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La Conferenza sul clima è andata male: i governi sanno cosa fare ma per ora non lo faranno

19 Dicembre 2018 15 min lettura

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La Conferenza sul clima è andata male: i governi sanno cosa fare ma per ora non lo faranno

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«In questo momento siamo di fronte a un disastro causato dall'uomo di portata globale: la nostra più grande minaccia in migliaia di anni. Se non agiamo, il collasso delle nostre civiltà e l'estinzione di gran parte del mondo naturale è all'orizzonte. Il tempo sta volando». Con queste parole, Sir David Attenborough, divulgatore scientifico e naturalista britannico, ha inaugurato il “People’s Seat”, lo spazio in cui tutti i cittadini potevano intervenire durante la Conferenza sul clima di Katowice in Polonia e interloquire con i leader mondiali.

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C’era grande attesa per la Cop24, i colloqui che ogni anno i leader mondiali tengono sul clima e che quest’anno erano ospitati dalla città di Katowice, nel cuore della regione mineraria di carbone della Polonia. Erano almeno tre le questioni che i delegati di 200 paesi avrebbero dovuto affrontare durante la Conferenza sul clima, osservava Brad Plumer sul New York Times.

L'obiettivo principale era stabilire una serie di regole chiave (il cosiddetto “rulebook”) per rendere applicabile l’accordo sul clima di Parigi, firmato nel 2015, che impegnava le nazioni firmatarie a intraprendere misure per limitare l'aumento della temperatura globale a 2 gradi centigradi rispetto all'epoca pre-industriale, ma con un impegno aggiuntivo a contenere questo aumento entro 1,5 gradi.

In base all'accordo di Parigi, i paesi non sono tenuti a presentare piani legalmente vincolanti per ridurre le emissioni. Ognuno era chiamato a presentare un piano volontario a partire dalla propria situazione interna. Fu questa base non vincolante a far sì che si raggiungesse l’accordo, ma dopo tre anni ci si è resi conto che molti paesi hanno fatto meno di quanto preventivato e, soprattutto, non ci sono strumenti per poter valutare tecnicamente e comparare quanto ogni singolo Stato sta facendo e poter avere uno sguardo d’insieme.

Sotto questo stretto aspetto, la Conferenza ha raggiunto il suo obiettivo perché dopo due settimane di strenue negoziazioni si è arrivati alla stesura di un testo condiviso che prevede l’introduzione di un regolamento che consente di mettere in pratica l’accordo raggiunto a Parigi nel 2015.

Sono stati definiti i criteri attraverso i quali i singoli governi nazionali misureranno e verificheranno la riduzione delle emissioni. In questo modo, spiega il Guardian, sarà più semplice comparare gli sforzi compiuti dagli Stati, che avranno maggiori difficoltà a svincolarsi dagli impegni assunti.

Oltre a questa, però, c’erano anche altre questioni – politiche, economiche, sanitarie e simboliche – sul tavolo.

Perché era importante la Conferenza di Katowice

Da un punto di vista politico, c’era il delicato rapporto tra i paesi ricchi e quelli usualmente definiti in via di sviluppo. Da un lato, paesi come Cina e India erano diffidenti nei confronti di un controllo esterno sulle politiche adottate (come previsto dal “Rulebook” poi approvato) e chiedevano margini di manovra maggiori, dall’altro, Stati Uniti e Unione europea non volevano concedere standard più bassi ai paesi delle economie emergenti (per consentire loro di produrre più energia) perché oggi le nazioni in via di sviluppo rappresentano il 60% delle emissioni globali.

Poi c’era la questione degli investimenti. Da tempo, l’India e i paesi africani chiedono che i paesi più ricchi possano aiutare i governi più poveri nella transizione all’energia pulita o per l’attuazione di politiche di adattamento agli impatti del riscaldamento globale. Per l’attivista nigeriano Nnimmo Bassey, non è una questione di carità o benevolenza, ma di giustizia. «Siamo i più vulnerabili, siamo i meno responsabili ma quelli che ne soffriremo di più», spiega in un’intervista a DW Seyni Nafo, portavoce della delegazione africana alla Conferenza di Katowice: «Il cambiamento climatico ha il potenziale per distruggere il nostro sviluppo». Gli effetti del riscaldamento globale hanno un impatto tra il 5 e il 10% del prodotto interno lordo (PIL) dei singoli paesi, aggiungeva ancora Bassey.

