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Alluvioni nelle Marche: abbiamo bisogno del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

21 Settembre 2022 13 min lettura

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Alluvioni nelle Marche: abbiamo bisogno del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Undici morti, due dispersi, oltre cinquanta feriti, danni enormi a case e infrastrutture. È il triste bilancio delle gravi alluvioni che hanno funestato le Marche tra il 15 e il 16 settembre. In due o tre ore sono caduti circa 400 mm di pioggia sono caduti, ha detto la Protezione Civile, un terzo della pioggia che di solito cade in un anno. Le province di Ancona, di Pesaro e Urbino sono state le più colpite. A Senigallia il fiume Misa ha rotto gli argini e invaso il centro cittadino.

Ci si interroga sulla possibilità reale di prevedere un evento di questa gravità, sull’efficacia dei sistemi di allerta meteo della Protezione Civile e sullo stato delle misure di prevenzione adottate in questi anni da Regione e Comune per limitare l’impatto di eventi estremi, purtroppo sempre più frequenti ormai a tutte le latitudini.

Nel frattempo sono state aperte due inchieste, una da parte della Procura di Ancona e una da quella di Urbino. La Procura di Ancora ha aperto un fascicolo contro ignoti, ipotizzando i reati di omicidio colposo plurimo e inondazione colposa, e sta cercando di capire soprattutto se ci sia stata una mancata allerta da parte della Regione nei confronti dei Comuni. Nel pomeriggio del 15 settembre, il dipartimento delle Marche della Protezione Civile aveva diramato un bollettino meteo in cui non evidenziava alcuna criticità idraulica e idrogeologica in tutta la regione (allerta verde) e segnalava un’allerta gialla, cioè un livello di criticità ordinario, per i temporali, nelle sole aree interne delle province di Pesaro e Urbino e di Ancona. La Procura di Urbino ha invece aperto un’inchiesta con la sola ipotesi di reato di inondazione colposa. Anche in questo caso si indaga sulla catena degli allertamenti dei Comuni interessati dalle piogge.

Che cosa è successo? Come spiega al Corriere della Sera Bernardo Gozzini, direttore del centro Lamma-CNR, nelle Marche si sono verificate le condizioni per un temporale chiamato V-shaped, cioè a forma di V, alimentato in continuazione da correnti d’aria umida. In questi casi, l'umidità viene prima sollevata da una corrente ascensionale, poi quando è ormai molto fredda si espande a ventaglio, come accade al fumo di un camino.

“Si è trattato di una cella temporalesca autorigerenante”, afferma ad Huffington Post, Gianmaria Sannino, Responsabile del Laboratorio di Modellistica Climatica e Impatti dell’ENEA. È un temporale che “ha continuato ad alimentarsi, rimanendo nella stessa area per diverse ore. L'aria, man mano che spirava sulla montagna, era sempre più costretta a salire, a generare nubi piene d’acqua che poi sono state scaricate nella generazione opposta rispetto a dove c’era il flusso d'aria”. 

Questi tipi di temporali sono chiamati così perché “man mano che si scaricano, si autoalimentano grazie al contributo dell'umidità prodotta dal mare. Quando fa caldo, aumenta la quantità di vapore in atmosfera e dunque la quantità di acqua che può trasformarsi in pioggia. Se nelle vicinanze c'è un mare non troppo profondo (con acqua, dunque, a temperatura abbastanza elevata), tutto si amplifica: la quantità di vapore che si ‘trasforma in nube’ diventa enorme e dunque le piogge assumono un carattere di nubifragio”. Nel caso delle Marche, “le correnti hanno fatto sì che il temporale non si disperdesse, ma rimanesse bloccato sulla zona per ore. Ecco perché la quantità di pioggia caduta ha raggiunto livelli che si accumulano normalmente nell'arco di mesi”. 

