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Myanmar a due anni dal golpe e i profughi Rohingya, senza Stato e diritti, che non interessano a nessuno

7 Aprile 2023 9 min lettura

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Myanmar a due anni dal golpe e i profughi Rohingya, senza Stato e diritti, che non interessano a nessuno

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Vivere in uno slum da anni, senza garanzie né prospettive, per scappare da un luogo dove lo stesso diritto alla vita è messo a rischio dalle autorità che lo governano. In un giorno diverso, un governo diverso - ieri il governo di Aung San Suu-Kyi, oggi la giunta militare - viene a bussare alle porte della baraccopoli per chiedere il ritorno di centinaia di migliaia di persone che si trovano lì per lo stesso motivo: fuggire le persecuzioni e l’invisibilità civile. È quanto accaduto lo scorso 15 marzo, quando una delegazione del governo militare birmano è arrivata in Bangladesh per discutere i termini di un ambizioso quanto controverso piano di rimpatrio dei Rohingya, la minoranza islamica oggi ritenuta come “il popolo più perseguitato al mondo”. 

I funzionari hanno raggiunto l’area di Cox Bazar, dove ha sede il più grande campo profughi al mondo. Qui, stando ai dati della sede bangladese dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), i rifugiati Rohingya sarebbero almeno 958 mila. Quasi l’intera popolazione un tempo residente in Myanmar. La stessa agenzia non cita apertamente la visita della delegazione birmana e il progetto pilota in questione, ma a un certo punto è comparso un avviso di fermo temporaneo delle operazioni di registrazione dei documenti fino al 6 aprile.

I (non) dettagli del progetto pilota

“I Rohingya che sono fuggiti in Bangladesh nel 2016 o 2017, o prima di quegli anni, hanno tutti pieno diritto di tornare in patria nello stato del Rakhine [Stato di origine della maggior parte dei Rohingya presenti nei campi bangladesi, ndr.]”, spiega a Valigia Blu Nay San Lwin, co-fondatore della Free Rohingya Coalition. Il processo di identificazione dei profughi non è semplice, dato che la stessa minoranza Rohingya è vittima di un apartheid politico che non ne riconosce l’identità dagli albori del moderno Stato del Myanmar. Ciononostante, “le autorità del Bangladesh hanno inviato [alle autorità birmane] un elenco di oltre 800 mila rifugiati. E il regime militare birmano ha un elenco di tutte le famiglie Rohingya che sono fuggite e sanno chi se n'è andato”, spiega. “Se vogliono riportare i Rohingya in Myanmar non hanno nemmeno bisogno di coinvolgere le autorità delle Nazioni Unite o del Bangladesh. Possono semplicemente inviare un elenco di tutte le persone e riportarle indietro”.

Il piano, per il momento, interessa i richiedenti asilo situati in Bangladesh e non si applica ai Rohingya fuggiti verso altre destinazioni come Thailandia e Indonesia, dove si registrano tuttora degli sbarchi. Secondo quanto si apprende dalle comunicazioni rilasciate a media e agenzie internazionali il piano prevede lo stanziamento dei Rohingya in quindici villaggi situati nello stato del Rakhine. Non è chiara la portata delle operazioni previste dal progetto pilota, né quali condizioni verranno offerte ai profughi una volta rientrati in Myanmar, paese di cui non possono - a oggi - nemmeno chiedere la cittadinanza. “Nessuno, per ora, è interessato a prendere parte a questo progetto data la mancanza di trasparenza e sicurezza riguardo al ripristino dei diritti etnici e di cittadinanza, nonché del diritto al ritorno nei propri villaggi di origine”, afferma Nay San. “Nessun rifugiato tornerà in patria senza la garanzia dei propri diritti. Questo tipo di tentativo di rimpatrio dei profughi non avrà mai successo”.

