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Su Facebook e Cambridge Analytica abbiamo un problema di copertura mediatica

10 Aprile 2018 14 min lettura

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Su Facebook e Cambridge Analytica abbiamo un problema di copertura mediatica

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12 min lettura

di Thomas Baekdal
*Articolo pubblicato su baekdal.com – traduzione di Roberta Aiello

Ci sono molte questioni importanti riguardanti il caso Facebook-Cambridge Analytica che andrebbero affrontate. Ma esiste anche un problema su come viene trattata la vicenda dai media. Questo aspetto è particolarmente evidente su Twitter dove, come "persone del mondo dei media", discutiamo le nostre opinioni.

Leggi anche >> Guida al caso Facebook-Cambridge Analytica: gli errori del social, la reale efficacia dell’uso dei dati e il vero scandalo

Poiché abbiamo la tendenza a perdere la nostra oggettività e siamo concentrati a schierarci contro la tecnologia, invece di discutere seriamente, stravolgiamo le storie a nostro favore (per esempio: "Distruggiamo Facebook! Chiediamo ai politici di regolarlo! Riprendiamoci le nostre quote di mercato!").

Non lo dico per puntare il dito contro qualcuno, perché anch'io ho preso parte a questa frenesia mediatica.

Per esempio, quando uno dei miei follower mi ha inviato questo video, ho pensato fosse l'analogia perfetta di una dichiarazione di Mark Zuckerberg, quando ha detto che sarebbe intervenuto su un problema di cui non era a conoscenza.

Mi è sembrato esilarante, per cui l'ho ritwittato per esprimere il mio dissenso su quanto è accaduto.

Ma questa "attenzione dei media" non è necessariamente una cosa buona.

Il modo in cui abbiamo raccontato la risposta di Facebook rispetto a quello che avremmo potuto sapere dal "whistleblower" ne è un esempio. Si tratta di una copertura delle notizie decisamente unilaterale.

Uno dei maggiori problemi con i whistleblower è che spesso si ubriacano della loro stessa fama e cominciano a rivelare ai giornalisti quello che questi ultimi vogliono sentire.

Lo abbiamo visto molte volte con persone come Edward Snowden, che sulla storia Facebook Cambridge Analytica, ha twittato questo:

“Facebook guadagna sfruttando e vendendo dettagli intimi riguardanti la vita privata di milioni di persone, andando ben oltre quei pochi che si pubblicano volontariamente. Non è una vittima. È un complice.”

Questa non è una dichiarazione veritiera. Facebook non sta 'vendendo dettagli intimi' e Edward Snowden lo sa. Ma è diventato talmente "famoso" che la sua obiettività sta iniziando a scricchiolare (e questo succede da molto tempo).

La stessa cosa sembra stia accadendo con il "whistleblower" che ha rivelato lo scandalo Cambridge Analytica. Ci sono segni molto chiari del fatto che anche lui sia ormai "ubriaco di fama".

Non sto cercando di screditarlo o di dire che sta mentendo. Non ho basi per affermarlo. Quello che sto dicendo è che non vedo l'obiettività che mi aspetterei dai giornalisti quando si occupano di lui come fonte.

Da ciò che ho visto, tutto quello che questo whistleblower ha detto è stato preso alla lettera, senza che fosse messo in discussione, mentre qualsiasi cosa dichiarata da Facebook è accuratamente esaminata o addirittura ignorata. C'è una tendenza nei media a concentrarsi maggiormente sul punire Facebook, piuttosto che fare un passo indietro e parlare dei problemi reali.

Intendiamoci, non sto cercando di difendere Facebook. Il mio ruolo di studioso dei media non è quello di analizzare le notizie, il mio compito è analizzare i media, il modo in cui lavoriamo, la qualità del nostro giornalismo e scoprire il problema, come debba essere risolto e cosa può essere cambiato per migliorare le cose. L'intera discussione su Facebook e Cambridge Analytica non sta centrando il punto, perché il problema è da cercare altrove.