Perché un evento del genere non era facilmente preventivabile. Secondo Sannino, va fatta una distinzione tra due punti di vista, quello climatologico e quello meteorologico. Da un punto di vista climatologico, dopo un’estate siccitosa e con l’inizio dell’autunno meteorologico (che inizia il primo settembre) e l’arrivo di infiltrazioni di aria più fredda dal nord Europa, eventi di questo tipo erano preventivabili, ma era impossibile stabilire dove nel dettaglio. 

I modelli di previsione meteo, basati su algoritmi ed equazioni usate in tutto il mondo, spiega ancora Gozzini, consentono di prevedere giorno per giorno se ci sarà un temporale molto forte, ma non di stabilire con precisione dove e quando. In particolare il 15 settembre, “era stato previsto un certo fenomeno, ma gli strumenti a disposizione non hanno consentito di prevedere con precisione il suo impatto” e questo potrebbe avere portato alla sottovalutazione dell’evento temporalesco da parte della Protezione Civile. 

I ritardi nelle misure di prevenzione. Sono partite anche le prime ricognizioni dei carabinieri per determinare lo stato delle infrastrutture e dei corsi d’acqua esondati e verificare se, in questi anni, le amministrazioni comunali e regionali che si sono succedute abbiamo adottato le misure necessarie per prevenire eventi meteorologici così estremi. 

Per quanto i sindaci abbiano detto di non essere stati adeguatamente informati sulla gravità di quanto stava per accadere e di essere stati colti alla sprovvista, negli anni passati c’erano stati alcuni segnali d’allerta. Nel 2014, infatti, un’alluvione molto simile aveva causato tre morti e 179 milioni di euro di danni, ancora una volta in particolare proprio nelle aree di Senigallia, Ostra e Ostra Vetere, colpite in questi giorni. E, sebbene secondo l’ultimo rapporto sul Dissesto idrogeologico in Italia a cura proprio dell’ISPRA, nelle Marche sono indicate al massimo zone a pericolosità idraulica media (P2), che rischiano cioè alluvioni o scenari estremi tra i 100 e i 200 anni, leggendo il Piano di Emergenza di Protezione Civile del Comune di Senigallia, spiega Barbara Lastoria, ingegnere idraulico delll’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), “in città tra il 1892 e il 2014 ci sono stati episodi di allagamento ogni 8 anni. Nel 2014 in tre ore, il livello del fiume Misa è passato da sotto il livello di attenzione a sopra il livello di allarme raggiungendo i 6,00 metri”.

Dietro la discrepanza tra la mappatura dell’ISPRA e il piano della Protezione Civile di Senigallia potrebbe essere una mancata registrazione e trasmissione dei dati su possibili eventi estremi da parte della Regione Marche, scrive Luca Martinelli sul Manifesto. Una pericolosità elevata implica “un regime di tutela molto spinto che comporta anche l’esigenza di mettere in condizioni di sicurezza le persone che vivono in un’area”, spiega ancora Lastoria che, in un’altra intervista a Repubblica, introduce un ulteriore elemento di complessità: “I temporali sono diversi da quelli della nostra memoria. Possono causare veri e propri disastri. Se vediamo anche solo 10 centimetri d’acqua, vuol dire che un fiume ha rotto gli argini. Non si deve andare in garage. Non si deve prendere la macchina. Ci si deve allontanare da ponti e sottopassi. Non si deve restare ai piani bassi di un edificio, se si vive vicino a un bacino idrico. Più della metà delle vittime delle Marche avrebbe potuto salvarsi, se avesse adottato comportamenti corretti”.

Nonostante tutto questo, in tutti questi anni è stato fatto poco o niente. Per quanto riguarda il fiume Misa, il cantiere per realizzare nuove vasche di laminazione, che servono a contenere l’acqua in eccesso in caso di esondazioni, è iniziato soltanto lo scorso febbraio nonostante del progetto si discutesse da anni, osserva Andrea Dignani, geologo-geomorfologo fluviale, consulente scientifico del WWF, da anni è impegnato in un lavoro di analisi del territorio marchigiano. Inoltre, servirebbe “una migliore gestione delle aree agricole con piccoli bacini di raccolta delle acque meteoriche e laghetti collinari utili anche per i periodi siccitosi”.

