Lezioni di storia Podcast Post

Quando le democrazie mondiali respinsero gli ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste

27 Gennaio 2022 13 min lettura

author:

Quando le democrazie mondiali respinsero gli ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste

Iscriviti alla nostra Newsletter

12 min lettura

Pubblichiamo un’anteprima del manuale per il triennio della scuola secondaria di secondo grado, di prossima uscita con Editori Laterza (3 voll.), intitolato Trame del tempo e firmato da Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto. Questo è un estratto del quinto capitolo della terza unità (La morsa totalitaria) del terzo volume, il cui autore è Carlo Greppi: Trame del tempo. Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.

Un “problema di scottante attualità”: l’emigrazione ebraica nel dibattito internazionale

32 nazioni a Evian (via USHMM)
(immagine via USHMM)

Trentadue nazioni a Evian

Sulle rive francesi del lago di Ginevra c’è un piccolo paese turistico: Evian-les-Bains. È lì, all’hotel Royal, che nel luglio del 1938 arrivano i rappresentanti di 32 paesi del mondo: Argentina, Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Danimarca, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Honduras, Irlanda, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Regno Unito, Repubblica Dominicana, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Uruguay e Venezuela. Sono a Evian per una conferenza dal nome altisonante di “Comitato intergovernativo per i rifugiati dalla Germania (compresa l’Austria)”. C’è la stampa, ci sono osservatori di altri paesi e ci sono oltre cento organizzazioni presenti: l’evento potrebbe essere epocale. E lo sarà, perché in molti si chiederanno se sarebbe potuta andare diversamente.

La Germania nazista non è rappresentata in via ufficiale, ma ha mandato anche lei i suoi osservatori. Non è facile fare la storia di una conferenza in cui molto di quello che è accaduto non lo sapremo mai: gli eventi del passato lasciano molte tracce ma tante altre, come le chiacchiere informali che i rappresentanti devono avere scambiato in riva al lago – in queste occasioni spesso più decisive di quanto non si sia portati a pensare – si sono perse. Uno storico australiano, Paul R. Bartrop, ha però studiato a lungo gli atti della Conferenza di Evian, e alcuni elementi li conosciamo oramai con certezza. E con la stessa certezza sappiamo come è andata a finire.

La conferenza di Evian

La conferenza – ricostruisce Bartrop – ha tra gli obiettivi espliciti quelli di facilitare l’insediamento di «rifugiati politici» dalla Germania e dall’Austria, di valutare i casi più urgenti e di immaginare un sistema internazionale di rilascio di documenti per i rifugiati. Poco più di tre mesi prima però, dopo l’Anschluss e il conseguente aumento improvviso di perseguitati, il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt ha mandato gli inviti sottolineando che non ci si aspettava che nessun paese accogliesse più immigrati di quanti prevedesse la legislazione esistente. Un proposito contraddittorio se si pensa che il numero di richiedenti asilo – si direbbe oggi – era molto aumentato rispetto al passato, e che dunque le norme preesistenti all’esodo non potevano fargli fronte. Inoltre nei documenti preparatori prima, e poi nel corso della conferenza, si fa di tutto per evitare di usare la parola «ebrei». Perché? Ciascun paese deve fare i conti con i propri nazionalisti e i propri antisemiti, e si preferisce di gran lunga parlare, più in generale, di «rifugiati politici».

Per l’opinione pubblica mondiale, però, è tutto chiaro: ci si trova di fronte a un disastro umanitario con delle vittime ben precise. E per gli ebrei è sempre più difficile migrare, come scrivono diverse organizzazioni ebraiche in occasione della conferenza, sottolineando che la vita nella “Grande Germania” – nel Terzo Reich – è diventata insostenibile.

Senza la certezza da parte dei governi rappresentati alla Conferenza di garantire alcune misure di cooperazione dalla Germania, non sembra possibile dare attuazione a un programma di emigrazione pianificato e ordinato. Appare chiaramente indispensabile che gli emigranti in possesso di propri mezzi siano messi in condizione di trasferire le loro proprietà, e nel frattempo, abbiano la possibilità di provvedere alla propria sussistenza. Qualora si manifestino condizioni di vita disagevoli e scoraggianti, come appare oggi, il problema diventa insolubile.

