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La crisi dei consultori: un allarme per i diritti delle donne in Italia

18 Dicembre 2023 9 min lettura

La crisi dei consultori: un allarme per i diritti delle donne in Italia

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Alle 5,30 di martedì 5 dicembre, il consultorio autogestito di Catania Mi Cuerpo Es Mio e lo Studentato 95100 che lo ospitava sono stati sgomberati dalla polizia. Il palazzo in cui avevano sede, di proprietà delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, era occupato dal 2018. A febbraio di quell’anno infatti diversi studenti universitari risultarono “idonei non assegnatari” di borse di studio e posti letto, per cui, nonostante ne avessero diritto, di fatto non potevano accedere a questi benefici che avrebbero garantito loro di intraprendere e proseguire gli studi. La causa di ciò era la mancanza di fondi della regione Sicilia, la cui cattiva gestione delle risorse venne denunciata da quegli stessi studenti che a quel punto decisero di occupare uno stabile della città ormai in disuso da anni, a cui diedero il nome di Studentato 95100.

Dal 2018 lo spazio ha accolto studenti e studentesse che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di vivere e studiare in città, e inoltre ospitava le assemblee del collettivo transfemminista Non una di meno di Catania e il consultorio autogestito Mi Cuerpo Es Mio. Attivo dal 2019, il consultorio offriva vari servizi di assistenza e supporto, come uno sportello di primo ascolto psicologico, consulenze sulla sessualità e una rete di mediche, avvocate, psicologhe, neonatologhe, educatrici e assistenti sociali che sostenevano le donne nei percorsi di fuoriuscita da relazioni violente. 

“Abbiamo adibito uno spazio abbandonato rendendolo un luogo sicuro per le donne, in cui potessero essere accolte e ascoltate”, hanno detto le attiviste e gli attivisti dello studentato che fin dalla mattina del 5 dicembre hanno organizzato un presidio permanente e ricevuto la solidarietà della comunità, di associazioni locali e di una parte della politica del territorio.

Lo sgombero dello studentato e del consultorio di Catania è avvenuto a pochi giorni dalle manifestazioni del 25 novembre e praticamente nelle stesse ore in cui si svolgevano i funerali di Giulia Cecchettin, vittima di femminicidio, la cui morte ha riacceso il dibattito in Italia su cosa fare per contrastare la violenza di genere: per gli attivisti e le attiviste catanesi, la risposta istituzionale locale è stata quella di ignorare le proposte di dialogo da loro avanzate negli ultimi sei anni e “decidere di sgomberare uno dei pochi posti che si oppone e contrasta la violenza di genere sul territorio, in cui giovani e meno giovani si organizzano contro il patriarcato”. 

Secondo il sindaco di Catania Enrico Trantino (Fratelli d’Italia), invece, lo studentato avrebbe svolto attività a scopo di lucro mentre il consultorio non era operativo dal 2021, e lo stabile è stato sgomberato perché occupato illegalmente. A questo ha aggiunto che l’ente Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, di cui lui stesso è presidente, “ha intenzione di assegnarlo ad associazioni che si occupano della tutela delle vittime di violenza di genere e delle vittime di ogni violenza”, in quello che appare come un tentativo di marginalizzare e invalidare il ruolo svolto dal consultorio per la comunità in tutti questi anni. 

Un’operazione già vista, questa, anche con altri spazi sociali, autodeterminati e creati dal basso presenti in Italia che, oltre a offrire servizi di valore per la collettività e il territorio, colmano le profonde lacune dello Stato. È di questi giorni infatti la notizia che la Casa delle Donne Lucha y Siesta, luogo di cultura, spazio transfemminista e centro antiviolenza, è nuovamente minacciata dal rischio di chiusura, in un paese in cui i CAV non vengono finanziati in maniera adeguata e sostenibile.

I consultori nel resto d’Italia

Il consultorio catanese non è l’unico a essere sotto attacco: anche Trieste potrebbe vedere dimezzati i suoi presidi. Negli ultimi mesi infatti si è iniziato a discutere della possibilità che, in un’ottica di riorganizzazione dei servizi territoriali, l’azienda sanitaria accorpi i consultori e di fatto ne chiuda 2 su 4. 

Questo ha generato una serie di mobilitazioni da parte di cittadine e cittadini e la fondazione del Comitato di partecipazione dei Consultori che, insieme a Non Una di Meno Trieste, sta portando avanti le attività di protesta: “Vogliamo che tutti i consultori di Trieste rimangano aperti e che ne aprano altri; che quelli che ci sono vengano migliorati, finanziati adeguatamente e aperti alla partecipazione effettiva della popolazione”, ha spiegato il Comitato.

