Recensioni Robot & Lavoro

Fuori non c’è davvero un cazzo. Dentro, invece, c’è la morte

17 Novembre 2012 6 min lettura

Fuori non c’è davvero un cazzo. Dentro, invece, c’è la morte

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Dai, su! L'Italia è ricchissima, vanno tutti in Bmw, il Paese è pieno di champagne e caviale...Voglio sapere una cosa: perché non si suicida più nessuno? Forza! Suicidiamoci! Adesso sono sei mesi che non si suicida più nessuno ... esigo un suicidio al giorno! O due!

Giuliano Ferrara, ospite a Omnibus (La7), 27 ottobre 2012

Quello dei suicidi collegati al lavoro è per definizione un tema ostico. Se poi lo si unisce alla contingenza storica attuale, il rischio di abbandonarsi a speculazioni politico-giornalistiche sulle pelle di chi decide di farla finita aumenta a dismisura.

Un tentativo di tirarsi fuori dalla guerriglia delle statistiche è stato fatto da Giulio Sapelli e Lodovico Festa (con un ebook di qualche mese fa intitolato L’Italia che si uccide), che hanno analizzato il problema da una prospettiva qualitativa e non quantitativa. Ora ci prova la letteratura.

L’ultimo romanzo di Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile, si occupa proprio del fenomeno Suicidi & Lavoro. Ma non pensate di trovarvi davanti ad una storia di generazioni perdute, orribili vessazioni aziendali, selvagge ristrutturazioni d’impresa, alienazione spinta e disperazione da crisi economica che deraglia in violenza omicida. Tutt’altro. Fiore utilizza un approccio estremamente sottile, scendendo molto più in profondità – direttamente nel cuore del terziario avanzato.

Nessuno è indispensabile è ambientato nella Montefoschi, una grossa ditta casearia – «nata come minuscola cooperativa di burini analfabeti del basso Lazio nel secondo dopoguerra» –  che in cinquant’ anni ha «cavalcato la ricostruzione del Paese, eluso le recessioni» e «differenziato l’offerta». In breve: è riuscita a completare un processo di industrializzazione virtuosa pur mantenendo un «approccio agropastorale alla gestione delle risorse umane».

La crisi non scalfisce minimamente la Montefoschi, anzi: la quotazione in borsa è imminente. Le vertenze sindacali praticamente non esistono  - la più grande battaglia del sindacalista Arturo Melogna, infatti, è stata quella per il secondo di pesce nel menu della mensa aziendale. E i dipendenti – persone che si sono ritagliate il loro habitat naturale nelle «retrovie dell’esistenza» – trovano nell’azienda e nel suo paternalismo il loro rifugio, il loro surrogato di vita. L’azienda, del resto, se li coccola piuttosto bene: contratti a tempo indeterminato, «piani ferie elastici, turnazioni di lavoro sempre trattabili, scampagnate aziendali, premi di produzione generosi ed ecumenici» e dieta agevolata a base di latticini.

Il protagonista, Michele Gervasini, è uno sfigato di 36 anni che vive all’Eur: single ma non per scelta, passa le nottate a chattare con attempate donnacce di Latina su siti d’incontri online con sede legale alle Cayman. Poi c’è tutta la fauna impiegatizia. C’è il tombeur des femmes aziendale, Augusto Sgueglia, un pezzo di merda assolutamente mediocre con poche ma salde convinzioni: «La superiorità tecnologica delle Audi, la superiorità morale della Roma, i politici tutti mangioni e ladri, i dirigenti raccomandati e le donne interessate per principio solo ai soldi». C’è l’ultraquarantenne Enrico Pigafetta, palestrato e abbronzato, scivolato dalla dipendenza per l’eroina a quella per i multivitaminici e il salutismo. C’è la stagista 25enne del Sud reduce da anni di convivenza universitaria con sbandate «aspiranti-qualcosa prive di talento che sciamavano da posti impossibili». Infine ci sono capiufficio squali e dirigenti, tra i quali spicca il responsabile dell’Ufficio del personale, un uomo asserragliato in una stanza «bianca e sterile come una sala autoptica» con tanto di katana dietro la scrivania.

Tutti i personaggi galleggiano tra miserie, fallimenti, odi interpersonali sotterranei e bilancio semestrale da approvare in fretta, sovrastati dall’immensa mucca in vetroresina che campeggia nel cortile dell’azienda. Insomma, l’ambiente (soprattutto umano) non è esattamente idilliaco. Ma poteva anche andare peggio. In fondo, la Montefoschi è un «paradiso terrestre del lavoratore».

Un paradiso terrestre dove però la gente si ammazza.