In particolare, si tratta di tre punti:

  • Cosa i politici dovrebbero essere autorizzati a fare.
  • Come possono essere condivisi i dati.
  • La tendenza generale sulla privacy.

Perché i politici possono micro-targetizzare gli elettori?

Il primo grosso problema riguarda aziende come Cambridge Analytica e come hanno fornito ai politici gli strumenti per micro-targetizzare e ottimizzare i loro messaggi per ottenere più voti.

Si tratta, ovviamente, di un grosso problema, perché l'idea che un politico per ottenere più voti possa dire una cosa a un gruppo di elettori e un'altra a un altro gruppo di elettori è pura corruzione politica. È qualcosa di incredibilmente dannoso ai fini di elezioni eque e per un processo democratico.

Ovviamente tutto questo non dovrebbe essere permesso. È assurdo solo pensarlo.

Ma come si impedisce? Dando regole a Facebook?

Immaginiamo che Facebook sparisse domani, il problema sarebbe risolto? No, perché i politici utilizzerebbero altri dati e troverebbero altri strumenti, continuando a dire cose differenti a elettori diversi.

L'unico modo per risolvere il problema è dare regole ai politici. Sono i politici quelli a cui non dovrebbe essere consentito di farlo.

Il problema, inoltre, non è il targeting, perché il 99% delle volte il micro-targeting è davvero utile per tutti. Ad esempio, se hai una piccola azienda di maglieria e vuoi promuovere un nuovo modello, è assolutamente più utile essere in grado di rivolgersi esclusivamente alle persone a cui interessa il lavoro a maglia piuttosto che sprecare un sacco di soldi per mostrare annunci a persone a cui il prodotto non interessa.

Stessa cosa se tu fossi la Nike. È di grande aiuto sia per Nike che per te, che l'azienda possa proporre le sue scarpe da corsa a chi ama correre e quelle da basket a chi ama giocare a pallacanestro.

Questa opportunità crea un ROI (ndr, tasso di rendimento sul totale degli investimenti) migliore per le aziende, ma anche un'esperienza migliore per te, perché significa che non devi essere costantemente infastidito da annunci che non ti interessano.

Il targeting, quindi, non è il problema. Nella maggior parte dei casi funziona esattamente come dovrebbe funzionare. Il problema è che ci sono casi limite in cui può essere usato con cattive intenzioni, come quando i politici hanno la possibilità di usarlo per dire cose differenti a elettori diversi.

Il problema non si risolve dando regole a Facebook. Si risolve dandole ai politici e prevedendole in altri casi limite in cui potrebbe nascere un problema (ad esempio la profilazione razziale nelle inserzioni immobiliari).

Ma non è quello di cui stiamo scrivendo nei media. Siamo così ossessionati da Facebook che non stiamo veramente individuando il problema.

E i politici sono così felici di dare responsabilità a Facebook, perché più possono convincerci che questo è un problema di Facebook, e mostrarci che stanno intervenendo chiedendo a Facebook di testimoniare al Congresso, più noi dei media dimentichiamo che dovremmo chiedere ai politici di auto-regolarsi.

Tutta questa faccenda è solo un'enorme distrazione.

E questo ci porta al secondo punto.

Perché è prevista la condivisione con terze parti?

Un problema che esiste con Facebook è la condivisione dei dati con terze parti, per cui viene data ad altri - e non a te - la possibilità di decidere a chi devono essere dati i tuoi dati.

Questo procedimento è completamente e assolutamente folle.

Perché abbiamo creato un sistema attraverso il quale altre persone hanno il diritto di distribuire i nostri dati? Chi diamine ha avuto questa idea?

Harry McCracken, Technology Editor di Fast Company ha twittato questa storia del 1994:

Il problema, quindi, esisteva già molto tempo prima di Facebook, ma da allora le cose sono peggiorate sempre più.

Attualmente, Facebook prevede questa impostazione:

Questo è completamente folle. Perché altre persone hanno così il diritto di ricevere informazioni sui miei interessi, le mie opinioni politiche, i miei post (alcuni dei quali potrebbero essere impostati come privati) e altro ancora, e darle ad app a caso (per esempio un test che si è deciso di fare per divertimento).

