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Diffamazione e carcere. Cosa (non) ci chiede l’Europa

27 Ottobre 2012 8 min lettura

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Diffamazione e carcere. Cosa (non) ci chiede l’Europa

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Da giorni si susseguono notizie relative alla proposta di legge comunemente conosciuta come «salva Sallusti». La condanna del direttore de Il Giornale è stata l'occasione per avviare una discussione sull'opportunità o meno di punire col carcere i giornalisti che si rendono colpevoli di diffamazione. L'impressione, però, a vedere la quantità di emendamenti che si sono riversati sulla proposta di legge rischiando di stravolgerla, è che la politica voglia sfruttare questo episodio per realizzare la sua vendetta contro i giornali, rei di pubblicare le nefandezze di una classe dirigente fin troppo avvezza ad approfittare delle proprie prerogative.

Purtroppo risulta anche difficile commentare una proposta di legge, ipotizzandone le possibili conseguenze, quando questa è ancora in divenire. Però, come per ogni dibattito, occorre partire dai dati corretti altrimenti davvero si rischia di radicare l'idea che sia solo un pretesto per ottenere ben altro.

La relazione

La relazione accompagnatoria del disegno di legge parte proprio dalla vicenda del direttore de Il Giornale, per evidenziare che

in quasi tutti gli Stati occidentali la pena per i reati di opinione è soltanto pecuniaria e anche per tale motivo, l'anomalia presente nel nostro ordinamento deve essere corretta e superata. La detenzione per il reato d'opinione è una misura drastica che è stata recentemente condannata anche dall'Unione europea.

Il riferimento è alla sentenza Kydonis contro Grecia, con la quale la Corte dei diritti dell'uomo ha condannato la nazione ellenica per aver ritenuto un giornalista colpevole di diffamazione, punendolo col carcere.
Continua la relazione:

l'Alta Corte di Strasburgo, infatti, ha affermato che il carcere, ove previsto negli ordinamenti interni nei casi di diffamazione, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività, la quale, a sua volta, ha il diritto di ricevere informazioni. Inoltre: la Corte ha precisato che la detenzione può essere ammessa solo in casi eccezionali, quando il giornalista incita alla violenza o all'odio. Negli altri casi, «la previsione del carcere è suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa» impedendo «la partecipazione alla discussione su questioni che hanno un interesse generale legittimo». In pratica, se nell'ordinamento interno è stabilito il carcere nei casi di diffamazione siamo in presenza di una violazione certa della Convenzione poiché la misura applicata è sproporzionata rispetto al reato (il grassetto è nostro).

La relazione continua elencando i paesi nei quali la diffamazione non è punita col carcere, elenco piuttosto ristretto visto che il riferimento è alla sola Gran Bretagna. Le citazioni della Francia e degli Usa sono improprie perché nel primo caso si tratta di un paese che ha annunciato una riforma per la depenalizzazione del reato, mai realizzata, e negli Usa si prevede comunque la persecuzione della diffamazione, ma se il contenuto è falso o «motivated by malice» («motivato da intenzioni malevoli»).

La conclusione è lapidaria:

occorre intervenire con urgenza sulla disciplina della responsabilità per diffamazione nel nostro paese, omogeneizzandola agli standard europei che prevedono sanzioni pecuniarie e non detentive

da cui il disegno di legge in questione.

Diffamazione e carcere

In realtà non è affatto vero che in quasi tutti gli Stati occidentali la pena per i reati di opinione è soltanto pecuniaria. E anche la dizione «reati di opinione» non è corretta perché la diffamazione non è un reato di opinione (le mere opinioni non sono punibili).
Infatti, come riassume schematicamente un articolo de Linkiesta, il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa è previsto non solo in Italia, ma anche in: Spagna, Portogallo, Irlanda, Germania, Belgio, Austria, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Grecia, Finlandia, ecc...

È vero che di recente si sono avviati dibattiti sull'opportunità di mantenere la pena del carcere per i reati di diffamazione, una discussione inserita in quella più ampia sulla necessità di rimodellare le pene criminali ricorrendo il meno possibile alla pena carceraria, sia per esigenze di rieducazione (il carcere difficilmente rieduca), sia per il sovraffollamento degli istituti di pena.

Però il carcere per i giornalisti, in caso di diffamazione a mezzo stampa, pur essendo previsto astrattamente da tanti ordinamenti, viene applicato in casi davvero rarissimi, quando i giudici rilevano un comportamento particolarmente delinquenziale o uno spiccato disinteresse per la verità dei fatti, come ad esempio nel caso di rifiuto di rettificare l'articolo diffamante.

Insomma, una cosa è giudicare chi calca un po' troppo la mano su un aggettivo, ben altra cosa è inventare di sana pianta dei fatti determinati ed attribuirli ad una persona, come nella vicenda da cui prende spunto la legge, nella quale si attribuì al giudice tutelare addirittura un reato, cioè l'aver costretto una ragazzina ad abortire contro la sua volontà.

La differenza è lampante, dire che la legge sull'aborto fa schifo è un'opinione, quindi non punibile, dire che un giudice impone l'aborto è, invece, diffamazione. (Sulla vicenda specifica di Sallusti leggere il post Siamo tutti Sallusti, ma anche no).

Sentenza della Corte di Strasburgo

La sentenza citata nella relazione è della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, emanata nel procedimento Kydonis contro Grecia. Il caso trae origine da un ricorso (24444/07) di un giornalista ellenico contro la Grecia, nel quale il giornalista lamentava appunto una violazione dell'articolo 10 della Convenzione dei diritti dell'uomo in merito alla libertà di espressione.