A novembre 2021 invece tutti i 7 consultori presenti nell’area della Locride in Calabria erano a rischio chiusura, tra carenza di personale, locali fatiscenti e mancanza di strumentazioni e apparecchiature mediche. Al consultorio di Stilo, ad esempio, lavorava una sola ostetrica due volte a settimana, in un edificio le cui pareti erano impregnate di muffa, i servizi igienici inagibili e la maggior parte delle prese elettriche non funzionanti a causa dell’umidità. È stato grazie al movimento spontaneo Riprendiamoci i Consultori composto da operatrici, cittadine e cittadini del territorio che questa situazione è stata portata alla luce. 

“La situazione nella Locride era disastrosa”, hanno detto le attiviste del movimento calabrese a Valigia Blu. “Le persone giovani non sapevano più se esistessero i consultori, se fossero attivi, quale fosse la loro funzione. Abbiamo fatto dei sondaggi nelle nostre cerchie di amici e conoscenti e ci siamo rese conto che nell’immaginario ricorrente il consultorio era un ambulatorio ginecologico o un luogo di cura di bassa qualità”. In sostanza, si stava assistendo alla loro “scomparsa dal dibattito pubblico”.

“La situazione attuale è leggermente migliorata nell’ultimo anno”, confermano le attiviste: “Non c’è ancora un consultorio che può essere definito completo, ma nell’organico totale di base sono subentrate psicoterapeute, ginecologhe e ostetriche”. Inoltre, il consultorio di Stilo è stato trasferito in una nuova struttura a pochi chilometri di distanza, precisamente a Bivongi: “Senza il nostro pressing sarebbe stato sicuramente chiuso in maniera definitiva”, dicono dal movimento.

La storia, il ruolo e l’evoluzione dei consultori

L’importanza dei consultori è legata tanto alla funzione che svolgono - o dovrebbero avere la possibilità di svolgere - quanto alla loro storia. Istituiti nel 1975 con la legge 405, questi presidi infatti sono nati in un periodo storico di grandi cambiamenti culturali e sociali, come il referendum sul divorzio, le prime denunce di violenza ostetrica e la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. In questo contesto si inseriscono anche i consultori, nati per fornire assistenza alle donne attraverso il supporto psicologico, la prevenzione e la tutela della loro salute. 

Il modello era quello dei consultori autogestiti che gruppi di attiviste femministe avevano aperto in diverse diverse città d’Italia negli anni Settanta. In questi luoghi, si metteva in discussione una visione patriarcale e paternalistica della medicina e si restituivano alle donne gli strumenti della conoscenza del proprio corpo e della propria sessualità. 

Nonostante i numerosi punti di contrasto tra ciò che il movimento femminista chiedeva e auspicava e ciò che poi la legge ha sancito (come l’esclusione delle donne nella gestione di questi presidi in alcune regioni, le possibili sovvenzioni a consultori privati e religiosi, e un interesse più verso la coppia e la famiglia che verso la donna), i consultori familiari hanno rappresentato nel tempo un importante luogo di confronto, ascolto e cura. 

Con un approccio multidisciplinare e accesso libero e gratuito, questi spazi infatti hanno lo scopo di promuovere la tutela della salute della donna in senso ampio e in ogni fase della vita, tenendo in considerazione anche gli aspetti sociali e relazionali e il contesto culturale in cui ogni donna si muove. Supporto psicologico, contraccezione, prevenzione, assistenza nell’interruzione volontaria di gravidanza, accompagnamento nel percorso nascita e accoglienza e aiuto alle donne che hanno subito violenza di genere, sono alcuni dei servizi di competenza dei consultori.

Negli anni però i consultori sono stati riorganizzati e depotenziati al punto che oggi la loro presenza sul territorio risulta carente, disomogenea e spesso inadeguata alle necessità. Ad esempio, mentre la legge prevede che ci sia una struttura ogni 20mila abitanti, in Italia in media ve n'è una ogni 32mila circa, e questo a causa della progressiva riduzione negli anni delle sedi disponibili e attive. Per quanto riguarda il personale sanitario, poi, ogni consultorio dovrebbe prevedere almeno quattro figure centrali, ovvero ginecologo, psicologo, ostetrica e assistente sociale, ma solo in una sede su due lavora un’equipe al completo. Inoltre, solo un’Azienda sanitaria o distretto su due ricorre alla consulenza di un mediatore culturale, nonostante i consultori debbano garantire accesso libero e gratuito anche alle donne straniere e ai loro figli.