Non è accettabile.

Sono l'unico che può prendere questa decisione. Se un amico vuole i miei dati e darli a qualcun altro, deve avere la mia autorizzazione. L'idea che si possa fare così liberamente è un'assurdità totale.

Non è possibile.

E non mi sto riferendo a Facebook e al fatto che questa impostazione sarà resa più visibile (come Mark Zuckerberg ha detto che accadrà). Non dovrebbe assolutamente esistere.

Dal mio punto di vista, la condivisione di terze parti dovrebbe essere illegale. Se non ho dato il mio consenso, volta per volta, nessuno dovrebbe avere il diritto di condividere i miei dati.

Ed ecco che arriviamo al problema più grande, perché non appena iniziamo a discutere seriamente ci rendiamo conto che la questione non riguarda esclusivamente Facebook. È un problema più vasto, che riguarda anche i media.

Lo spiego in modo molto semplice.

Se si utilizza uno strumento come Ghostery, si può vedere esattamente quali tool di terze parti stanno utilizzando per tracciarci. E qui è dove le cose cominciano a far davvero paura.

Dal momento che tutta questa vicenda è iniziata grazie al Guardian, diamo un'occhiata a come si comporta (questo vale per qualsiasi sito di informazione).

Leggi anche >> Siete pronti? Questi sono i vostri dati che i giornali online vendono sul mercato digitale

Se si va sul sito del Guardian e si blocca il tracciamento di terze parti succede questo

Come si potrà vedere, il Guardian ha implementato 12 tool differenti di terze parti, che in qualche modo sono in grado di tracciare il comportamento dei lettori sul sito.

Questo, in sé, potrebbe non essere un grosso problema, qualora i dati fossero gestiti in modo appropriato. Il punto è che ciò acccade raramente.

Fondamentalmente, il Guardian spera che questi servizi conserveranno i dati senza condividerli con altri, sui quali il Guardian non avrebbe alcun controllo.

Ed è proprio adesso che la situazione diventa realmente pessima, perché se si consente ai 12 tracker di operare, si ottiene questo:

Ora, il numero totale di tracker è improvvisamente passato a 58. Come è successo?

I 12 tracker iniziali hanno caricato a loro volta altri 46 tracker, che monitorano tutto quello che i lettori vedono.

E, molto probabilmente, questi 58 tracker, dietro le quinte, vendono e condividono i dati a un numero ancora maggiore di intermediari di dati.

Visto cosa è accaduto? Questo è esattamente ciò che è successo con Facebook.

Facebook ha consentito alle app di ottenere dati dai profili delle persone, sperando che queste applicazioni non fossero condivise con altri ma, naturalmente, non è successo.

Il Guardian ha permesso a servizi esterni di ottenere dati riguardanti i movimenti dei lettori sul suo sito sperando, come Facebook, che non li condividessero. Cosa che, ovviamente, non è accaduta.

Si potrebbe sostenere che il caso Cambridge Analytica sia più grave perché Facebook ha una mole maggiore di informazioni, più personali, o qualche altra scusa, ma questa è semantica. Il concetto è esattamente lo stesso. E come Facebook, il Guardian non ha alcun controllo o conoscenza di quanti abbiano effettivamente questi dati.

Si potrebbe dire che non è colpa del Guardian, perché è così che funziona Internet, ma questa è esattamente la scusa usata da Facebook.

Questo non è un problema solo di Facebook, è una questione che coinvolge l'intero settore.

Tutti consentono la condivisione di terze parti senza il consenso delle persone. Quindi, adesso, la discussione non è se Facebook debba essere autorizzata a farlo. Si tratta di capire se debba essere consentito a terze parti.

In effetti, l'Unione Europea sta già ponendo fine a tutto questo grazie al regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) che prevede che:

  • I dati possono essere raccolti solo con il consenso dell'utente, il che implica che la condivisione di terze parti non consensuale è un grande no.
  • È possibile raccogliere solo dati pertinenti a quello che le persone stanno facendo.

