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In Italia le riserve d’acqua scarseggiano, i principali fiumi e laghi sono a secco, il settore agricolo è in ginocchio e la rete idrica è un colabrodo

15 Luglio 2022 8 min lettura

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In Italia le riserve d’acqua scarseggiano, i principali fiumi e laghi sono a secco, il settore agricolo è in ginocchio e la rete idrica è un colabrodo

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L’Italia sta vivendo la peggiore crisi idrica dell’ultimo secolo: le riserve d’acqua scarseggiano, i principali fiumi e laghi sono a secco, il settore agricolo è in ginocchio. In cinque regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia) è stato attivato lo stato d'emergenza per far fronte alla siccità, mentre l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) mostra che la disponibilità di acqua si è ridotta del 19% nel trentennio che va dal 1991 al 2020, rispetto al periodo dal 1921 al 1950. E in futuro lo scenario sarà anche peggiore.

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Nonostante questo, in Italia ancora va perduto oltre un terzo dell’acqua immessa nella rete di distribuzione: secondo le ultime statistiche ISTAT (relative al 2018) il tasso di dispersione nel nostro paese è del 42%. Questo significa che 3,4 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno vanno dispersi: acqua con cui si potrebbero soddisfare le esigenze di circa 44 milioni di persone, considerando un fabbisogno medio di 215 litri al giorno per abitante. 

Osservando i capoluoghi di provincia e le città metropolitane, che in media hanno performance migliori rispetto al resto del territorio, risulta che in più di un comune su tre si registrano perdite totali superiori al 45% (dati relativi al 2020): la città peggiore è Chieti, con perdite che arrivano al 71,7%, seguita da Latina (70,1%), Belluno (68,1%) e Siracusa (67,6%). 

Una rete idrica colabrodo

A cosa sono dovute queste grandi perdite d’acqua? Il problema principale è l’infrastruttura idrica obsoleta e gli scarsi interventi di manutenzione: quando si rompe una tubatura importante si creano pozzanghere nelle strade o temporanei allagamenti, ma nella gran parte dei casi si tratta di piccole perdite che vengono riassorbite dal terreno e che non vengono individuate. E poi esistono le cosiddette “perdite amministrative”, volumi d’acqua che il gestore non contabilizza e su cui non ha un guadagno economico, che non vengono misurati o perché il contatore non funziona, o per consumi non autorizzati, come nel caso degli allacci abusivi.

Questo comporta gravi ripercussioni ambientali, economiche ma anche sociali, con un divario nord-sud che resta costante negli anni: il meridione è in media più soggetto a perdite d’acqua, razionamenti, servizi meno efficienti, mancanza di fognature e depurazione. “La nostra analisi conferma una territorializzazione del problema infrastrutturale, qualsiasi sia l’indicatore che si prende in considerazione”, spiega Simona Ramberti, ricercatrice dell’ISTAT. “Alcuni esempio: tutti gli undici capoluoghi di provincia che nel 2020 sono stati colpiti da razionamenti d’acqua si trovano nel mezzogiorno. Dei 40 in cui è assente il servizio pubblico di fognatura, 25 sono in Sicilia. E nel sud c’è una quota inferiore di famiglie che si fida di bere l’acqua del rubinetto, mentre è maggiore la percentuale di famiglie che lamenta irregolarità”.

Per una corretta analisi dei dati sulla dispersione idrica, è necessario comunque fare qualche chiarimento: innanzitutto, nella rete va considerata una perdita fisiologica del 5-10%, propria di ogni infrastruttura. Inoltre, va tenuto presente che, laddove è stato riscontrato un aumento delle perdite, spesso vi è stato anche un aumento e un miglioramento delle misurazioni, che determina un peggioramento degli indicatori: in pratica, più contatori si installano, più emergono i problemi. Questo non è necessariamente un male, anzi: conoscere la situazione del territorio è la condizione necessaria per poi agire verso un efficientamento dell’infrastruttura. “In alcuni Comuni si sta facendo tanto per individuare e intervenire sulle perdite occulte”, racconta Ramberti. “Alcuni si stanno muovendo verso una distrettualizzazione della rete di distribuzione, suddividendola in aree omogenee al fine di migliorarne il monitoraggio e la gestione”.