I paesi industrializzati, scriveva DW in un articolo di presentazione della Conferenza, avevano promesso che a partire dal 2020 avrebbero messo a disposizione 88 miliardi di euro ogni anno per aiutare i paesi più poveri ad abbassare le emissioni e adattarsi al clima che cambia. Non di questo avviso, pochi giorni prima della Conferenza, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva scritto su Twitter che l'Accordo di Parigi era stato "fatalmente viziato" perché il suo sistema di impegni volontari faceva alzare il prezzo dell’energia in alcuni paesi e costringeva "i contribuenti e i lavoratori americani a pagare per ripulire l'inquinamento degli altri paesi".

A tutto questo si aggiungeva l’aspetto della salute delle persone. “Affrontare il cambiamento climatico farebbe risparmiare almeno un milione di vite all'anno” si legge in una relazione inviata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) al vertice sul clima. I benefici economici di un miglioramento della salute sono più del doppio dei costi di riduzione delle emissioni (ancora più elevati in India e Cina). «Al momento facciamo finta che i combustibili fossili siano combustibili a buon mercato, solo perché non ne includiamo il costo per la nostra salute e per l'economia», ha dichiarato Diarmid Campbell-Lendrum, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e uno degli autori del rapporto dell'IPCC. «Non si tratta solo di salvare il pianeta in futuro, si tratta di proteggere la salute delle persone in questo momento», ha aggiunto María Neira, direttrice dell'OMS per la salute pubblica e ambientale.

Infine, c’era la questione principe, vale a dire come dare energia al pianeta in un modo sostenibile per l’ambiente e fare in modo di tagliare le emissioni di gas serra ed evitare che il pianeta si riscaldi di tre gradi centigradi in più rispetto ai livelli pre-industriali entro il 2030 compromettendo definitivamente alcune aree del pianeta. Anche i proprietari di fondi di investimento, assicurazione e pensione globali sono intervenuti per chiedere azioni decise per ridurre le emissioni di gas serra, proponendo anche l’eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili e l’introduzione di tasse sul carbone. Se non si affronta la questione del cambiamento climatico, andremo incontro a una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008, si legge in una lettera sottoscritta da 415 gruppi di investimento.

La posta in gioco era (e continua a essere) alta: se è vero che i paesi a Parigi nel 2015 avevano raggiunto un accordo per mantenere le temperature globali non oltre i 2 gradi centigradi sopra i livelli preindustriali, le politiche adottate a livello nazionale si sono rivelate insufficienti a soddisfare gli obiettivi prefissati.

Combattere il cambiamento climatico significa cambiare il modo in cui funzionano i sistemi economici e cambiare lo stile di vita di intere società, aveva spiegato a DW James Murombedzi, esperto di clima presso la Commissione economica per l'Africa delle Nazioni Unite: «Soprattutto nei paesi altamente sviluppati, sembra non esserci abbastanza volontà politica per sostenere i costi necessari».

Prima della Conferenza di Katowice sono stati pubblicati diversi studi che hanno mostrato come il mondo stia correndo verso temperature sempre più alte con conseguenze devastanti per il pianeta e indicato alcune soluzioni da intraprendere entro poco più di 10 anni prima che i cambiamenti del clima siano irrimediabili.

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Due mesi fa l'Intergovernmental Panel on Climate Change, il gruppo mondiale di esperti sul clima, ha rilevato che già l’aumento delle temperature globali di 1,5 gradi centigradi (obiettivo sul quale è stato raggiunto un accordo a Parigi nel 2015) avrebbe l’effetto di provocare l'innalzamento del livello del mare, la distruzione di parte delle barriere coralline, l'estinzione di alcune specie vegetali, siccità, inondazioni, tempeste e ondate di calore capaci di minacciare la salute del pianeta. Livelli di riscaldamento maggiori potrebbero portare alla devastazione di parti del globo, pregiudicando la produttività agricola di alcune aree, sciogliendo la calotta polare artica e rendendo molte aree inabitabili.

Qualche settimana dopo è arrivato il rapporto 2018 di Climate Transparency: se i paesi del G20 non dimezzeranno le loro emissioni entro il 2030, il riscaldamento globale salirà intorno ai 3,2 gradi. In altre parole, il pianeta ha poco più di un decennio per portare le emissioni sotto controllo e dimezzarle in modo tale da stabilizzare il clima ma, come riportato in un documento della World Meteorological Organization (WMO), abbiamo già raggiunto livelli di gas presenti nell’atmosfera simili a milioni di anni fa quando le temperature globali erano più alte di 2 o 3 gradi.