Il che ci porta al terzo punto.

La tendenza generale sulla privacy

Un aspetto che è molto evidente negli ultimi anni è che il pubblico è stanco di come le cose funzionano online, ma non nel senso in cui ne parlano i media.

Ad esempio, al di fuori del mondo dell'informazione, la maggior parte delle persone non è così preoccupata per il caso Facebook Cambridge Analytica.

Come Esther Kezia Thorpe ha twittato:

“Sapete cosa è veramente strano. Ho parlato di questo su Facebook e nessuno dei miei amici sembra preoccuparsi o essere minimamente preoccupato. Invece su Twitter tutti stanno perdendo completamente la testa.”

Ho visto esattamente la stessa cosa. Non appena si guarda oltre i media su Twitter, le persone sono generalmente indifferenti all'intera vicenda. E il motivo non è da cercare nel disinteresse nei confronti della privacy, questo accade perché la vicenda non rappresenta il problema nel suo complesso.

Le persone capiscono che se anche si bloccasse Cambridge Analytica, non cambierebbe nulla.

Quello a cui stiamo assistendo è una tendenza a lungo termine e costante rispetto alla tutela della privacy.

È iniziata 10 anni fa con gli ad-blocker. All'inizio, le persone utilizzavano gli ad-blocker per sbarazzarsi degli annunci fastidiosi, ma oggi, la maggior parte li usa per evitare il tracciamento.

Se si va in una qualsiasi scuola e si chiede ai ragazzi perché usano un ad-blocker, la maggior parte risponderà che lo fa più per bloccare il monitoraggio che per gli annunci pubblicitari.

Quindi, le persone si preoccupano. Vogliono che la privacy sia garantita sempre.

Un altro aspetto di questa tendenza è la popolarità di strumenti come Snapchat. La caratteristica principale di Snapchat è consentire alle persone di condividere le immagini con i propri amici senza che vengano trasformate in dati.

Quando si condivide una foto su Snapchat, solo gli amici possono vederla, ma poi l'immagine scompare automaticamente poco tempo dopo.

Ciò significa che i post su Snapchat non possono essere utilizzati da app di terze parti, né possono improvvisamente ritrovarsi fuori da Snapchat come parte di un set di dati per la manipolazione politica.

E questo non avviene solo con Snapchat, succede con le storie di Instagram, con Whatsapp, e anche su canali streaming come Twitch.

Molti ragazzi usano il live streaming proprio perché è visibile solo in quel momento e non viene salvato. Ciò significa che puoi condividere qualcosa con il tuo pubblico, senza che in seguito possa essere trasformato in qualcos'altro.

La tendenza alla tutela della privacy, quindi, è incredibilmente forte, per cui è ovvio in che direzione si sta andando. Il tracking di terze parti non ha molto futuro. L'unica domanda che possiamo porci è quanto tempo ci vorrà per cambiare davvero le cose.

Il nocciolo della questione è che questa preoccupazione è molto più grande per gli editori che per Facebook o altre grandi piattaforme (Google, Youtube, Amazon, etc.).

La maggior parte delle entrate pubblicitarie di Facebook proviene da interazioni dirette, da parte di utenti che leggono gli annunci direttamente su Facebook. Si tratta di dati raccolti direttamente da Facebook. Il social network non guadagna quasi nulla con le app di terze parti che hanno accesso ai dati.

La stessa cosa avviene con Google il cui ricavo deriva quasi interamente dalle interazioni che avvengono direttamente sul sito, come quando c'è un annuncio su Google Search. Anche in questo caso si tratta di dati raccolti direttamente.

Per cui quando sarà posto un limite ai dati condivisi di terze parti, non nascerà un problema né per Facebook né per Google. Per gli editori, invece, la situazione sarà completamente diversa, perché molti di loro si affidano quasi interamente a terze parti per incrementare le entrate pubblicitarie.

Quindi, tre sono le cose che devono cambiare:

Innanzitutto, gli editori devono ripensare completamente al modello di annuncio pubblicitario su Internet e spostarlo su un modello di dati raccolti direttamente invece che sul modello di terze parti previsto adesso.

