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Perché le donne che scrivono non sono prese sul serio

29 Dicembre 2023 12 min lettura

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Perché le donne che scrivono non sono prese sul serio

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Bologna, 2015. Il direttore della libreria Feltrinelli, una delle librerie più importanti e frequentate d’Italia, viene intervistato sulle sue preferenze di lettura e dà una lista di autori secondo lui imprescindibili. Fra i quali non c’è nemmeno una donna.

La strana assenza viene notata dalla intervistatrice, ma la risposta dell’intervistato è lapidaria: “Lo confesso, non ne leggo molte. E non volevo barare, né fare il politicamente corretto”.

Repubblica riprende la dichiarazione, che suscita una vagonata di polemiche, non solo da parte di scrittrici e intellettuali femministe, ma anche di molti scrittori e intellettuali uomini. A colpire non è tanto che il direttore di una libreria (non quindi una persona qualsiasi) non legga libri scritti da donne, ma il fatto che la cosa non susciti nemmeno in lui nessun interrogativo, anzi venga ritenuta come una cosa assolutamente normale.

In pratica una persona di cultura può essere convinto che le donne in millenni di storia della letteratura non hanno prodotto un solo libro degno di essere inserito in una lista di letture imprescindibili.

Detto in soldoni, noi donne possiamo scrivere, sì, ma alla fine siamo solo capaci di produrre opere secondarie e intellettualmente rimaniamo figure di contorno.

Chi scrive e chi legge

Da dove nasce il pregiudizio contro le donne che scrivono? Certamente non dal sesso dei lettori. Spostiamoci al 2022. In Italia, si sa, si legge poco e i lettori forti sono persino in calo negli ultimi anni. Però il nucleo forte di lettori ha un sesso e anche una età ben precisi: sono giovani e sono in maggioranza donne.

L’ISTAT infatti certifica che:

Nel 2022, rispetto all’anno precedente, diminuisce la quota di lettori di libri, pari al 39,3% della popolazione di 6 anni e più (40,8% nel 2021). Tra questi, il 44,4% legge fino a 3 libri l'anno, mentre i “lettori forti” (12 o più libri letti in un anno) sono il 16,3%. La lettura di libri è soprattutto prerogativa dei giovani nella fascia d’età tra gli 11 e 24 anni e delle donne.

Le donne rappresentano il 60% del pubblico dei lettori contro il 52% degli uomini. E rappresentano anche lo zoccolo duro dei lettori (anzi a questo punto lettrici) forti, con il 10% contro il 7% degli uomini.

A questo punto, visti i dati ci aspetteremmo un’editoria in mano alle donne in ogni settore della filiera, e che quindi la maggior parte dei libri pubblicati fosse scritto da loro, e che i ruoli dirigenziali all’interno delle case editrici fossero occupati da donne.

E invece no. Nel 2017 solo il 38,3% dei libri pubblicati è stato scritto da donne. Insomma i maschi leggono poco, ma pubblicano molto di più.

Le donne scrivono meno? No, anzi. Ma vengono pubblicate molto meno, anche se il trend sta cambiando: negli ultimi anni molti libri di successo sono di autrici, come nei casi di Elena Ferrante e Stefania Auci. Questo ha permesso anche a molte altre autrici di essere finalmente prese in considerazione quando inviano i loro libri alle case editrici. Dove però ancora oggi la maggioranza degli editor e dei responsabili di collane sono uomini.

Per lunghi decenni del resto, le donne sono state molto marginali anche come vendite. Gli autori di best seller erano quasi esclusivamente uomini. Alle scrittrici era concesso arrivare al grande pubblico solo se pubblicavano romanzi d’amore: Carolina Invernizio e Liala erano autrici di best seller nella loro epoca, ma erano comunque colpite dallo stigma della critica letteraria. Erano donne, potevano scrivere solo libri destinati ad altre donne. Gli scrittori seri erano uomini, sempre uomini quelli che potevano scrivere libri di generi più interessanti, come l’avventura. Carolina Invernizio non poteva essere per esempio inserita nelle letture serie scolastiche, Salgari sì. Eppure non è che ci sia una clamorosa diversità di stile o valore letterario fra i due. Ma Invernizio era una donna.

Il ghetto della “letteratura femminile”

Certo, c’erano donne, soprattutto all’estero, cui veniva riconosciuta un notevole talento letterario. Jane Austen, Emily Brontë e l’italiana Matilde Serao sono entrate a pieno titolo nelle letterature e nel canone scolastico. Ma in una scuola in mano agli uomini, le donne erano accettate purché relegate sempre in secondo piano. Il loro posto era perciò fra gli autori “minori”, cioè fra quelli che potevano essere tranquillamente saltati dagli insegnanti se mancava il tempo per spiegarli. E il tempo, si sa, a scuola non c’è mai.