Guardando un po’ più nel dettaglio, poi, in Basilicata, Molise e nella provincia autonoma di Trento le condizioni strutturali dei consultori sono tra quelle più critiche, mentre soprattutto al sud e nelle isole la presenza di barriere architettoniche limita o impedisce l’accesso ai consultori a una parte della popolazione. Accessibilità vuol dire anche vicinanza: il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) varato nel 2000 suggeriva ad esempio che, per una migliore tutela della salute delle donne e dei loro figli, nelle zone rurali e semiurbane ci fosse un consultorio ogni 10mila abitanti. 

La Locride stessa “è terra difficile”, spiegano le attiviste di Riprendiamoci i Consultori, perché “non esistono collegamenti pubblici con l’unico ospedale a nostra disposizione e un’elevata percentuale di donne non ha la patente o non lavora, il che significa che interi nuclei familiari vivono con un solo stipendio e completamente dipendenti da una sola persona che guida”. Chiudere uno o più consultori, non garantire facile accesso a questi presidi, non tenere in considerazione le difficoltà di spostamento e di contesto che le residenti di una determinata area possono avere vuol dire limitare il loro diritto alla salute e all’autodeterminazione.

Al sud è anche meno frequente la partecipazione dei consultori a una rete antiviolenza, mentre non tutti i consultori presenti sul territorio italiano prevedono attività pensate per i più giovani e circa la metà delle strutture non si occupa di questioni relative alla comunità LGBTQIA+. Counselling e visite mediche a donne in menopausa vengono invece offerte in quasi tutti i centri, ma solo un consultorio su 4 al nord e al centro e meno della metà di quelli al sud e nelle isole propongono campagne informative su questa fase della vita. 

Sebbene poi la quasi totalità dei consultori familiari dichiarino di occuparsi del percorso nascita, l’adozione di un protocollo per la valutazione del rischio psicosociale e di un eventuale disagio psichico durante e dopo la gravidanza è in media piuttosto rara, con il pericolo dunque di non rintracciare per tempo eventuali fattori di rischio e segnali di depressione perinatale. Anche l’ecografo, strumento necessario per una serie di prestazioni sanitarie e diagnosi, non è disponibile in tutti i consultori.

Per quanto riguarda invece l’assistenza per interruzione volontaria di gravidanza, il 68,4% dei consultori italiani nel 2021 ha dichiarato di offrire counselling pre-IVG e di rilasciare i certificati per l’intervento. Un numero ancora insufficiente è quello relativo ai controlli e dunque al supporto post-IVG. Dal 2020 è inoltre possibile accedere all’aborto farmacologico anche nei consultori ma, stando alle ultime analisi, solo in alcune città italiane è possibile usufruire di questo servizio. 

Tra le motivazioni, vi è la carenza di strutture e spazi adeguati tanto quanto di personale, oltre che l’alto numero di operatori sanitari obiettori negli stessi consultori e l’opposizione di una parte della politica. A pochi mesi dalla pubblicazione della circolare ministeriale che aggiornava le linee guida sull’aborto farmacologico, ad esempio, la Regione Piemonte (Centrodestra) ne ha vietato l’accesso nei consultori. A inizio 2021, invece, l’assessora alla Sanità dell’Abruzzo Nicoletta Verì (Lega) ha chiesto a tutte le ASL che l’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico venga “preferibilmente” effettuata in ospedale e non nei consultori.

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Tanto questi dati quanto le storie di Trieste, della Locride e di Catania raccontano di un quadro fragile e in lento disfacimento. Tra una visione sempre più aziendalistica della sanità italiana e il depotenziamento costante dei presidi territoriali, i consultori vengono indeboliti nelle loro funzioni e nel loro valore sociale, nonostante l’importanza che hanno avuto e continuano ad avere. 

“I consultori hanno avuto un ruolo fondamentale”, hanno detto le operatrici e sostenitrici del movimento Riprendiamoci i Consultori, dall’accompagnamento alla nascita alla prevenzione oncologica fino al supporto ad adolescenti in difficoltà e alle donne in relazioni violente, mentre oggi “si occupano perlopiù di corsi preparto, allattamento e visite ginecologiche di base. Dovrebbero poter fare molto di più: sul territorio, per il territorio, con il territorio”. “Quando pensiamo ai consultori”, spiegano infatti le attiviste calabresi, “dobbiamo poterli immaginare come luoghi sicuri, facilmente raggiungibili in autonomia e aperti”.

Immagine in anteprima: grab via CataniaToday

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