 

- Relazione sull’emigrazione ebraica presentata alla conferenza di Evian, 1938 [documento]

L’esito della Conferenza: un nulla di fatto

La conferenza, iniziata il 6 luglio, si conclude così nove giorni più tardi – dopo tante, tantissime parole – con un nulla di fatto. L'esito è sintetizzato da un articolo apparso all'epoca sulla rivista britannica “New Statesman”: «Tutti gli Stati presenti manifestano grande empatia per le vittime della persecuzione, ma nessuno di loro può o vuole aprire le sue porte a un flusso di rifugiati. Ciascun delegato ha spiegato le proprie difficoltà, e ha porto le sue scuse».

È una vittoria del nazismo. A settembre di quello stesso 1938, Hitler dice trionfante che anche nei paesi democratici «non c'è spazio per gli ebrei», mentre pochi giorni dopo Mussolini, da Trieste, tuona in pubblico la sua invettiva contro gli ebrei, che sono oramai perseguitati anche dalle leggi razziali italiane: «il problema di scottante attualità è quello razziale. L'ebraismo mondiale è stato un nemico irreconciliabile del fascismo». Il suo discorso viene seguito da un boato di approvazione della folla.

Il 16 ottobre in Germania l'azione legislativa antisemita prosegue, questa volta con il decreto di espulsione degli ebrei di cittadinanza polacca che risiedono sul territorio tedesco: circa 17.000 persone sono costrette, da un giorno all'altro, a lasciare il paese. L'indignazione della stampa internazionale porta i gerarchi nazisti a interrompere l'operazione, ma il flusso in uscita è comunque inarrestabile.

Dalla Polonia alla Svizzera: la tragedia degli esuli ebrei

Emanuel Ringelblum
Emanuel Ringelblum (via Wikimedia)

In pigiama al confine. La cacciata degli ebrei polacchi dalla Germania

Quando la crisi dei rifugiati ebrei investe la Polonia, la città di Zbąszyń, nella parte occidentale del paese, diventa una polveriera. Di questo momento drammatico abbiamo diverse testimonianze, una delle quali particolarmente preziosa perché è di uno storico, Emanuel Ringelblum, ebreo polacco che poi organizzerà una resistenza culturale capillare all'interno del ghetto di Varsavia, istituito dai nazisti nel 1940, documentando le atrocità subite e nascondendo sottoterra la documentazione per i posteri. Ringelblum arriva a Zbąszyń il 20 ottobre del 1938. A portarlo in uno dei centri nevralgici della frontiera tra il territorio polacco e la Germania nazista è la necessità di organizzare l’accoglienza per migliaia di ebrei polacchi che nei giorni precedenti, dopo essere stati espropriati dei loro beni, sono stati letteralmente spinti dai nazisti fino al confine della Polonia tra minacce, urla e spari. Molti di loro sono ancora in pigiama e si aggirano sconvolti. A Zbąszyń regnano il caos e l’incertezza, ma Ringelblum dimostra inaspettate doti di organizzatore, provvedendo alle necessità pratiche dei rifugiati mentre chiede loro di raccogliere documentazione della persecuzione. Lavora tra le 18 e le 20 ore al giorno e, come lui stesso scriverà poco dopo quell’esperienza, ciò a cui assiste gli lascia dei traumi profondi: «Ancora non sono tornato me stesso. Ci vorrà molto tempo prima che io diventi di nuovo una persona normale». Le immagini di quelle ore, effettivamente, sono impressionanti. E generano un effetto a catena.

Tra gli ebrei cacciati a forza verso la Polonia, infatti, c'è la famiglia di un sarto, Sendel Grynszpan. Per informarlo della situazione in cui si trova, Grynszpan spedisce una cartolina a Parigi a suo figlio Herschel il quale, indignato, per vendicarsi sferra un attentato al diplomatico tedesco Ernst vom Rath, all'ambasciata. Il 7 novembre gli spara, e due giorni dopo vom Rath muore. È la scintilla, è il pretesto per una risposta violentissima da parte dei nazisti.

