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Clima: a Madrid prevalgono gli interessi economici. Così la politica ci condanna alla catastrofe

19 Dicembre 2019 17 min lettura

Clima: a Madrid prevalgono gli interessi economici. Così la politica ci condanna alla catastrofe

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Tuvalu è un paese di poco più di 11.000 abitanti, il suo nome significa “otto che stanno insieme”. Una manciata di atolli nell’arcipelago polinesiano che non superano i cinque metri sul livello del mare. Di questo passo, sarà sommerso nel giro di un secolo in seguito al riscaldamento globale.

«Ci sono milioni di persone nel mondo che stanno già soffrendo per gli impatti del cambiamento climatico. Negarlo potrebbe essere interpretato da alcuni come un crimine contro l’umanità», ha detto al termine di COP25 il rappresentante di Tuvalu, Ian Fry.

Le decisioni non prese (e che ci si aspettava) hanno effettivamente dimostrato una mancanza di senso della realtà. Giudicata un insuccesso da molti, la conferenza sul clima è finita come è iniziata: in modo a dir poco travagliato e all’insegna del disimpegno.

Nel 2019 doveva infatti tenersi in Brasile, ma un anno fa il neoeletto presidente Jair Bolsonaro ha ritirato l'offerta per presunte ragioni economiche. A quel punto la meta è diventata Santiago del Cile se non che, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza in seguito ai disordini scoppiati nella capitale cilena, il presidente Sebastián Piñera ha annunciato il 30 ottobre che il paese non avrebbe più ospitato il vertice.

E così, due giorni dopo, di comune accordo tra le Nazioni Unite, la Spagna è diventata il nuovo ospite e la conferenza si è spostata a Madrid. Ciononostante, la ministra dell’Ambiente in Cile María Carolina Schmidt Zaldívar ha mantenuto la presidenza e l’evento è stato ribattezzato “COP25 Chile Madrid”.

Nel giro di un mese, l’intera organizzazione si è trasferita da un capo all’altro dell’oceano con non pochi problemi logistici e soprattutto diplomatici. Si tratta della terza Cop di fila in Europa e la prossima, destinata a Glasgow, sarà la quarta. Secondo Friends of the Earth, il rischio è che il Sud del mondo abbia sempre meno possibilità di farsi ascoltare.

Lo stesso vale per ONG e attivisti climatici, alcuni dei quali erano partiti per il Sud America in barca a vela e in pochi (fra cui la stessa Greta Thunberg) sono riusciti a riorganizzarsi per essere a Madrid in tempo. Alla fine, secondo l’UNFCCC, i partecipanti totali sono stati 26.706. Fra questi, 13.643 delegati provenienti da 196 parti del mondo e un paese osservatore, la Santa Sede.

Le ambizioni mancate: «Il tempo perso a Madrid avrà conseguenze di vasta portata e pregiudicherà il benessere del pianeta»

I risultati della conferenza sono stati definiti “insufficienti per affrontare l’urgenza della crisi climatica” dalla presidentessa Schmidt Zaldívar. La mancanza di consenso ha limitato le ambizioni della Conferenza, nonostante un accordo fosse “vicinissimo”, come affermato sempre dalla ministra dell'Ambiente cilena.

Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva dichiarato all’inizio degli incontri che su COP ricadevano molte speranze.

COP25 avrebbe dovuto chiarire i punti rimasti in sospeso e per questo aveva un’importanza cruciale, prima del 2020, l’anno decisivo in cui i paesi dovranno completare i piani per l’azione climatica. 

La revisione al rialzo degli impegni da parte dei paesi, per quanto auspicabile, non era in programma per il 2019. Tutte le Parti si sono già impegnate a presentare contributi determinati a livello nazionale (Nationally determined contributions, NDC) per ridurre le emissioni da ora al 2030 e ad aggiornare quelli già presi entro la fine del prossimo anno.

Il Cile ha però fin dall’inizio ribadito che avrebbe voluto una “COP fatta di ambizioni”, capace di colmare il divario tra gli impegni attuali e ciò che sarebbe necessario per tenere l’aumento di temperatura ben sotto i 2 °C rispetto all’era pre-industriale. Non a caso, l'hashtag #TimeForAction è stato lo slogan della conferenza, rilanciato da tutti e onnipresente insieme al logo.