Secondo uno studio pubblicato su Nature Communications, che ha esaminato le politiche sul clima di diversi paesi, se continuassero come stanno facendo attualmente, Cina, Russia e Canada porterebbero il pianeta a una temperatura globale al di sopra dei 5 gradi centigradi entro il 2100. Gli Stati Uniti e l'Australia sono solo leggermente indietro con una temperatura globale oltre i 4 gradi, l’Unione europea viaggia su una media di 3 gradi, l’Italia registra un valore di 3,2 gradi, come si può vedere sul sito della ricerca. Il carbone e il petrolio continuano a essere ancora il motore di gran parte dell'economia mondiale e, per quanto il ricorso all'energia pulita sia più rapido di quanto previsto (e i suoi costi siano scesi rapidamente), la sua adozione deve essere accelerata.

Nei giorni immediatamente precedenti agli incontri di Katowice è stato pubblicato, infine, un terzo importante rapporto scientifico secondo il quale gli effetti disastrosi dell’aumento delle emissioni globali, combinati con altri fattori come le naturali fluttuazioni delle temperature, potrebbero verificarsi un decennio prima del previsto, entro il 2030.

Le emissioni di gas serra in tutto il mondo stanno crescendo a un ritmo accelerato nell’ultimo anno esponendo il pianeta alle più gravi conseguenze prima del previsto, si legge nella ricerca che ha rilevato come i paesi di tutto il mondo abbiamo rilasciato nel 2018 37,1 gigatonnellate di gas serra, 100mila volte il peso dell'Empire State Building, nota Kendra Pierre-Louis sul New York Times. «Abbiamo visto il consumo di petrolio salire di cinque anni di fila. Questo è davvero sorprendente», ha detto Rob Jackson, professore di Scienze della Terra all’università di Stanford.

Secondo la ricerca condotta dal Global Carbon Project, un gruppo di 100 scienziati di oltre 50 istituzioni accademiche, a livello mondiale ci si aspetta un aumento delle emissioni di carbonio nel 2018 del 2,7%. Secondo lo studio, la Cina produce il 27% delle emissioni globali,gli Stati Uniti il 15%, l'Unione europea il 10% e l'India il 7%.

Particolari sono le politiche della Cina, che stanno investendo molto nelle energie rinnovabili ma, allo stesso tempo, stanno costruendo nuove centrali a carbone anche in nuovi mercati come l’Africa sub-sahariana. I ricercatori prevedono, inoltre, che le emissioni degli Stati Uniti aumenteranno del 2,5% dopo diversi anni di calo e nonostante il passaggio dal carbone verso fonti di energia più pulite, quelle dell’India cresceranno del 6,3% nello sforzo del paese di fornire elettricità a 300 milioni di persone, e che diminuiranno dello 0,7% nell'Unione europea, il dato più basso nell’ultimo decennio a causa di un aumento del consumo di petrolio legato ai trasporti.

Prima dei colloqui, c’era grande incertezza sul ruolo e le decisioni che avrebbero preso quei paesi che, nonostante questi rapporti, alla vigilia degli incontri in Polonia, avevano negato l’urgenza di una questione climatica. In particolare gli Stati Uniti, che hanno avuto un ruolo fondamentale nel successo finale della Conferenza di Parigi, ma che sotto l’amministrazione del presidente Donald Trump, hanno disconosciuto proprio l’accordo raggiunto in Francia e prevedono di sfilarsi entro il 2020. Accanto a loro, l’Australia e il Brasile, che hanno apertamente dichiarato di opporsi ad azioni più energiche sul clima. Più di un analista temeva prima della Conferenza di Katowice una sorta di “effetto Trump” che minasse gli sforzi globali per contenere il riscaldamento globale.

«Questo sarà uno dei negoziati più difficili che abbiamo visto finora», aveva dichiarato Andrew Light, consulente senior per i cambiamenti climatici del Dipartimento di Stato statunitense sotto l’amministrazione Obama. E così è stato, visto che ci sono voluti colloqui supplementari e le decisioni più importanti sono state rinviate addirittura al 2020.

Cosa è successo a Katowice

Nonostante l’accordo trovato intorno alla definizione delle regole per applicare quanto concordato a Parigi nel 2015, non è stato affrontato il vero nodo della questione: come tagliare le emissioni ed evitare che le temperature del pianeta salgano di 3 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali?

Durante i colloqui, gli Stati Uniti, la Russia, l'Arabia Saudita e il Kuwait hanno unito le forze per impedire che la conferenza abbracciasse pienamente le conclusioni dell'International Panel on Climate Change (IPCC), riconoscendo la criticità della situazione ma di fatto non prendendo iniziative concrete per impedire che gli scenari prospettati dall’IPCC si realizzino.