La Notte dei cristalli

Di lì a poco le forze di polizia tedesche ricevono infatti un telegramma che annuncia la violenta persecuzione che sta per scatenarsi contro gli ebrei, e dà loro indicazioni precise sul da farsi:

Berlino, n. 234 404 9.11.2355

A tutte le sedi e le direzioni della polizia di Stato – Ai direttori o loro sostituti.
Questo telegramma dev'essere inoltrato con la massima urgenza.

  1. Entro brevissimo tempo avranno luogo in tutta la Germania azioni contro gli ebrei e in particolare contro le loro sinagoghe. Non devono essere disturbate. Però, d'accordo, con la polizia d'ordine, devono essere impediti i saccheggi e altri eccessi particolari.
  2. Qualora nelle sinagoghe si trovi importante materiale d'archivio, questo deve essere messo al sicuro con misura immediata.
  3. Occorre preparare l'arresto di circa 20.000-30.000 ebrei del Reich. Siano scelti in primo luogo ebrei abbienti. Disposizioni più particolareggiate saranno diramate nel corso di questa notte.
  4. Qualora nelle future azioni vengano trovati ebrei in possesso di armi, devono essere adottate le misure più rigorose […]

- Telegramma che annuncia l’imminente pogrom contro gli ebrei [documento]

Le autorità naziste dirigono e incitano così lo spaventoso pogrom che passerà alla storia come la Notte dei cristalli (Kristallnacht). Se già in precedenza c'erano stati diversi tumulti e violenze “spontanee” contro gli ebrei tedeschi, questo è di una dimensione senza precedenti e coinvolge tutto il territorio del Terzo Reich. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 il violentissimo pogrom, organizzato con cura dai vertici della Germania nazista, scatena la furia antisemita della folla dei dimostranti tedeschi e austriaci che distruggono in diverse città di Germania e Austria case, negozi, uffici, luoghi di culto. L’espressione usata per definirlo deriva proprio dai “vetri rotti” delle vetrine e delle finestre disseminati per le città del Terzo Reich dopo le devastazioni, e questa foto ci dà una idea della portata del disastro: i marciapiedi sono ricoperti di schegge e vetri distrutti con l’ausilio di martelli durante la notte.

Le conseguenze della "Notte dei cristalli" a Berlino, 1938
Dopo la Notte dei Cristalli (via Archivio Laterza)

Le conseguenze della "Notte dei cristalli" a Berlino, 1938

Secondo il Tribunale supremo del partito nazista i morti sono 91, ma in realtà sono diverse centinaia, considerando anche i suicidi. I feriti sono migliaia, e migliaia tra sinagoghe e imprese ebraiche vengono distrutte e saccheggiate, come praticamente tutti i cimiteri. Gli ebrei arrestati senza ragione sono oltre 30.000, e finiscono in campi di concentramento come Dachau, Sachsenhausen e Buchenwald – solo in quest'ultimo lager 227 dei nuovi prigionieri moriranno nel primo mese e mezzo.

La paura della morte e il senso di isolamento totale diventano un'esperienza comune a tutti i perseguitati. Una donna sopravvissuta alla Kristallnacht la ricorderà così: «Mi ricordo mia madre in piedi, pallida, e piangeva. Cos'era successo? Ricordo che lei chiamava gli amici non ebrei. Aveva più amici non ebrei che ebrei. Nessuna risposta. Nessuna».

Da questo momento in poi, gli ebrei iniziano a essere internati massicciamente nei campi di concentramento del Terzo Reich solo ed esclusivamente in quanto ebrei, non per essersi opposti in qualche forma al regime. L'unica strada che resta, per quelli che la scelgono o che hanno i mezzi per intraprenderla, è ancora la fuga: in pochi mesi, dalla fine del 1938 oltre 100.000 ebrei lasciano la Germania come possono, mettendo in atto strategie di diverso tipo e scegliendo sempre più spesso la via clandestina.