Una gestione dell’acqua troppo frammentata

A marzo il Ministero delle infrastrutture ha destinato 1,4 miliardi di euro per interventi contro la dispersione idrica, in particolare nelle regioni del sud, ma il problema resta il modo in cui viene gestita l’acqua: in Italia ci sono oltre duemila gestori (alcuni pubblici, alcuni pubblico-privati, pochi solo privati), e non tutti rispettano gli stessi standard di qualità.

Una differenza significativa si riscontra soprattutto tra le gestioni in economia e le gestioni specializzate: nella gestione in economia è l’ente locale che si occupa direttamente del servizio idrico, mentre nella gestione specializzata il servizio è in mano a enti che si occupano esclusivamente dell’acqua. Nel caso in cui ci sia stato l’affidamento per una gestione unificata dei servizi, dal prelievo alla depurazione, si parla di servizio idrico integrato (SII), una modalità promossa dalla legge Galli del 1994.

“I risultati di questa riforma ancora non si vedono su tutto il territorio”, spiega Simona Ramberti. “In alcune zone d’Italia c’è ancora grande frammentazione, in particolare in Calabria, Campania, Molise, province autonome di Trento e Bolzano, Sicilia e Valle d’Aosta. Questo vale non solo per i piccoli comuni: a Catania esistono sette enti gestori che si occupano di distribuzione, a seconda del quartiere. Dove vi è una gestione in economia o dove manca una gestione integrata, spesso vi è un minore monitoraggio della risorsa sul territorio e una minore efficienza: ci sono meno contatori, meno misurazioni, e dunque ci si basa più su stime che su dati reali. Questo porta a non sapere quanta acqua viene presa alla sorgente e quanta viene dispersa, e a non accorgersi dei tratti vulnerabili dell’infrastruttura, per individuare eventuali perdite”.

Oltre che verso una maggiore integrazione, bisogna andare verso un’innovazione e manutenzione continua del processo di monitoraggio, affinché le misurazioni siano sempre più precise. “Per quanto riguarda l’acqua potabile a uso civile ci si sta muovendo in questa direzione”, dice Ramberti. “Ma pensiamo alle acque ad uso agricolo, industriale, o per la produzione di energia: in quel caso, il livello di misurazione è molto più approssimativo. L’acqua è una risorsa preziosa, ancora di più adesso: non possiamo consentire una dispersione così alta”. 

A causa della siccità infatti vi è una competizione sempre più elevata tra gli usi civili, industriali, agricoli, energetici. Chi ha più diritto all’acqua quando scarseggia? Bisogna scontentare i territori o i settori economici? Secondo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC), ancora in corso di approvazione, il governo futuro dell'acqua richiede una gestione pluriennale, coordinata e integrata. Gestione che oggi non esiste: al momento il potere di decidere sull’acqua è frammentato tra le pubbliche amministrazioni e ben cinque ministeri diversi.

L’importanza di trattenere l’acqua (quando c’è)

Al momento in Italia solo l’11% dell’acqua piovana viene trattenuta. Troppo poco. Tra le soluzioni per rispondere alla siccità, allora, è stato proposto di costruire bacini di accumulo d’acqua sulle montagne, nelle aree fluviali o nelle aree umide. “È venuto il momento di ripristinare i laghetti aziendali o interaziendali dove un tempo si invasava l’acqua”, afferma Giancarlo Mantovani, direttore del Consorzio di bonifica del Delta del Po e dell’Adige. “Riutilizziamo quello che i nostri nonni avevano, in modo tale da avere acqua: gli invasi ci permettono di contenere le piene e stoccare l'acqua, e in alcune zone particolarmente di pregio possono anche avere finalità turistiche. Un’altra strada è costruire nuove dighe in montagna o usare le vecchie cave di marmo come bacini di accumulo”. 

Anche l’ANBI (Associazione nazionale bonifiche irrigazioni) propone di puntare su una rete di invasi medio-piccoli, capace di trattenere la pioggia per poi utilizzare l’acqua in base alle necessità: il piano prevede la costruzione di 10mila invasi su tutto il territorio nazionale, per un costo di dieci miliardi di euro. Per il momento, il PNRR ha però stanziato solo 880 milioni di euro per migliorare l’efficienza dei sistemi di irrigazione e costruire serbatoi di contenimento in cui trattenere acqua piovana.