Rimane controversa la posizione dell’ufficio locale dell’UNHCR, critica Nay San, che “ha organizzato le imbarcazioni per portare la delegazione del regime in Bangladesh, violando la neutralità ONU”. Le stesse Nazioni Unite, poi, hanno però pubblicato un comunicato che convalidava la propria posizione contraria a un rimpatrio non adeguatamente informato in una regione considerata ancora a rischio.

Contingenze pericolose

Per persone come Imran, Rohingya che ha fatto di Cox Bazar la sua casa, è difficile immaginare un rientro in Myanmar, così come per tutti questi anni lo è stata l’idea di riuscire a costruirsi una vita fuori dal Bangladesh. Imran vive da trentadue anni nel limbo del campo di Kutupalong. Era ancora un bambino quando i suoi genitori hanno lasciato la Birmania per sfuggire alle persecuzioni della dittatura militare, ha detto a Valigia Blu. Solo un anno prima, nel 1988, il Tatmadaw aveva represso nel sangue le proteste pro-democrazia note come la “Rivolta 8888”. Non ha documenti, solo una tessera di riconoscimento del campo. “Siamo senza Stato”, racconta Imran, “non possiamo lasciare il paese, trovare lavoro o studiare fuori da qui”.  

“Capisco la decisione del governo del Bangladesh”, commenta Imran. “In questo momento di crisi faticano a gestire i loro stessi cittadini e i profughi sono un peso”. Per qualche anno ha ricoperto il ruolo di rappresentante di un’area del suo campo in una delegazione Rohingya e la sensazione è sempre la stessa: impotenza. “Ci portiamo dietro un trauma che non può essere superato, non in queste condizioni”, dice. Nel frattempo, a inizio marzo l’UNHCR ha annunciato dei tagli importanti ai finanziamenti destinati ai rifugiati in Bangladesh, mentre il Programma alimentare mondiale (PAM) ha ridotto i voucher alimentari da dodici dollari a dieci. Una contingenza che potrebbe mettere i profughi nella difficile posizione di rischiare l’ignoto accettando il rimpatrio, o continuare a vivere nelle condizioni critiche del campo. “Gli aiuti umanitari sono tutto ciò da cui dipendono le persone che vivono qui”, afferma. 

La riduzione degli aiuti internazionali arriva in uno dei momenti più bui dell’economia bangladese che, nonostante alcuni parametri promettenti come la crescita del PIL e dell’Indice di sviluppo umano, si è vista costretta a chiedere un prestito precauzionale al Fondo monetario internazionale. Una situazione anomala ma che sarebbe giustificata, scrive Soumya Bhowmick dell’Observer Research Foundation di Calcutta, dalla presenza di ONG e aiuti internazionali capaci di tamponare un grave divario tra ricchi e poveri.

Non è migliore la situazione sociopolitica a ridosso dell’inizio del mandato del neoeletto presidente Mohammad Shahabuddin Chuppu, previsto in aprile. Le elezioni generali si terranno all’inizio del 2024, ma le stesse presidenziali hanno aperto uno scenario controverso: il trionfo di Chuppu non è infatti tanto merito della sua leadership all’interno del partito di maggioranza, la Awami League, quanto della totale scomparsa degli altri candidati. Tutti i leader dell’opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, si sono dimessi a dicembre 2022 e tra le strade della capitale si registrano regolarmente degli episodi di protesta che spesso sfociano in scontri aperti con la Polizia. Ciononostante, la comunità internazionale sembra più impegnata su altri fronti e da Dacca si continua a perseguire una politica estera accomodante e pragmatica, che nelle relazioni bilaterali viene sintetizzata nel motto “Amicizia verso tutti, rancore verso nessuno”. Lo stesso concetto nel rapporto con il vicino Myanmar.