Durante la prima settimana, i negoziatori hanno lavorato alle bozze da presentare poi ai ministri nella seconda e decisiva fase di COP. Con un ritardo record di circa 40 ore rispetto alla chiusura prevista, la conferenza si è chiusa soltanto domenica alle 13:55.

Dal momento che ogni decisione viene presa soltanto se c’è il consenso di tutte le Parti, i posizionamenti dei diversi gruppi negoziali, frutto di alleanze tra diversi paesi con interessi affini, sono fondamentali per fare passare i nuovi testi. Un’analisi delle diverse alleanze prima della COP21 di Parigi, sono riportate da Carbon Brief e perlopiù ancora valide.

Quest’anno ha avuto un effetto particolarmente negativo il comportamento di alcuni paesi. Brasile, Australia, Cina e Arabia Saudita hanno a più riprese bloccato i progressi nelle trattative. Al loro fianco si sono schierati gli Stati Uniti, che saranno ancora dentro l’Accordo di Parigi per tutta la seconda fase del protocollo di Kyoto e il cui ritiro sarà effettivo soltanto il 4 Novembre 2020 - ironicamente il giorno dopo le prossime elezioni presidenziali. La loro presenza nei negoziati, peraltro ingombrante, è stata giudicata non democratica da ONG e altri osservatori.

Sanjay Vashist, direttore di Climate Action Network Asia del Sud, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti, che hanno rinunciato all'Accordo di Parigi, hanno continuato a svolgere il loro ruolo tossico dietro le quinte per eliminare qualsiasi ambizione di riduzione delle emissioni mentre il Brasile ha cercato di legittimare la deforestazione attraverso un nuovo meccanismo di mercato. Il tempo perso a Madrid avrà conseguenze di vasta portata e pregiudicherà il benessere del pianeta».

Il gioco delle alleanze: obiettivi più ambiziosi per tutti vs interessi individuali dei singoli paesi

È mancato il consenso su quale dovesse essere il risultato finale della conferenza, con gruppi di Stati che chiedevano cose molto diverse.

Sostanzialmente, le Conferenze sul clima appaiono, infatti, come un gioco delle parti tra chi vorrebbe obiettivi più ambiziosi per tutti e chi non vuole pagarne il prezzo cambiando il proprio modello di sviluppo. 

In particolare, è pesata la differenza di posizioni tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Per quelli sviluppati o vulnerabili al cambiamento climatico si doveva tendere a colmare il divario che ancora esiste per raggiungere gli obiettivi climatici riducendo le emissioni dopo il 2020. Quelli in via di sviluppo – capeggiati dall’India – hanno invece criticato proprio i paesi più sviluppati accusandoli di aver fallito nell’evitare il riscaldamento globale finora.

Queste divergenze di obiettivi hanno portato immediatamente a un primo stallo.

A metà della seconda settimana lo stallo era così evidente che l’Alleanza dei piccoli stati insulari (di cui fa parte Tuvalu) ha denunciato in conferenza stampa un livello di “compromesso al ribasso” tale da minare l’integrità stessa dell’Accordo di Parigi.

L’Alleanza ha accusato Brasile, India e Cina di bloccare attivamente ogni proposito positivo nelle discussioni sull’Articolo 6, cioè quell’articolo dell’Accordo di Parigi che dovrebbe istituire dei meccanismi di mercato finalizzati alla mitigazione delle emissioni, attraverso progetti e attività.

Le Parti hanno lavorato ininterrottamente per due giorni elaborando un testo che osservatori, rappresentanti della società civile e negoziatori hanno giudicato inaccettabile. Il malcontento è stato espresso in pieno nella sessione plenaria che avrebbe dovuto ratificare il testo, al punto da spingere la presidenza cilena a promettere una revisione e chiedere un’estensione di un giorno.

Alla chiusura dei lavori, domenica, il testo era leggermente migliorato rispetto alla bozza del giorno prima. Senza essere ambizioso, quantomeno manteneva in vita l’Accordo di Parigi senza minarlo totalmente.

