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Il discorso di Putin nel Giorno della Vittoria: ora il nemico è l’Occidente

10 Maggio 2022 5 min lettura

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Il discorso di Putin nel Giorno della Vittoria: ora il nemico è l’Occidente

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L’evocazione di un passato indistinto quanto glorioso da parte di Vladimir Putin ormai è un elemento irrinunciabile della retorica a cui ci ha abituato il Cremlino negli ultimi anni. Questa abitudine è legata in modo indissolubile al 9 maggio, data in cui si celebra il Giorno della Vittoria nella Seconda guerra mondiale (chiamata in russo Grande guerra patriottica) e momento diventato centrale per la legittimazione del sistema di potere putiniano. Si tratta di una ricorrenza che ha subito una trasformazione profonda nel suo volto ufficiale, nei suoi riti e nelle sue percezioni, almeno dalla seconda metà degli anni Duemila, quando il 9 maggio diventa sempre di più il giorno in cui la Russia mostra la propria potenza militare al mondo con la parata nella Piazza Rossa e Putin rivendica la vittoria come fondamento della propria politica da grande potenza. In questa narrazione l’orgoglio, spesso genuino, di tante famiglie per i propri cari caduti o partecipanti alla Grande guerra patriottica si accompagna al risentimento, sempre più crescente, espresso nei discorsi ufficiali e nelle posizioni di politica estera delle autorità, in una costante rilettura del passato russo e sovietico. 

Si è parlato più volte a tal proposito di pobedobesie, ovvero di ossessione da vittoria, a proposito della retorica adottata per celebrare il 9 maggio. Un meccanismo che si esprime anche con la diffusione di modalità assai peculiari nel ricordare il sacrificio di oltre 27 milioni di sovietici, come la moda nel vestire i bambini da soldati e infermiere dell’Armata Rossa, la diffusione di un fiorente e tetro merchandising di oggetti stilizzati alla maniera militare, in una fusione tra direttive dall’alto e consumismo in mimetica dal basso.

Il nastrino di San Giorgio, ideato nel 2005 da un gruppo di giornalisti di Ria Novosti per dare un simbolo alla Giornata della Vittoria, racchiude in sé alcuni degli elementi di questa ossessione: si tratta della fusione in un solo elemento di due decorazioni appartenute alla Russia imperiale (l’ordine di San Giorgio) e all’Unione Sovietica (il nastro della Guardia) e presentata come segno d’orgoglio e monito per il futuro. Siamo gli eredi della Vittoria è uno degli slogan che da sempre accompagna la distribuzione e lo sfoggio del nastrino, presentato oggi con la guerra in Ucraina sempre più in forma di Z, lettera ormai tristemente associata alle rivendicazioni militariste del Cremlino.

All’appropriazione del nastrino ha fatto seguito un’operazione anch’essa molto significativa, la trasformazione di un’iniziativa partita dal basso, come il Bessmertnyj polk (il Reggimento immortale), in una parte delle celebrazioni ufficiali. La prima sfilata con i ritratti dei propri familiari reduci della guerra è avvenuta nel 2012 a Tomsk, in Siberia, ottenendo un enorme successo, perché la dimensione della memoria del 1941-1945 è sempre stata legata al ricordo familiare, per poi essere acquisita dal 2015 in poi dall’apparato statale, non senza polemiche da parte dei promotori delle prime manifestazioni sulla trasformazione di una iniziativa dal basso in parte della liturgia ufficiale del Cremlino. 

Al centro delle celebrazioni resta però la parata, e il messaggio letto dal presidente ne rappresenta sempre un momento importante. Il discorso di Putin del 9 maggio ha ricevuto grande attenzione mediatica perché ci si aspettava l’annuncio della mobilitazione generale, che non è avvenuto. Non è la prima volta che l’entourage del presidente russo crea un’atmosfera di attesa attorno a possibili dichiarazioni e annunci, per alimentare curiosità e interesse. Non di meno, nel messaggio rivolto alle truppe radunate sulla Piazza Rossa vi sono elementi importanti per analizzare la retorica e la percezione del mondo di Putin.