Prove di “normalizzazione”

A due anni dal golpe, avvenuto il 1° febbraio 2021, il Myanmar rimane un paese frammentato. Lungo le vie della capitale Naypyidaw sfilano le armate del Tatmadaw, l’esercito birmano, mentre nelle campagne continuano i raid aerei, gli incendi, le uccisioni. Le ultime stime dell’Assistance Association for Political Prisoners (AAPP) parlano di 3185 mila morti, di cui almeno 1064 tra le persone condotte in carcere, mentre sarebbero almeno 20877 le detenzioni ufficiali. A 785 giorni dal colpo di Stato, alla tradizionale parata del 27 marzo (Festa delle forze armate), il generale Min Aung Hlaing ha apertamente lanciato un appello contro chiunque si opponga alle manovre della giunta militare: “Gli atti terroristici del Governo di unità nazionale [il governo eletto nel 2020 e oggi in esilio, ndr.] e dei suoi lacchè, le cosiddette People Defence Forces (PDF) [le squadre armate che in maniera più o meno organizzato combattono contro l’esercito birmano, ndr.], devono essere affrontati una volta per tutte”. Ogni giorno si registrano dei nuovi scontri tra le forze del Tatmadaw e le milizie armate che si oppongono al regime, mentre le PDF hanno da tempo attivato dei programmi di addestramento e reclutamento accessibili a chiunque voglia combattere contro l’esercito.

La normalizzazione della presenza militare nella gerarchia di potere birmana passa anche dalla promessa di future elezioni. Inizialmente paventate in agosto, poi rimandate a data da destinarsi per il rinnovo dello stato di emergenza di altri sei mesi a partire da febbraio. La resistenza sul campo non è facile da debellare, come inizialmente potevano immaginare gli alti ranghi del Tatmadaw. In fase preparatoria le autorità avevano inviato delle delegazioni per un censimento della popolazione per aggiornare le liste degli aventi diritto al voto. L’iniziativa è stata poi congelata a causa delle rimostranze incontrate dai funzionari in alcuni villaggi. Il censimento è stato rimandato a ottobre 2024, fattore che posticiperebbe le elezioni ai primi mesi del 2025. Elezioni che potrebbero svolgersi per la prima volta attraverso un controverso sistema di voto elettronico. Nel frattempo, la giunta ha sciolto una dozzina tra i principali partiti esistenti, compreso il partito di Aung San Suu-Kyi che aveva trionfato alle elezioni di novembre 2020. Una manovra giustificata con il superamento del termine ultimo per registrare il partito nel quadro della nuova legge elettorale. 

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A meno di un anno dall’allontanamento del governo vincitore delle elezioni di novembre 2020, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) aveva stimato un ritorno alla povertà assoluta per almeno un terzo della popolazione totale del Myanmar. Oggi sono i cittadini birmani a lasciare il paese, spesso trovando rifugio oltrepassando i confini con India e Thailandia. Il flusso di partenze, che si contano a decine di migliaia, ha richiesto la costruzione di nuovi campi laddove necessario. Almeno un milione, invece, gli sfollati interni secondo le stime 2022 dell’Ufficio ONU per gli affari umanitari (UNOCHA), che denuncia un gap negli aiuti di oltre 700 milioni di dollari. 

Anche la posizione del regime militare nel mondo rimane vacillante. Se i rapporti con la Russia hanno permesso al Tatmadaw di contare sulle forniture di armi e un certo appoggio politico nella regione, la stessa Associazione dei paesi del Sud-Est asiatico (ASEAN) di cui è parte il Myanmar mantiene un approccio altalenante. L’obiettivo, come specificava una proposta di pace in cinque punti resa nota nel febbraio 2022, è innanzitutto la fine delle violenze sul campo. Nel frattempo, la comunità internazionale si divide tra chi sanziona la giunta, come Stati Uniti e Unione Europea, e chi spera in un allentamento delle tensioni per far ripartire la macchina estrattiva. La Cina, un tempo più incline a collaborare con il governo democratico alla luce dell’isolamento internazionale provocato proprio dalla crisi dei Rohingya, sta tenendo contatti tanto con la giunta militare quanto le milizie etniche nella speranza di un ritorno alla normalità. Una normalità che, con un Corridoio economico Cina-Myanmar che passa proprio dal Rakhine, Naypydaw intende perseguire. A ogni costo.

Immagine in anteprima: Tasnim News Agency, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

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