Nell'articolo incriminato si raccontavano alcune vicende di un politico locale, e quest'ultimo denunciava il giornalista ottenendone la condanna per diffamazione alla pena di 5 mesi di reclusione, pena convertibile. Il giornalista veniva condannato in quanto, avendo presentato il politico come un invasore di suolo pubblico con l'indulgenza delle autorità e utilizzando falsi testimoni nei procedimenti civili, non aveva però provato la veridicità dei fatti. Pur tuttavia il giornalista non sarebbe stato a conoscenza della falsità delle sue affermazioni, da cui la condanna solo per diffamazione semplice e non aggravata.
Ovviamente il giornalista si è difeso sostenendo l'interesse pubblico della notizia e il dovere di giornalista di informare i cittadini delle vicende che riguardano i gestori della cosa pubblica, e così ha impugnato la condanna dinanzi alla Corte di Strasburgo.

La Corte di Strasburgo nel caso specifico ha rilevato una restrizione della libertà di espressione sproporzionata allo scopo legittimo perseguito, cioè la tutela dell'onore del politico.
Innanzitutto si è notata una sorta di inversione dell'onere della prova, cioè i giudici greci hanno ritenuto falsi i fatti raccontati perché il giornalista non ne avrebbe provato la veridicità, cosa che però risulterebbe provata in altri giudizi. Ovviamente si è tenuto conto del ruolo pubblico del soggetto presunto diffamato, ruolo che limita la protezione dell'onore e della privacy proprio per l'esposizione del personaggio.
Per questi motivi si è stabilito che l'interferenza con la libertà di espressione, che sussiste sempre in quanto si tratta di diritti in conflitto che devono essere bilanciati tra loro, non era nel caso specifico proporzionata, anche in considerazione della pena applicata, la misura più grave della reclusione in carcere.
Quindi:

la Corte ritiene che una pena detentiva per un reato commesso nel campo della stampa è compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall'articolo 10 della Convenzione, in circostanze eccezionali, ad esempio quando altri diritti fondamentali sono stati seriamente compromessi, come nell'ipotesi di diffusione di discorsi di odio o incitamento alla violenza.

Quello che la Corte sostiene non è, quindi, una totale ed automatica incompatibilità della pena carceraria con la Convenzione dei diritti dell'uomo, bensì che la pena detentiva è giustificabile solo in circostanze eccezionali, delle quali viene fatto un esempio (diffusione di discorsi di odio o incitamento alla violenza) tuttavia non esaustivo della casistica.

Art. 10 Convenzione dei diritti dell'uomo

L'articolo 10 della Convenzione, infatti, nel tutelare la libertà di espressione, precisa che tale diritto comporta doveri e responsabilità:

1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario..

L'articolo prevede la possibilità di assoggettare la libertà di espressione a delle restrizioni, purché esse siano interpretate in senso restrittivo, e i casi sono menzionati nel medesimo articolo, cioè per la tutela della sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, ecc..., compreso la protezione della reputazione o dei diritti altrui.

Nella sentenza della Corte di Strasburgo del 3 aprile 2012 (Kaperzynski c Polonia n. 43206/07), la Corte precisa che la stampa ha un ruolo essenziale in una società democratica, ma che non deve oltrepassare alcuni limiti, in particolare per quanto riguarda la reputazione e i diritti altrui. E chiarisce anche che, in considerazione del margine di discrezionalità lasciato agli Stati contraenti, una sanzione criminale come risposta alla diffamazione non può essere ritenuta sproporzionata in quanto tale (punto 69).
Tuttavia, si deve esercitare cautela quando le misure imposte o le sanzioni adottate tendono a scoraggiare la libertà di stampa.

In conclusione, la Corte di Strasburgo non ha mai detto che

la detenzione può essere ammessa solo in casi eccezionali, quando il giornalista incita alla violenza o all'odio. Negli altri casi, «la previsione del carcere è suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa» impedendo «la partecipazione alla discussione su questioni che hanno un interesse generale legittimo»,

e non è esatto sostenere che

se nell'ordinamento interno è stabilito il carcere nei casi di diffamazione siamo in presenza di una violazione certa della Convenzione poiché la misura applicata è sproporzionata rispetto al reato

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 trattandosi di non corrette estrapolazioni della sentenza Kydonis.

Piuttosto la Corte ha sostenuto che occorre realizzare un bilanciamento tra i valori in conflitto, stabilendo innanzitutto se la restrizione alla libertà di espressione è prevista dalla legge, se serve ad uno scopo legittimo, e se è necessaria in una società democratica (vedi sentenza Kaperzynski c Polonia), cosa che si ha se l'interferenza corrisponde a un bisogno sociale imperativo, come, tra l'altro, la tutela della reputazione di un individuo. Diritto, quest'ultimo, anch'esso previsto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo, all'articolo 8.

Del resto, se così non fosse come mai dal 2009 ad oggi la sola Gran Bretagna ha eliminato il carcere per la diffamazione a mezzo stampa, mentre gli altri paesi lo mantengono ancora? Sono tutti in contrasto con gli standard europei?
Se vogliamo discutere dell'opportunità di eliminare la pena del carcere per la diffamazione a mezzo stampa, discutiamone con serenità e senza preconcetti, ma soprattutto senza accampare la solita giustificazione che «ce lo chiede l'Europa», perché questo Strasburgo non lo ha detto!

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