Clandestini

Dopo la violenza della Kristallnacht, aumenta il numero di coloro che richiedono asilo politico ma, dopo le confische, le loro possibilità economiche sono diminuite e – come la conferenza di Evian ha dimostrato – non ci sono paesi disposti ad accogliere incondizionatamente i rifugiati.

Anche in Palestina, dove le autorità britanniche governano in virtù di un mandato della Società delle Nazioni, queste tentano di “progettare” la nascita di un unico Stato indipendente che garantisca gli interessi della comunità araba e di quella ebraica. E, con la pubblicazione del Terzo Libro Bianco, a maggio del 1939, limitano fortemente la vendita di terre nuove agli ebrei e la stessa immigrazione ebraica in quei territori. Chi la vuole tentare è ormai costretto all'Aliyah Bet, l'emigrazione (“aliyah”) clandestina (“bet”).

La fuga in Svizzera e il caso di Paul Grüninger

Nella democratica Svizzera, confinante con l'Austria dalla quale in un anno e mezzo – tra la fine del 1938 e il 1940 – emigreranno quasi 130.000 ebrei, non avendo modo di distinguerli dagli altri profughi le autorità svizzere prendono contatti con il ministero degli Esteri tedesco, giungendo all'accordo di far stampare una “J” (lo Judenstempel, il ‘timbro ebraico’) sui passaporti rilasciati agli ebrei. La Svizzera persegue così una politica oscillante, ambivalente e complessa nella quale coesistono accoglienza e respingimento: alla fine della persecuzione, nel 1945, la Svizzera avrà respinto nelle mani dei loro persecutori almeno tanti profughi quanti quelli che ne avrà accolti.

Paul Grüninger
Paul Grüninger (via Wikimedia)

Ci sono però ovunque in Europa, e anche in Svizzera, persone che, al contrario, si danno da fare di nascosto per aiutare a tutti i costi i rifugiati ebrei. Come Paul Grüninger: comanda la polizia del cantone svizzero San Gallo, che confina con l'Austria, e il 17 agosto del 1938 partecipa alla riunione in cui viene proposto di chiudere la frontiera perché i rifugiati stanno arrivando dall'Austria e arriveranno anche dall'Italia, dove è stato appena pubblicato il “Manifesto della razza”. «Non possiamo chiudere le frontiere», protesta Grüninger, «sono delle scene che spezzano il cuore». Ma il 19 agosto 1938, due giorni dopo, il Consiglio federale svizzero ratifica la chiusura delle frontiere agli ebrei. Al confine iniziano i respingimenti nelle mani dei persecutori. E Grüninger decide di disobbedire.

Comincia retrodatando le domande di ingresso in Svizzera, perché i rifugiati possano mostrare di essere entrati quando era ancora legale farlo. Prosegue in vari altri modi, via via più pericolosi: fa arrivare dei mandati di comparizione alle vittime dei nazisti, pretendendo che si presentino in Svizzera, falsifica documenti, va lui stesso a prendere le persone dall'altra parte della frontiera con la sua auto – l'auto di servizio n. 3. E non passa inosservato. Se ne accorgono in tanti, compresa la stampa. Il mattino del 3 aprile del 1939 scopre di essere stato sospeso dalle sue funzioni. Lui si difende dicendo di aver «agito per dei motivi onorabili. Come funzionario e come uomo». Ma il 12 maggio il Consiglio di Stato del cantone San Gallo trasforma la sua sospensione in licenziamento. Paul perde il posto, subisce un processo, la famiglia deve lasciare la casa in cui vive e sua figlia deve abbandonare la scuola per cercarsi un impiego. Paul diventa un reietto, e la sua memoria sarà a lungo dannata. Solo negli anni Novanta, infine, verrà riabilitato per il suo atto eroico.

Nel 1939, quando Grüninger è senza lavoro, sono ormai 360.000 ebrei circa ad aver lasciato il Reich e ad aver trovato – almeno momentaneamente – rifugio all’estero. Lui da solo ne ha tratti in salvo non meno di 3.000.