Per esempio, il testo di sabato si limitava a “reiterare l’invito alle parti a comunicare” i loro piani per migliorare i loro NDC nel 2020, senza fissare delle scadenze. In quello di domenica, si “ribadisce con grande preoccupazione l’urgente necessità di colmare il divario significativo” tra l’ambizione attuale e gli obiettivi di limitare il riscaldamento a 1.5 °C o sotto i 2 °C. Inoltre, si “esortano le parti a considerare quel divario quando comunicano o aggiornano i loro NDC”.

Non vengono fissate delle scadenze, ma il linguaggio utilizzato è più forte rispetto alle bozze e c’è un barlume di speranza: si incarica la segreteria delle Nazioni Unite di stilare un rapporto sugli obiettivi prima della prossima COP.

«Il risultato non è quello che ci aspettavamo. L’atmosfera è molto più sommessa rispetto alle celebrazioni che abbiamo vissuto alla fine delle negoziazioni negli ultimi quattro anni», dice Jahan Chowdury, direttore per il country engagement presso l’NDC Partnership Support Unit. «L’obiettivo di avere ambizioni alte soffre proprio per la mancanza di ambizioni nel testo così com’è. Tuttavia, dobbiamo rimanere ottimisti. Non è il testo in sé, ma l’azione collettiva globale che determinerà il successo o il fallimento degli Accordi di Parigi. Le piccole nazioni insulari mantengono una fiammella di speranza accesa».

In altri punti del testo si “prende atto” (che in un testo internazionale è spesso un’affermazione di facciata) “con preoccupazione dello stato del cambiamento climatico globale” e si “sollecitano fortemente” gli stati che ancora non lo abbiano fatto a ratificare l’emendamento di Doha - che contiene obiettivi per gli stati sviluppati per il periodo 2013-2020 - così che possa entrare finalmente in vigore.

Una vittoria simbolica e ottenuta a fatica contro l’opposizione del Brasile, ma significativa rispetto a COP24 è rappresentata dalla menzione dell’IPCC, cui si “esprime apprezzamento e gratitudine” per i suoi rapporti speciali invitando le Parti a fare uso della “scienza a disposizione”.

Intanto qualcosa si è mosso fuori dai negoziati. La manifestazione organizzata da Fridays for Future il 6 dicembre, che ha coinvolto almeno 15.000 persone, e una protesta di ONG e osservatori non ammessi nelle sale delle plenaria l’11 dicembre, conclusa con l’irruzione della security e il ritiro temporaneo dei badge, hanno mostrato tutti i limiti di questi negoziati. Ruby Russell, giornalista ambientale per DW, ha commentato: "In quello che avrebbe dovuto essere un anno cruciale per mettere a punto azioni serie, non soltanto alle Parti è mancata l’urgenza che viene invece avvertita per le strade: COP ha iniziato a sembrare una routine, così come la sua inadeguatezza".

Loss and damage: come aiutare i più duramente colpiti dal cambiamento climatico?

Il secondo punto importante nelle aspettative per questa COP riguardava il cosiddetto "loss and damage", ovvero la questione di come aiutare i paesi più duramente colpiti dal cambiamento climatico e che meno vi hanno contribuito.

Il testo, all’Articolo 8, è stato approvato ma rimangono aperte e sono rimandate ai prossimi incontri le questioni sui finanziamenti.

I negoziatori erano incaricati di rivedere e rendere più efficace il Meccanismo Internazionale di Varsavia, istituito nel 2013 al fine di mettere a disposizione più fondi economici.

Si tratta di un argomento controverso perché i paesi in via di sviluppo chiedono un sistema di finanziamenti da parte degli altri paesi che invece hanno più emissioni in quanto industrializzati. Mentre si concentra su adattamento e riduzione delle emissioni, la questione dei finanziamenti è ulteriormente complessa perché non fornisce soluzioni per tutti quei problemi a cui potrebbe non essere possibile adattarsi, come l’innalzamento del livello del mare per Tuvalu e altri piccoli stati insulari.