Lo stigma e il pregiudizio sulle letteratura scritta da donne era pervasivo, anche perché le autrici sono spesso state rinchiuse nel ghetto della “letteratura femminile” (che non vuol dire un bel nulla). Ovvero in una specie di limbo in cui erano infilate in quanto donne, a prescindere da cosa avessero scritto.

È vero che spesso le donne avevano scritto libri in cui si parlava di amore, o di famiglia o di sentimenti, ma del resto pochi erano i campi che una donna poteva sperimentare, visto che tecnicamente fra Settecento e Ottocento era quasi sempre chiusa in casa a occuparsi della famiglia: la partecipazione femminile a circoli letterari e culturali, e alla vita pubblica in generale, era molto limitata. Autrici come Jane Austen erano eccezioni rispetto a un panorama in cui gli uomini gestivano la società, e le donne al massimo cucivano e servivano il té alle amiche, visto che persino uscire da sole o partecipare senza un compagno o una chaperon alle occasioni mondane era impossibile. Così una situazione dovuta alla contingenza storica (l’impossibilità di avere una vita libera fuori di casa) è stata scambiata per una vocazione specifica.

Quindi la letteratura femminile era quella in cui autrici donne parlavano di sentimenti e vicende private. Tutti gli altri argomenti erano preclusi alle donne non a causa dell'impostazione maschilista e patriarcale della società in cui vivevano, ma perché occuparsi di questo era la loro “natura”.

Una letteratura che trattava simili temi, ovviamente, si pensava che potesse interessare a chi? Alle sole donne, ovviamente. E così la letteratura femminile è diventata una specie di ghetto: autrici donne scrivevano per lettrici donne in una sorta di mondo parallelo e separato in cui gli uomini non entravano mai, o molto raramente.

Questo spiega anche lo strano paradosso anche odierno dei lettori. Gli uomini che leggono sono cresciuti in una società in cui per un uomo non era necessario leggere delle scrittrici. Le donne, invece, anche per mancanza di un sufficiente numero di autrici da leggere, sono sempre state abituate a leggere degli scrittori.

Questo continua ad essere vero anche oggi, come il caso del direttore della Feltrinelli dimostra. Per lui non leggere scrittrici era la normalità, e non sentiva il bisogno di colmare la lacuna. Leggere scrittori gli permetteva di avere una visione già completa del mondo perché gli scrittori sono autori di alta letteratura o di generi di intrattenimento di buon livello; le scrittrici invece sono “minori” che si occupano per giunta nei loro libri solo di sentimenti e storie familiari. Insomma, nel migliore dei casi, una noia che si legge per obbligo, o appunto, come diceva lui nell’intervista, per assecondare il “politicamente corretto”.

Perché le donne che scrivono non sono prese sul serio?

Verrebbe da rispondere: perché nella nostra società le donne qualsiasi cosa facciano sono prese meno sul serio. Ma per quanto riguarda il mondo della letteratura i pregiudizi sono antichissimi e radicatissimi. E sì che tecnicamente la letteratura è iniziata con una donna.

Il primo autore noto per nome e con una identità storicamente ricostruibile non è infatti un uomo, ma una donna. Si tratta di Enheduanna, sacerdotessa vissuta a Uruk nel XXIV secolo avanti Cristo, forse figlia del re Sargon di Accad, che scrisse una serie di inni alla divinità (in particolare alla dea Inanna, protettrice di Uruk).

Purtroppo nei secoli successivi la presenza femminile si è assottigliata, anche perché ben poche erano le donne che avevano accesso all’educazione e che potevano imparare a scrivere; inoltre non essendo concesso alle donne avere una vita pubblica, leggere le proprie opere pubblicamente o rappresentarle era oltremodo difficile.

Tuttavia, persino in una cultura fortemente maschilista come quella greca abbiamo esempi di poetesse come Saffo, considerate capisaldi della letteratura. Anche a Roma abbiamo notizie di circoli di poetesse e scrittrici attive e apprezzate in diverse epoche. Nel Medioevo, nel Rinascimento abbiamo centinaia di autrici attive, per altro stimate e conosciute dai contemporanei, le cui opere però oggi sono ignote ai più: non sono presenti nelle antologie, vengono studiate solo da pochi cultori e sono destinate ad essere, nel migliore dei casi, materiale per specialisti.

Per quanto riguarda la letteratura di genere, l’apporto delle scrittrici continua a essere sottovalutato anche nel presente. Pensiamo al caso di Mary Shelley, che ha praticamente rivoluzionato il genere gotico aprendo la strada all’horror e alla sci-fi con il suo Frankenstein nel 1812. Eppure ancora oggi in molte letterature il suo nome viene citato a stento, mentre la grande innovazione del gotico e la sua trasformazione in horror moderno viene attribuita a Edgar Allan Poe (grande autore, ma soprattutto uomo) e ad altri scrittori, sempre e solo maschi.

