda storica. Ancora oggi Srebrenica rimane il primo genocidio riconosciuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.

D’altro canto, non si dovrebbe sovrastimare e ingigantire il ruolo della giustizia internazionale in queste vicende. Si dovrebbe soprattutto evitare di attribuirle una funzione salvifica o trascendentale che essa, per sua natura, non può assumere. Le verità processuali sono infatti verità circoscritte al contesto del processo e trovano la loro legittimazione e ragione di esistere esclusivamente in quell’ambito. Tali verità non necessariamente riflettono appieno la complessità, le molteplici sfumature e la profondità della sofferenza umana che si nasconde dietro queste vicende.

Che venga accertata o meno l’esistenza di un genocidio in corso, ciò non preclude il fatto che nel conflitto a Gaza sono stati – e continuano a essere – commessi crimini di guerra di estrema gravità e violazioni dei principi più basilari del diritto umanitario, tanto nel contesto specifico dell’offensiva israeliana quanto nel più ampio quadro dell’occupazione discriminatoria nei territori palestinesi. E l’attesa della decisione non dovrebbe precludere l’obbligo di intervenire o di agire per fermare Israele. Un dibattito che si focalizzi esclusivamente sulla categoria giuridica del genocidio rischia di semplificare e ridurre la complessità della situazione a Gaza, inquadrandola in una definizione giuridica che, per come formulata, presuppone un conflitto tra gruppi e anzi perciò può portare all’esasperazione di questa dinamica compromettendo ogni sua ricomposizione.

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Hersch Lauterpacht, eminente studioso di diritto internazionale di origine ebraica, professore a Cambridge, giudice della Corte Internazionale di Giustizia e consulente della delegazione britannica al processo di Norimberga, si oppose all’inclusione del crimine di genocidio nello Statuto del tribunale. Al contrario, Raphael Lemkin, anch’egli ebreo e laureato in diritto nella stessa facoltà di Lauterpacht, che aveva coniato il termine “genocidio”, si impegnò strenuamente per far riconoscere tale crimine, cercando di convincere gli Stati Uniti a sostenerne l’inserimento. Al tempo vinse Lauterpacht, come racconta Philippe Sands nel libro La strada verso est (Milano, Guanda, 2016) ma il dibattito sulla portata giuridica, morale, simbolica e ideologica di una condanna per genocidio resta oggi ancora vivo.

Nella tutela concreta dei diritti delle persone, la giustizia internazionale svolge un ruolo inevitabilmente limitato e parziale, ma essa può comunque contribuire, pur nelle sue lentezze, a sostenere e supportare quel processo di elaborazione collettiva del trauma, custodendo la memoria storica e ponendo una base per la ricomposizione delle fratture del passato e per aprire spazi di riconoscimento reciproco e reciproca convivenza. È del resto quello che è avvenuto nel conflitto serbo-croato, in cui a seguito della sentenza della Corte internazionale di giustizia, l’allora Ministro della Giustizia serbo dichiarò che si trattava “della fine di una pagina del passato” e della convinzione di aprirne “una nuova sul futuro, molto più luminosa e migliore”, mentre l’allora Ministra degli Esteri croata espresse la speranza che quella sentenza potesse contribuire a “chiudere questo capitolo storico e voltare pagina verso un periodo migliore e più sicuro per le persone di questa parte d’Europa”.

Immagine in anteprima via polibachronicle.poliba.it

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