C’entra il cambiamento climatico? “È difficile attribuire un singolo episodio ai cambiamenti climatici”, spiega Giulio Betti, climatologo del centro Lamma-CNR Lamma. “Quello che abbiamo visto però rientra nei modelli. È un evento eccezionale, che segue altri eventi eccezionali di questo tipo”. E altri ne arriveranno, scrive Ferdinando Cotugno su Domani: “In Italia, alle porte dell’autunno, secondo Legambiente sono stati già 132 gli eventi estremi, e siamo all’inizio della stagione critica, resa più pericolosa dal Mediterraneo con temperature quasi da Mar Rosso e dal luglio-agosto più torridi della storia europea, secondo i dati Copernicus”. 

Le temperature del mar Mediterraneo sono molto più alte di quelle registrate nel 2003 che portarono a numerose alluvioni lampo a Carrara, Val  Canale, nella provincia di Taranto, scrive su Facebook il meteorologo Federico Grazzini. “Per effetto del riscaldamento globale il mare sta accumulando una quantità di calore spaventoso, e questo a sua volta determina una maggiore probabilità di sviluppo di precipitazioni estreme”

Secondo il Global Climate Risk Index 2021, prosegue Cotugno, “l’Italia è stata negli ultimi vent’anni il 22esimo paese al mondo per rischio climatico, il sesto per vittime, il nono per vittime in proporzione alla popolazione, il dodicesimo per impatto economico. Dal 2013 al 2019 il danno da eventi collegabili all’emergenza climatica, secondo Greenpeace, è di 20,3 miliardi di euro, circa 3 miliardi all’anno. Ogni autunno seppelliamo i morti e ricostruiamo un paese esposto più di altri – per latitudine, geografia, orografia – agli estremi di un clima compromesso”. Eppure, “l’adattamento del territorio è fermo: mancano pianificazione, lotta al consumo di suolo, sistemi integrati di allerta e soprattutto la visione d’insieme del Piano nazionale di adattamento, in attesa di approvazione dall’intera legislatura”.  

Gli eventi estremi degli ultimi mesi vengono vissuti spesso come emergenze temporanee. La realtà è che viviamo in un mondo complesso e globalizzato, dove tutto è connesso, e noi agiamo ancora come se avessimo a che fare con un sistema semplice, dove ad un'azione corrisponde una singola reazione e tutto finisce lì, spiega il climatologo Antonello Pasini, intervenuto il 19 settembre a Roma, nella sede del CNEL, per proporre l'istituzione di un organismo scientifico di consulenza su clima e ambiente per Governo e Parlamento. “Risolvere la crisi climatica (che rappresenta la cartina di tornasole di un nostro rapporto non corretto con la natura) è l'elemento necessario per la soluzione di tutte le emergenze che ci attanagliano”, conclude Pasini.

Il Pakistan non contribuisce al cambiamento climatico ma ne paga il prezzo

Uno studio condotto da 26 scienziati di nove paesi, nell'ambito del gruppo World Weather Attribution, ha stimato che il cambiamento climatico potrebbe aver reso le piogge che hanno generato le inondazioni che hanno devastato il Pakistan fino al 50% più intense. Secondo i modelli dello studio le piogge sono state significativamente più intense di quanto sarebbero state senza l’aumento delle temperature globali di almeno 1,1°C dall'epoca preindustriale.

La maggior parte dei modelli “mostra un aumento della probabilità e dell'intensità potenzialmente molto elevato”, hanno dichiarato gli autori dello studio. “È urgente ridurre la vulnerabilità alle condizioni meteorologiche estreme in Pakistan”.

Anche l'estate insolitamente calda potrebbe aver giocato un ruolo, amplificando lo scioglimento dei 7.000 ghiacciai pakistani che alimentano il fiume Indo. Tuttavia, il contributo relativo dell'acqua di fusione glaciale alle inondazioni è sconosciuto, spiega la ricerca. Allo stesso modo è difficile determinare anche l'effetto del ricorrente modello meteorologico La Niña, quest'anno all'origine delle inondazioni in Australia.