Sei donna? Scrivi romanzi rosa

Perché le storie della letteratura ma persino i libri scolastici e le antologie per elementari e medie sono state fino a qualche anno fa (ora per fortuna meno) praticamente un club maschile? Perché non solo le donne per motivi di discriminazione potevano scrivere meno in passato, ma anche le loro opere raramente venivano tramandate, pubblicate e prese in considerazione dalla critica e dal pubblico, per via degli atavici pregiudizi visti finora.

Anche oggi, nella nostra società così aperta e persino troppo “femminista” secondo alcuni, le donne quando scrivono devono superare pregiudizi incredibili. Per esempio la strana idea che le donne scrivano solo narrativa rosa, o al massimo “intimista”.

Quando JK Rowling presentò agli editori il primo volume della saga di Harry Potter non solo faticò molto a trovare qualcuno che la volesse pubblicare, ma anche dopo averlo trovato dovette accettare che il libro uscisse con le sole iniziali JK e non con il nome completo ovvero Joanne Kathleen. Il motivo? L’editore temeva che un libro fantasy con protagonista maschile ma scritto da una donna sarebbe stato considerato poco attraente per il pubblico dei lettori: il fantasy era considerato un genere scritto e letto da maschi.

Ancora oggi le scrittrici che pubblicano narrativa non di genere, ma che contiene nella trama una storia d’amore o che trattano di sentimenti, si vedono spesso e volentieri mettere d’ufficio nella categoria del “rosa”. La stessa cosa non avviene invece per gli uomini: Fabio Volo, Federico Moccia, Massimo Gramellini possono scrivere libri con storie d’amore ma nessuno pensa di inserirli nella letteratura rosa. Perché? La risposta è ovvia: sono uomini.

I saggi: un territorio maschile

La situazione peggiora con la saggistica. ll saggista, che sia o meno un accademico, è ancora e sempre nell’immaginario collettivo un uomo. Una donna che scriva saggistica è percepita ancora oggi come una anomalia. Come anomalo è il fatto che venga invitata a tavole rotonde e convegni in qualità di esperta.

Da qualche anno il tema della parità di genere nei convegni e festival è diventato di stringente attualità. Le donne hanno cominciato a chiedere che nei dibattiti pubblici vengano invitate anche conferenziere. Fino a qualche anno fa, infatti, la situazione complessiva era desolante.  

Nel 2020 fece discutere il caso del Festival della Bellezza a Verona, che non presentava nemmeno una invitata a parlare di un tema, la bellezza (anche femminile) su cui pare davvero impossibile credere che mancassero donne competenti.

Eppure non ce n’erano: i 24 ospiti erano tutti uomini. La cosa peggiore è che nessuno dei personaggi invitati, fra cui spiccavano Massimo Cacciari, Michele Serra, Vittorio Sgarbi, Morgan e Alessandro Baricco ha trovato curiosa la cosa. E, una volta scoppiata la polemica, nessuno ha pensato di ritirare la sua adesione o chiedere l’inserimento di donne nel programma.

La replica degli organizzatori degli eventi in questi casi è quasi sempre che ci sono difficoltà a reperire donne che accettino di partecipare ai panel. Cosa che peraltro è difficile se non viene loro nemmeno chiesto. Ma in ogni caso, anche questa ‘difficoltà” è oggettiva, ma frutto di un’impostazione a monte: gli organizzatori vogliono personaggi famosi nel loro ambito da invitare agli incontri, che sono spesso personaggi invitati in tv come esperti. Ma siccome in televisione e nei giornali la maggioranza degli esperti è sempre e comunque composta da uomini, la percezione di organizzatori e pubblico è che non esistano donne altrettanto qualificate che possano essere invitate. È il classico caso di cane che si mangia la coda.

“Invece delle quote rosa ci vuole meritocrazia”

In genere quando le donne strepitano per avere accesso a determinati ambiti o ottenere il riconoscimento dovuto per le loro comprovate competenze, l’obiezione è la seguente: le quote rosa obbligherebbero a invitare una donna, togliendo così il posto a un uomo ugualmente o più qualificato.

Chi fa questa obiezione non si rende però conto che da millenni alle donne qualificate i posti sono stati e sono tuttora spesso tolti da uomini che hanno rispetto a loro la sola caratteristica di essere per l’appunto uomini.

Se una donna non ha nemmeno mai la possibilità di dimostrare quanto vale perché il suo cammino è bloccato per questioni di genere, la meritocrazia non esiste proprio. Quello che si chiede è in realtà di continuare a preservare un privilegio.