In una tavola rotonda organizzata durante la Conferenza, i funzionari dell’amministrazione Trump hanno difeso i combustibili fossili sostenendo che, nonostante quanto rilevato dal rapporto dell’IPCC, una ritirata da carbone, petrolio e gas non è realistica. Nel corso dell’incontro, più volte interrotto dalle proteste di alcuni attivisti, il consigliere internazionale per il clima e l’energia degli Stati Uniti, Wells Griffith, ha affermato che i paesi in via di sviluppo sono dipendenti dai combustibili fossili e che, quindi, è interesse globale trovare modi efficienti per sviluppare e bruciare gas, petrolio e carbone. «Gli USA hanno risorse naturali in abbondanza e non li terranno sotto terra», è stata la posizione di Griffith. «Siamo fermamente convinti che nessun paese debba sacrificare la propria prosperità economica o la sicurezza energetica nel perseguimento della sostenibilità ambientale».

La posizione degli Stati Uniti è stata condivisa da Russia, Arabia Saudita, Kuwait e anche dal Brasile che, insieme, hanno formato un gruppo informale di paesi a sostegno del carbone e degli altri combustibili fossili. Questi paesi, scrive Brad Plumer sul New York Times, si sono rifiutati di rilasciare una dichiarazione collettiva a favore del rapporto dell’IPCC, mentre, contestualmente, i diplomatici statunitensi si muovevano dietro le quinte per arrivare alla stesura di un “regolamento” condiviso da tutti che consentisse l’attuazione dell’accordo di Parigi.

L’allineamento tra Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait ha fatto in modo che l’accordo fra i paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Katowice fosse meno ambizioso di quanto sperato. Dopo un acceso dibattito, i 4 paesi tra i maggiori produttori di petrolio hanno respinto una mozione che voleva accogliere le conclusioni cui giungeva il rapporto dell’International Panel on Climate Change. I 4 Stati hanno fatto in modo che lo studio venisse semplicemente “annotato” ma non “accolto”, il che in termini diplomatici significa – scrivono Jonathan Watts e Ben Doherty sul Guardian – che si è preso atto che di questo passo, se nulla cambia, si va verso lo scioglimento delle calotte polari, inondazioni, siccità, la distruzione delle barriere coralline e l’inabitabilità di diverse aree del pianeta, ma non si fa nulla per evitare che ciò accada.

L’Australia ha sposato la posizione degli Stati Uniti esaltando l'economia del carbone mentre il Brasile ha seguito le posizioni negazioniste del suo attuale capo di Stato, Jair Bolsonaro, ritirando la sua candidatura per ospitare la conferenza del prossimo anno, che si terrà in Cile. Dal 1992, anno in cui proprio in Brasile la comunità internazionale si è riunita per la prima volta per discutere le riduzioni delle emissioni di gas serra ed è stata firmata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che chiede ai governi di evitare che si alzi pericolosamente il livello del riscaldamento globale, si tengono infatti ogni anno i colloqui sul clima. Nel 2015 il Brasile era stato uno dei paesi che più si era speso per colmare il divario tra nazioni ricche e povere e arrivare alla ratifica dell’accordo di Parigi. Ma con l’elezione di Bolsonaro, il clima politico è cambiato. Il neo-presidente ha scelto come nuovo ministro degli Esteri, scrive Jonathan Watts sul Guardian, Ernesto Araújo, convinto assertore che il cambiamento climatico faccia parte di un complotto dei marxisti per soffocare le economie occidentali e promuovere la crescita della Cina, e che l’ambientalismo sia uno strumento utilizzato dai politici di sinistra per diffondere l’ideologia globalista.

Contro questo nuovo approccio rispetto alle politiche ambientali, i governatori di 7 Stati brasiliani, sindaci e imprenditori locali avevano espresso l’idea di aderire a un gruppo che si battesse per mantenere gli impegni assunti con l’accordo di Parigi, seguendo l’esempio di “We Are Still In”, negli Stati Uniti. Negli USA, infatti, oltre 3500 sindaci, governatori, dirigenti d’azienda si sono uniti per contrastare la decisione del presidente Donald Trump di sfilarsi dall’accordo sul clima del 2015. «Da “We Are Still In” stiamo imparando l’importanza che possono avere i governi locali e le aziende nell’attuazione dell’Accordo di Parigi», ha dichiarato alla Reuters Mauricio Voivodic, direttore esecutivo di WWF Brasile.