Dopo aver visitato alcune delle aree colpite dalle inondazioni, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha dichiarato di non aver mai visto una distruzione di tale portata causata dal clima e ha lanciato un appello alla comunità internazionale per aiutare il Pakistan, sottolineando che il paese asiatico è vittima dei cambiamenti climatici prodotti dai paesi più industrializzati. “Siamo davanti a una scelta: azione collettiva o suicidio collettivo”, ha dichiarato Guterres. Il Segretario generale delle Nazioni Unite ha esortato i paesi a "tassare gli extraprofitti delle aziende produttrici di combustibili fossili e a reindirizzare i proventi verso le nazioni vulnerabili che subiscono perdite sempre più gravi a causa della crisi climatica e le persone che lottano contro l'aumento dei prezzi di cibo ed energia". Guterres ha aggiunto che "gli inquinatori devono pagare" per i danni crescenti causati da ondate di calore, inondazioni, siccità e altri impatti climatici: "È giunto il momento di mettere in guardia i produttori di combustibili fossili, gli investitori e gli intermediari". Si tratta di affermazioni importanti, osserva l’editorialista del Washington Post Hamid Mir che aggiunge: “Secondo gli esperti, il Pakistan è responsabile di meno dell'1% delle emissioni globali. Ora sta pagando un prezzo pesante per gli errori commessi da altri. Il nostro paese ha il diritto di chiedere giustizia climatica”.

Il Pakistan è alla guida del cosiddetto Gruppo dei 77, una coalizione di paesi in via di sviluppo presso le Nazioni Unite, da tempo impegnata nel portare avanti la questione della finanza climatica e del prezzo pagato dalle nazioni più povere che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico dovuto all'industrializzazione delle nazioni ricche.

È nato il primo registro globale dei combustibili fossili

In occasione dei colloqui sul clima durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York è stato lanciato il Registro globale dei combustibili fossili. Si tratta del primo database pubblico su larga scala che tiene traccia della produzione globale di combustibili fossili, delle riserve di petrolio e gas e delle emissioni. 

Sviluppato da Carbon Tracker, un think tank senza scopo di lucro che studia gli effetti della transizione energetica sui mercati finanziari, e dal Global Energy Monitor, che segue una serie di progetti energetici globali, il Registro globale dei combustibili fossili è realizzato utilizzando i dati di oltre 50.000 giacimenti in 89 paesi, che coprono circa il 75% delle riserve, della produzione e delle emissioni globali. 

A differenza dei dati pubblici gestiti dall'Agenzia internazionale dell'energia, che esaminano la domanda di combustibili fossili, questo database tiene traccia di ciò che deve ancora essere bruciato. Nella speranza di Carbon Tracker e Global Energy Monitor, questi dati potrebbero aiutare i gruppi ambientalisti e climatici a fare pressione sui leader nazionali affinché concordino politiche più incisive che portino a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica. “I gruppi della società civile devono concentrarsi maggiormente su ciò che i governi intendono fare in termini di rilascio di licenze, sia per il carbone che per il petrolio e il gas, e iniziare a mettere in discussione questo processo di autorizzazione”, ha dichiarato Mark Campanale, fondatore di Carbon Tracker.

Studio dell’Università di Oxford: “Passare alle energie rinnovabili potrebbe far risparmiare migliaia di miliardi”

Secondo uno studio dell'Università di Oxford, il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili potrebbe far risparmiare al mondo ben 12mila miliardi di dollari entro il 2050.