Quello che è accaduto per secoli nel mondo letterario è questo: le donne non hanno avuto la possibilità di scrivere, quando l’hanno avuta sono state comunque discriminate perché sono state considerate “minori” solo per il fatto di essere donne, o sono state relegate in una sorta di “riserva indiana” fra di loro.

Quando chiedono di uscire da questo recinto in cui sono state confinate, ecco che vengono accusate di essere aggressive, di voler avere facilitazioni e privilegi. Le donne che si espongono su queste tematiche molto spesso anche nel dibattito pubblico vengono attaccate duramente e si tenta in ogni modo di delegittimare le loro battaglie e ridurre a barzelletta le loro sacrosante rivendicazioni. Spesso gli attacchi alle donne sono frutto di gruppi organizzati, che si scambiano informazioni tramite gruppi telegram e organizzano vere e proprie shitstorm contro esponenti femministe o insultano e denigrano le donne.

Il caso di Michela Murgia è un ottimo esempio: la scrittrice che portava avanti rivendicazioni femministe è stata oggetto di vere e proprie campagne di odio, con haters scatenati che la prendevano di mira qualsiasi cosa facesse o dicesse, a prescindere. Quello che dava fastidio non era solo quello che diceva, ma che a dirlo fosse una donna. Anche la politica ha avuto un peso in ciò.

Le donne infatti anche quando rivendicano i propri diritti devono sottostare ad un ben preciso codice di comportamento. Devono essere educate, remissive, materne e comprensive, persino con chi le insulta ferocemente, sennò non sono “femminili”. E, soprattutto, non devono mai osare rispondere in maniera da far sentire il maschio non all’altezza. È il vecchio adagio delle bisnonne che dicevano alle nipoti di non mostrarsi troppo intelligenti, altrimenti nessun uomo le avrebbe volute sposare.

Più donne, ovunque

Oggi qualcosa sta cambiando? Lentamente, ma sì. Le scrittrici oggi riescono ad avere un ottimo successo presso il pubblico. Come sempre avviene, avendo più soldi hanno anche più potere, sia a livello contrattuale che a livello di presenza mediatica.

I testi per la scuola, le nuove letterature sono molto più sensibili alla parità di genere. Si tenta, dove possibile, di bilanciare il numero di autori e di autrici, di proporre ai ragazzi letture scritte da donne e un punto di vista meno sessista e patriarcale. Si tenta anche di scrivere storie della letteratura femminile in cui si parla di tutte le autrici donne presenti, così come si cerca di inserire filosofe, scienziate e artiste nei libri delle relative discipline.

Non basta però inserire qualche autrice nelle letteratura per risolvere il problema. Se si continua a chiuderle in una specie di “recinto” o a presentare le storie delle donne artiste in box separati o come "approfondimenti" la percezione nei lettori e negli alunni sarà sempre che siano un fenomeno marginale rispetto alla letteratura “vera” e importante. Quella fatta dagli uomini.

Anche i libri di storia vanno ripensati e aggiornati per togliere le interpretazioni sessiste che si è dato delle epoche passate. Grazie ai nuovi dati archeologici e documentali possiamo finalmente integrare e alle volte rovesciare le idee su come venissero suddivisi i ruoli nelle società del passato. E questo finisce col dimostrare che le donne hanno avuto ruoli importanti nella società, spesso a dispetto dei mille paletti che venivano loro posti. Non solo quindi figure di contorno, ma protagoniste. Anche su questo vi sono fortissime resistenze.

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Per quanto riguarda invece il grande pubblico, la battaglia è lunga e dura. In Italia l'età media della popolazione è più alta che altrove (48 anni rispetto ai 44 del resto della UE): il pubblico è formato da persone più che adulte, la cui istruzione risalte a periodi in cui la mentalità era molto più retrograda. Ogni proposta di revisione viene sentita più facilmente come un “attentato” alle proprie radici culturali. Spesso questo atteggiamento non è nemmeno frutto di vera cattiveria o di consapevole sessismo: è solo che non si riesce a rinunciare alla visione del mondo appresa da giovani, considerata come parte fondante dell’identità personale.

Però a un certo punto bisogna anche rendersi conto che i ricordi sono una cosa, la realtà un’altra. Le donne, nella letteratura così come nella società, hanno diritto di essere considerate finalmente alla pari e di vedere riconosciuti i loro meriti. È un cammino ancora lungo e molto difficile, ma bisogna avere il coraggio di affrontare il problema e prendere le decisioni necessarie a sanarlo: non è una “moda”, non è una “mania” o un vezzo. È, molto semplicemente, un atto di giustizia.

Immagine in anteprima via Società Italiana delle Letterate

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