Sin dall’inizio del discorso, infatti, il leader russo ha fornito una propria personale genealogia della difesa della patria, definito un dovere sacro. Tali sentimenti hanno guidato le milizie del mercante Kuz’ma Minin e Dmitrij Požarskij nel cacciare da Mosca i polacchi nel 1612, nell’attaccare la Grande Arméé napoleonica a Borodino nel 1812, e nel combattere i nazisti e le forze dell’Asse alle porte di Mosca e Leningrado, a Kiev, Minsk, Stalingrado, Kursk, Sebastopoli e Charkov. Putin immediatamente conclude questo passaggio dicendo che anche oggi i soldati russi combattono per la propria gente nel Donbas, evidenziando in questo senso il messaggio principale del discorso della parata, la lotta eterna della Russia contro i nemici. Non viene mai esplicitato fino in fondo chi siano i nemici, ma le indicazioni contenute nelle parole del presidente lasciano ben poco spazio all’immaginazione, perché si tratta dell’Occidente, assurto a entità monolitica e anch’essa perenne nel tempo e nello spazio.

Per Putin, la Russia resta fedele ai valori tradizionali, appellati come millenari, agli usi e costumi degli avi, all’amore per la patria, mentre l’Occidente è preda di un degrado etico e morale senza precedenti, indicato nella falsificazione della storia della Seconda guerra mondiale, nella russofobia e nell’esaltazione dei traditori, in un amalgama dove vengono inserite le percezioni della propaganda dei media russi in una visione ancor più estremizzata e caricaturale, un processo simile a quanto avviene nei sermoni omofobi del patriarca Kirill.

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Non esiste più, in questa retorica, il nazismo come fenomeno storico che ha causato la tragedia della Seconda guerra mondiale, ma una minaccia proveniente da ovest, con cui la Russia, secondo il presidente, ha provato a trattare alla fine del 2021 con la presentazione delle richieste di garanzie di sicurezza per il paese all’Alleanza Atlantica, mentre gli Stati Uniti e i suoi “compagni più piccoli” foraggiavano con armi e sostegno militare l’Ucraina, di cui si denuncia la volontà di arrivare all’atomica. A differenza dei paesi occidentali, proclama Putin, la Russia ricorda anche i soldati degli eserciti alleati e i partigiani della Resistenza in Europa e in Cina, accomunando però questa memoria alle vittime del rogo di Odessa del 2 maggio 2014, diventato cinico leit-motiv dal 22 febbraio di quest’anno, quando fino ad allora il presidente russo solo una volta, nel 2017, ne ha parlato, e ai caduti civili e militari nel Donbas. Un accostamento preceduto ancora una volta dall’elenco delle figure che guidano le azioni delle forze armate russe, da Vladimiro il Grande al comandante partigiano ucraino Sidor Kovpak, dal generale della Prima guerra mondiale Aleksej Brusilov al principe Georgij Potiomkin, anche qui unendo in un unico, grande, destino momenti e personalità assai diverse, accomunate in questa rilettura dalla fede verso una Russia immutabilmente eterna, anche quando era nelle vesti imperiali o sovietiche. 

L’appropriazione della data maggiormente sentita nelle memorie familiari non solo russe, ma anche degli altri popoli un tempo parte dell’URSS e la sua reinterpretazione in chiave imperial-nazionale è ormai compiuta. Anche i riferimenti fatti alla grande e indistruttibile forza del nostro popolo multietnico unito contiene sempre una gerarchia dove i russi, nazione considerata costruttrice dello Stato (gosudarstvoobrazujuščaja), termine inserito nella Costituzione all’articolo 68, sono in posizione preminente rispetto alle altre nazionalità presenti nella Federazione Russa. La costruzione di una interpretazione post-moderna, in grado di mescolare elementi diversi e di renderli omogenei e utilizzabili dalla martellante propaganda televisiva e social, non è più una parte della strategia di legittimazione del Cremlino, ma è una realtà artificiale a cui crede lo stesso Putin, e in cui non vi è spazio per le sconfitte, ma solo per una continua e pervasiva celebrazione della vittoria come unico e possibile obiettivo del destino della Russia.

Immagine in anteprima: frame video RaiNews

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