Sulla base dell’analisi dei dati storici sui prezzi delle energie rinnovabili e dei combustibili fossili, i ricercatori hanno creato un modello che prevedesse come i costi possano cambiare in futuro. I dati relativi ai combustibili fossili vanno a ritroso dal 2020 per oltre 100 anni fa e mostrano che, tenuto conto dell'inflazione e della volatilità del mercato, il prezzo non è cambiato di molto. Le energie rinnovabili esistono solo da pochi decenni, quindi i dati sono meno corposi, ma in questo lasso di tempo i continui miglioramenti tecnologici hanno fatto sì che il costo dell'energia solare ed eolica sia sceso rapidamente, a un ritmo che si avvicina al 10% annuo. “La nostra conclusione centrale è che dovremmo andare avanti a tutta velocità con la transizione verso l'energia verde perché ci farà risparmiare”, ha dichiarato alla BBC News il professor Doyne Farmer dell'Institute for New Economic Thinking della Oxford Martin School, tra gli autori della ricerca. 

Lo studio prevede che il prezzo delle energie rinnovabili continuerà a scendere. “Le nostre ultime ricerche dimostrano che l'aumento di scala delle principali tecnologie verdi continuerà a far scendere i loro costi, e più velocemente andremo avanti, più risparmieremo”, ha commentato il dottor Rupert Way, autore principale del rapporto della Smith School of Enterprise and the Environment. L'eolico e il solare sono già l'opzione più economica per i nuovi progetti energetici, ma restano dubbi su come immagazzinare al meglio l'energia e bilanciare la rete quando i cambiamenti climatici portano a un calo della produzione rinnovabile.

La storia del miliardario proprietario di Patagonia che ha ceduto la sua azienda per combattere la crisi climatica

“Da oggi la Terra è il nostro unico azionista”, ha annunciato l'azienda. “Tutti i profitti, in perpetuo, saranno destinati alla nostra missione di ‘salvare il nostro pianeta’”. Il fondatore di Patagonia, Yvon Chouinard, che ha trasformato la sua passione per l'arrampicata in uno dei marchi di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo, ha deciso di cedere l'intera azienda, valutata circa 3 miliardi di dollari, a un trust e a un'associazione no-profit per destinare tutti i suoi profitti - circa 100 milioni di dollari all'anno - alla salvaguardia del pianeta.

Insieme alla moglie, i due figli e un team di avvocati dell’azienda, Chouinard, 83 anni, ha creato una struttura che permetta a Patagonia di continuare a operare come azienda a scopo di lucro i cui proventi andranno a beneficio delle iniziative ambientali. La famiglia Chouinard ha donato il 2% di tutte le azioni e tutti i poteri decisionali a un trust, che supervisionerà la missione e i valori dell'azienda. Il fondo, che sarà supervisionato dai membri della famiglia e dai loro consulenti più stretti, ha lo scopo di garantire che Patagonia tenga fede al suo impegno di gestire un'azienda socialmente responsabile e di devolvere i suoi profitti. Il restante 98% delle azioni dell'azienda sarà devoluto a un'organizzazione no-profit chiamata Holdfast Collective, che “utilizzerà ogni dollaro ricevuto per combattere la crisi ambientale, proteggere la natura e la biodiversità e sostenere comunità fiorenti, il più rapidamente possibile”.

“Speriamo che questo porti a una nuova forma di capitalismo che non dia vita a un mondo con pochi ricchi e tantissimi poveri", ha detto Chouinard in un'intervista. “Daremo la massima quantità di denaro alle persone che lavorano attivamente per salvare il pianeta”.

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Patagonia è stata una delle prime aziende a diventare una b-Corp, sottoponendosi alla certificazione di conformità a determinati standard ambientali e sociali. Negli anni '80 l’azienda ha iniziato a donare l'1% delle sue vendite a gruppi ambientalisti. Nel 2001 l’iniziativa è stata poi formalizzata nel programma “1% for the Planet Scheme” che, secondo Patagonia, è arrivata a destinare 140 milioni di dollari in donazioni per la conservazione e il ripristino dell'ambiente naturale. Negli ultimi anni l'azienda è diventata più attiva politicamente, arrivando a fare causa all'amministrazione Trump nel tentativo di proteggere il Bears Ears National Monument.

“Mi sento molto sollevato per aver messo ordine nella mia vita", ha detto Chouinard. "Per noi questa era la soluzione ideale”.

Immagine in anteprima: ANSA

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