La speranza di migrare oltreoceano, per molti, si rivela sempre più un’illusione: le difficoltà economiche che genera la Grande Depressione unite ai molti pregiudizi nei confronti degli immigrati che permeano la società statunitense, rendono particolarmente impervia la strada della fuga al di là dell’Atlantico. L’amministrazione del presidente Roosevelt e il Congresso degli USA non fanno nulla per modificare il complesso iter burocratico per l’ottenimento dei visti, optando anzi per misure più restrittive. La vicenda della “St. Louis”, come quella della conferenza di Evian, mostra ancora una volta al mondo che gli ebrei europei si trovano, per la maggior parte, in una trappola.

L'odissea della “St. Louis”: anche le Americhe rifiutano gli ebrei

Una nave sull'atlantico
(immagine via USHMM)

Una nave sull’Atlantico: il mondo osserva

C'è una nave al largo dell'America centrale. Nella primavera del 1939 tutti i giornali ne parlano. È il transatlantico “St. Louis” della Compagnia Hapag (Hamburg-Amerikanische Packetfahrt-Actien-Gesellschaft), è lungo 175 metri e sta fermo da sei giorni davanti alla costa di Cuba. È partito il 13 maggio dalla Germania con a bordo quasi mille ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste. Le autorità cubane, però, nonostante ogni passeggero possieda un permesso di immigrazione rilasciato da un ente dell’immigrazione cubana per il quale ha pagato, non hanno nessuna intenzione di farli sbarcare tutti, e permettono a meno di trenta di loro di scendere dalla nave. Il viaggio delle circa novecento persone che restano a bordo si trasforma così in un incubo seguito con grande preoccupazione dalla stampa internazionale e da un vasto pubblico.

Neanche gli Stati Uniti vogliono i rifugiati: l'ipotesi di farli sbarcare non è mai neppure stata presa in considerazione, come ha poi dimostrato una storica francese, Diane Afoumado. Dopo settimane in alto mare, il 17 giugno del 1939 la nave è costretta a riparare nuovamente in Europa, e i rifugiati ebrei vengono accolti in extremis da Gran Bretagna, Francia, Belgio e Olanda. Oltre 250 di loro troveranno la morte nei campi di sterminio nazisti.

A differenza dei governi di oltreoceano, il capitano tedesco della nave, Gustav Schroeder, ha fatto di tutto per salvarli, in un costante dialogo con le autorità di mezzo mondo libero che culmina in un disperato tentativo di sbarco clandestino in Florida, fermato dalla guardia costiera statunitense.

Una tragedia planetaria

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Immaginiamo la disperazione delle persone a bordo del transatlantico, e poi proviamo a immaginare le centinaia di migliaia di famiglie che, come loro, negli anni Trenta hanno cercato di scappare dalle persecuzioni naziste. E che lo hanno fatto senza sapere se e dove avrebbero trovato rifugio, dando il via a una tragica crisi umanitaria che, quando la “St. Louis” è costretta a tornare in Europa, oramai dura da più di cinque anni. E che si avvia a una tragica svolta: la via dell'emigrazione sarà sempre meno incentivata anche dalle autorità naziste e, come ha rilevato lo storico tedesco Peter Longerich, è arrivato il tempo di trattare gli ebrei rimasti «come pericolosi avversari». Lo scriveva bene Milena Jesenská, pochi giorni dopo la conferenza di Evian: «Proprio perché la diaspora ebraica è planetaria, il destino degli ebrei ha a che fare e dipende dal passo che il mondo farà in direzione della barbarie o verso la libertà».

Ma alla fine degli anni Trenta tutti i paesi del mondo si limitano a regolamentare i flussi migratori esistenti, e nessuno si pone concretamente il problema di mettere in atto un'operazione sistematica di salvataggio. Il mondo, in poche parole, è diviso in luoghi dove gli ebrei d'Europa non possono vivere e in luoghi in cui non possono entrare. E dall’inizio negli anni Quaranta, quando l’Europa finirà via via sotto il tallone nazista, si passerà allo sterminio.

Immagine anteprima via USHMM

Segnala un errore