Non entrerò nei dettagli su come ciò possa essere fatto (magari sarà oggetto di un altro post), ma abbiamo bisogno di un cambiamento nel settore prima che il pubblico lo faccia per noi.

In secondo luogo, gli editori devono cambiare il modo con cui raccontano queste storie, perché, attualmente, l'attenzione riservata a Facebook non è in sintonia con il problema reale.

Non sto dicendo che Facebook debba essere autorizzato a fare tutto ciò che vuole, ma non bisogna lasciare che l'antipatia verso Facebook e il modo in cui sta minacciando il settore dei media distragga dai veri problemi.

Ci sono molte cose di cui c'è bisogno di discutere e che i media devono raccontare, ma la maggior parte di esse va ben oltre Facebook.

E più precisamente, non è compito di Facebook definire il futuro della società. Come ha detto Mark Zuckerberg:

“Quello che mi piacerebbe davvero fare è trovare un modo per far sì che la nostra policy sia impostata in modo tale che rifletta i valori della comunità, per cui non devo essere io a prendere quelle decisioni. Giusto? Mi sento fondamentalmente a disagio seduto qui, in un ufficio, in California, prendendo decisioni sulla policy dei contenuti per le persone in tutto il mondo. Quindi, ci saranno cose che non permetteremo mai, come il reclutamento di terroristi e... Facciamo, credo, rispetto alle diverse questioni che emergono, un lavoro relativamente molto buono per assicurarci che i contenuti del terrorismo siano estromessi dalla piattaforma. Ma dov'è il confine dell'incitamento all'odio? Voglio dire, chi ha scelto che sia io la persona [a decidere questo].”

Mark ha proprio ragione. Ovviamente Facebook e Twitter devono fare molto di più per bloccare la proliferazione dell'incitamento all'odio e altre cose negative sulle loro piattaforme, ma non dovrebbero essere loro a definirle.

Questa idea che i politici (e i media) stanno fondamentalmente esternalizzando la regolamentazione dell'incitamento all'odio affidandolo alle piattaforme private è assolutamente folle. Stessa cosa con le notizie false. Perché dovrebbe spettare a Facebook definire quelle che sono e che non sono notizie false? Perché le chiamiamo ancora "fake news"?

Non dovremmo invece parlare di frode? Perché c'è davvero una grande differenza tra qualcuno che pubblica un'opinione (che può essere accurata o meno) e qualcuno che deliberatamente trae in inganno le persone a scopo di lucro (come Cambridge Analytica).

Perché chiediamo che Facebook definisca cosa sia o meno una frode? È follia.

Quindi, cambiamo la narrativa e combattiamo il vero problema.

In terzo luogo, l'industria tecnologica ha bisogno di un cambiamento.

Christina Farr, reporter di CNBC.com che si occupa di salute e tecnologica, ha twittato:

“Se i consumatori temono che le aziende tecnologiche non proteggono i loro dati, ciò impedirà loro di ricorrere all'assistenza sanitaria? Assistenza sanitaria/sicurezza/privacy/protezione sono fondamentali.”

Ha centrato perfettamente il punto. Si riferisce specificamente ad aziende tecnologiche nel settore sanitario, dove la privacy e la protezione dei dati sono fondamentali, ma è la stessa cosa in qualsiasi altro ambito.

Come possiamo fidarci di un settore che ha una cultura che consente di usare i dati personali delle persone, senza consenso, come merce?

Intendiamoci, il problema non è che le aziende posseggano dati. Ad esempio, è estremamente utile che Domino's Pizza conosca la nostra pizza preferita, perché ciò significa che si può utilizzare il loro plug-in Amazon Alexa per rendere l'"ordine facile".

Diventa un problema se le aziende tecnologiche iniziano a condividere questi dati con persone al di fuori delle nostre interazioni dirette. E come Christina osserva correttamente, le aziende tecnologiche devono ripensare a tutto questo.

I dati non sono più il "selvaggio west di Internet".

Immagine in anteprima via pixabay.com

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