Nel frattempo, la soluzione che si sta sperimentando in alcune zone è di riempire la rete di scolo quando il fiume è in piena, in modo che nei periodi di siccità con delle pompe si possa poi prendere l’acqua e immetterla nei canali irrigui. “C’è però un rischio: se dovesse piovere molto, i canali di scolo si potrebbero allagare”, spiega Mantovani. “Procediamo con grande prudenza, tenendo sotto controllo i livelli dell’acqua in base alle previsioni meteo. Questo ci consente perlomeno di tirare avanti”.

Se il mare risale i fiumi

Nel frattempo, il livello del Po è ai minimi storici, il mare avanza alla foce desertificando i terreni vicini agli argini, penetrando delle falde acquifere e intaccando le riserve di acqua potabile. È fenomeno della cosiddetta “risalita del cuneo salino”. “Il problema non è nuovo: già negli anni Cinquanta si erano verificati i primi episodi, ma ai tempi il mare risaliva solo di qualche chilometro”, racconta Mantovani. “Quest’anno invece il mare ha percorso ben 34 km, facendo sì che ci siano lunghi tratti del fiume da cui non si riesce a prelevare acqua, neanche per uso idropotabile”. 

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Negli anni Ottanta furono realizzate due barriere antisale sulla foce del Po, ma ormai non funzionano più, perché erano state progettate per tutelare un fiume che ai temi si buttava nel mare con una pressione molto maggiore rispetto a oggi. “Ora l’acqua di mare ha molta più forza dell’acqua di monte”, continua Mantovani. “Ecco perché da anni stiamo lavorando a un’idea progettuale per creare una nuova barriera antisale che funzioni anche con portate d’acqua minime”. 

Per realizzarla sarebbero necessari circa 40 milioni di euro: il Consorzio sta cercando finanziamenti, ma per il momento nessuno si è assunto l’onere di realizzare l’opera. “Dobbiamo trovare una soluzione e dobbiamo farlo adesso: non si può continuare a far finta che il problema non esista, e ogni estate ricominciare da capo”, conclude Mantovani. “Il delta del Po è una riserva naturale riconosciuta dall’Unesco, e tutelarla è nell’interesse non solo degli agricoltori della pianura, ma di tutta la comunità”.

Verso un’economia circolare dell’acqua

Il dibattito sulla costruzione di nuovi bacini e di barriere antisale è aperto: secondo il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (CIRF), la costruzione di nuovi invasi non può essere la soluzione alla crisi idrica, perché si tratterebbe di una nuova deroga al deflusso naturale dell’acqua che intaccherebbe la biodiversità. Una risposta unicamente infrastrutturale che rischierebbe di causare un ulteriore aggravio delle prossime crisi idriche, e non avrebbe benefici duraturi. Secondo il CIRF, “la grave crisi idrica in corso va approcciata in modo strutturale, affrontando le cause e non correndo dietro ai sintomi”. 

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Anche Legambiente è contraria a ulteriori artificializzazioni e cementificazioni del terreno, che non permetterebbero all’acqua di penetrare, e che comunque necessiterebbero di molti anni per essere realizzate, oltre a ingenti risorse economiche che potrebbero essere usate diversamente. “Meglio puntare su opere più leggere e più veloci da realizzare, e che però risultino più risolutive ed efficaci nel tempo”, commenta Stefania Di Vito dell’ufficio scientifico di Legambiente, tra le autrici del report Acque in rete. “La priorità è ridurre la richiesta di acqua e la pressione sui corpi idrici, dovuta all’inquinamento e ai prelievi per agricoltura, industria e usi civili”.

Secondo Legambiente, dovremmo allora optare per soluzioni che riducano i consumi e migliorino la qualità dell’acqua: investire su sistemi di irrigazione a goccia, scegliere colture meno idrovore, dotare le industrie di impianti di recupero e riciclo delle acque, smettere di usare nei nostri wc e nelle fontane le acque potabili, costruire nuovi impianti di depurazione e migliorare la rete fognaria. “La siccità non è un’emergenza: dobbiamo imparare a conviverci”, conclude Di Vito. “Ecco perché parliamo di ‘economia circolare dell’acqua’: le parole chiave sono minor spreco, recupero e riuso”.

Immagine in anteprima: National Oceanic and Atmospheric Administration, Public domain, via Wikimedia Commons

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