Una serie di suicidi, infatti, scuote l’azienda alle fondamenta. I colleghi si accorgono di non sapere nulla delle persone che si uccidono e con cui hanno condiviso l’ufficio per anni; e la dirigenza considera le morti, più che un’autentica tragedia, come una «una rogna aziendale». Fastidiosa, ma pur sempre gestibile attraverso team building, supporto psicologico e altre amenità. Ad un certo punto, il patron dell’azienda dice a una giornalista: «Montefoschi, con tutto il rispetto, non è France Télécom». E ha perfettamente ragione.

L’ondata di suicidi a France Télécom era principalmente dovuta ad una patologia dell’impresa.  La ristrutturazione aziendale post-privatizzazione era stata ferocissima. I quadri dirigenti, che già avevano perso il prestigio legato al loro status di dipendenti pubblici di un certo livello, si vedevano costretti a raggiungere obiettivi impossibili in un contesto lavorativo deteriorato, improntato alla competizione più sfrenata e all’odio tra simili.

I cadres, inoltre, spesso hanno lasciato biglietti piuttosto esplicativi. In una lettera scritta da Michel D., uccisosi il 14 luglio 2009, si legge:

Mi uccido a causa del mio lavoro a France Télécom. È l’unico motivo. […] Sono diventato un relitto, meglio farla finita. […] So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro.

In Nessuno è indispensabile, invece, i suicidi non motivano il loro gesto, non lasciano biglietti o indizi, e soprattutto non parlano. Del resto, come dice il direttore dell’Ufficio del personale, «i colleghi sono persone solo fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane». E allora, perché le risorse umane della Montefoschi si uccidono sul posto di lavoro? È il posto di lavoro stesso a ucciderli?

Arturo Melogna, che nei suicidi vede l’opportunità di dare un senso alla sua tragica attività sindacale, offre la sua spiegazione in un’assemblea praticamente deserta:

Noi oggi sperimentiamo nella nostra carne i guasti di un sistema che nasce guasto alla radice. Chiamatelo occidente, chiamatelo terziario avanzato, chiamatelo come vi pare, ma la sostanza non cambia: è un tumore. E tre morti in meno di due settimane significano metastasi.

Gervasini, invece, rinuncia a spiegarsi i suicidi – e proprio per questo potrebbe averli capiti meglio di chiunque altro: «Forse non deve esserci per forza un motivo per tutto».

Hanno ragione entrambi.

Tutti i protagonisti sono intrappolati nell’insanabile contraddizione tra l’aggrapparsi disperatamente a un lavoro disumanizzante ed il voler evitare a tutti costi qualsiasi contatto con quella nebulosa ostile chiamata Realtà Esterna. Un dialogo verso la fine del libro descrive perfettamente questa condizione:

– Senti Enrico, mi dici che cazzo ci rimaniamo a fare qui dentro?
Pigafetta venne illuminato da una delle sue rare comete d’intelligenza:
- La domanda è: che cazzo andate a fare là fuori?

Già, fuori non c’è davvero un cazzo. Dentro, invece, c’è la morte.

Alla fine, i suicidi sono un confuso sussulto di dignità, un tentativo fuori tempo massimo di appropriarsi di un’umanità perduta da qualche parte tra quell’«immanità di vetro, cemento, alluminio, neon, infissi anodizzati, plastica, formica ed esseri umani». Ma sono anche un modo di distruggere un certo tipo di organizzazione del lavoro, modellata su esseri umani ideali che non esistono.

In un articolo su Le Monde, Christophe Dejours - psichiatra e autore de L’ingranaggio siamo noi - scriveva:

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Nelle imprese dove si verificano i suicidi non c’è più un collettivo degno di questo nome. Non ci sono più fiducia o lealtà tra colleghi. Non c’è più cooperazione o solidarietà. La vita in comune è collassata e ha lasciato il posto alla solitudine di ciascuno, e alla paura. […] Quello di cui i lavoratori hanno bisogno non sono […] la gestione dello stress, le tecniche di rilassamento o gli psicofarmaci. Per lavorare bene c’è bisogno di cooperazione orizzontale con i colleghi e verticale con la dirigenza. Già questo è sufficiente ad allentare la tirannia della gestione e rimettere al centro il lavoro.

Nessuno è indispensabile ci trascina dentro quello che potrebbe essere un modello per eccellenza del terziario avanzato, ci fa toccare con mano la disgregazione della dimensione collettiva del lavoro e infine ci ricorda una cosa piuttosto semplice: lavorare non è solo produrre, riempire fogli Excel o chiudere una semestrale.

È anche, e soprattutto, vivere insieme.

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