Durante l’incontro plenario di sabato 8 dicembre, l’Unione europea, un blocco di 47 paesi meno ricchi, diverse nazioni africane, latino-americane e sudamericane, si sono espressi a favore della relazione, ma alla fine si è deciso di non decidere. Rueanna Haynes, una delegata di St. Kitts e Nevis, ha definito "ridicolo" non accogliere un rapporto che due Stati membri dell'ONU avevano commissionato due anni prima e liquidare negoziati cruciali in due parole: «È molto frustrante non essere in grado di prendere in considerazione i risultati del rapporto: stiamo parlando del futuro del mondo - sembra un'iperbole quando lo dico, ma è gravissimo».

Tutto è stato rinviato alla Conferenza del Clima del 2020, che si terrà probabilmente nel Regno Unito o in Italia e che si preannuncia più importante di quella di Parigi del 2015. Nel 2020, i paesi delle Nazioni Unite dovranno dimostrare di aver raggiunto gli obiettivi fissati circa un decennio fa per ridurre le loro emissioni di gas serra ed elaborare nuovi piani per ridurre drasticamente le emissioni ed evitare una crisi climatica che secondo gli scienziati del clima potrebbe avere gli effetti naturali, economici e sociali più devastanti della storia dell'umanità.

“Un accordo ‘inadeguato’ che non riconosce l’urgenza del cambiamento climatico”

Un accordo parziale incapace di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico. I principali esperti di clima hanno definito “inadeguato” e senza il senso dell’urgenza, che le devastazioni legate al riscaldamento globale pongono, l’accordo raggiunto a Katowice.

«Bisogna fare molto di più e anche rapidamente per evitare la catastrofe», hanno convenuto diversi esperti, riporta Fiona Harvey sul Guardian. Secondo Nicholas Stern, presidente della British Academy e del Grantham Research Institute sui cambiamenti climatici e l’ambiente alla London School of Economics and Political Science, «i progressi che stiamo facendo sono inadeguati rispetto alle dimensioni e all’urgenza dei rischi che il pianeta sta affrontando», mentre Johan Rockstrom, direttore dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico ha sottolineato che «i paesi membri dell’Onu non si sono allineati alle prospettive indicate dagli studi scientifici. Continuiamo a perseguire una strada che ci porterà ad avere un pianeta più caldo di 3 o 4 gradi nonostante vediamo già eventi meteorologici estremi con un solo grado di riscaldamento in più».

«Sono stati fatti progressi, ma ciò che abbiamo visto in Polonia è una fondamentale mancanza di comprensione della crisi attuale», ha detto Manuel Pulgar-Vidal del WWF. Nel momento in cui gli Stati Uniti hanno preso le distanze dalle conclusioni cui giunge l’ultimo rapporto dell’IPCC, è venuto meno un impegno corale facendo della salvaguardia del pianeta una battaglia esclusivamente politico-economica la cui posta in gioco è la qualità della vita e l’abitabilità di intere aree della Terra.

Per Greenpeace, la Cop24 è stata un fallimento perché “si è conclusa senza nessun chiaro impegno a migliorare le azioni da intraprendere contro i cambiamenti climatici". Questa conferenza, ha affermato Jennifer Morgan, Direttrice Esecutiva di Greenpeace International, ha confermato l’irresponsabile distanza tra i paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici e i principali produttori di carbone e petrolio.

Unica nota positiva il cosiddetto “Rulebook”, l’adozione di una «serie di regole comuni vincolanti per la trasparenza e la revisione degli obiettivi che, se attuate, porteranno all’attuazione dell’accordo del 2015. «Se Parigi ha dettato la strada, il rulebook adottato da questa Cop è la tabella di marcia per arrivarci», ha dichiarato Li Shuo di Greenpeace East Asia.

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Questa conferenza “è andata peggio di quanto sembri”, conclude il giornalista (tra i conduttori di Radio 3 Scienza) Pietro Greco su Rivista Micron. Il testo concordato dai paesi delle Nazioni Unite dice che “i governi sanno ma non fanno, registrano i risultati scientifici, ma non agiscono di conseguenza”. Tutto questo, prosegue Greco, ha un che di paradossale “perché in fondo tutti i paesi partecipanti alla conferenza, compresi i rappresentanti di Washington, Mosca, Riad e Kuwait City, hanno almeno preso atto che i contenuti dell’ultimo rapporto dell’IPCC sono da tenere in considerazione”, ma “non li hanno fatti propri” e “neppure rigettati”.

“Quasi duecento governi di tutto il mondo hanno riconosciuto ufficialmente che bisogna prendere in seria considerazione gli scenari presentati dall’IPCC, ma hanno anche detto di non avere la capacità per agire di conseguenza”: tutto questo “è disarmante”, conclude Greco, e la “via è sempre più stretta e ripida”.

Immagine in anteprima via DW

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