Il Meccanismo di Varsavia dovrebbe aiutare i paesi più vulnerabili attraverso una migliore conoscenza e gestione dei rischi legati al cambiamento climatico “aumentando dialogo, coordinazione, coerenza e sinergie” fra gli attori coinvolti. Fa riferimento a finanziamenti, così come a conoscenze e tecnologie che però non è chiaro come verranno distribuite.

Alla fine della prima settimana è stato rilasciato un testo per i ministri, poi successivamente aggiornato per incorporare contributi del gruppo G77 e Cina. Questo gruppo di 135 nazioni in via di sviluppo ha pubblicato un documento in cui ha chiarito la propria posizione, chiedendo “finanziamenti, tecnologie e conoscenze adeguati, facilmente accessibili, ingranditi, nuovi e aggiuntivi, prevedibili”.

La vittima principale: l'articolo 6 sul mercato del carbonio

La vittima principale di questa Conferenza è stato l’Articolo 6 sui meccanismi di mercato delle emissioni, una sezione dell’Accordo di Parigi – l’ultima mancante da quando il suo regolamento (Rulebook) è stato concordato a COP24 – così delicata a tal punto che si dice potrebbe farlo saltare.

Sui delegati pesava principalmente la responsabilità di definire il meccanismo, rimandata già lo scorso anno.

Questa sezione è particolarmente ostica e riguarda i mercati di carbonio e altre forme di cooperazione internazionale. In particolare, dovrebbe contribuire a ridurre le emissioni di gas serra a livello globale consentendo di "vendere" o "comprare" quelle in eccesso. Sempre Carbon Brief ha pubblicato un vademecum sul funzionamento dell’Articolo fatto di tre meccanismi separati per la cosiddetta cooperazione volontaria.

  • L'Articolo 6.2 disciplina la cooperazione bilaterale per cui i paesi che inquinano meno hanno la possibilità di guadagnare crediti (chiamati Internationally Transferred Mitigation Outcomes, ITMO) e investirli in nuovi progetti negli altri paesi che non possono ancora fare lo stesso.
  • L'Articolo 6.4 creerebbe un nuovo mercato internazionale del carbonio, che coinvolge il settore pubblico o privato in qualsiasi parte del mondo.
  • L'Articolo 6.8 offre un quadro formale per la cooperazione climatica tra paesi, al di là degli scambi commerciali.

Per i suoi sostenitori, l'Articolo 6 ha il vantaggio di offrire un percorso che coinvolge anche il settore privato. Secondo altri, rischia di giustificare le emissioni e perciò abbassare le ambizioni politiche.

Il nuovo sistema di meccanismi di mercato andrebbe a sostituire i meccanismi esistenti nell’ambito del Protocollo di Kyoto, incluso il Clean Development Mechanism (CDM).  In particolare, questo meccanismo avrebbe dovuto essere sostituito dal Sustainable Development Mechanism.

Nell'ambito del Protocollo di Kyoto era abbastanza semplice immaginare chi vende le quote di emissioni (in genere i paesi sviluppati) e chi le compra (i paesi in via di sviluppo). Con il Sustainable Development Mechanism, invece, impegni e regole valgono per tutti i paesi. Tutti avranno degli impegni di riduzione delle emissioni, pur potendo decidere i settori, i gas o le attività sulle quali concentrare il proprio sforzo di mitigazione. E quindi ipotizzare un meccanismo di mercato che si possa adattare a regole comuni, ma con impegni differenziati, non è affatto un gioco facile.

Un’altra differenza tra i due sistemi sta nei risultati finali.

Il Clean Development Mechanism era orientato alla compensazione (su 10 crediti, 10 possono essere acquistati e investiti in progetti per la riduzione delle emissioni). Ad esempio, una grande discarica ai margini di una città sudamericana rilascia in atmosfera notevoli quantità di metano dai processi di decomposizione. Un progetto di miglioramento prevede di recuperare tali gas e di sfruttarli in un impianto per la produzione di energia elettrica e la successiva commercializzazione. Le emissioni di metano evitate possono generare crediti di emissione rivendibili sul mercato.

Il Sustainable Development Mechanism potrebbe mitigare le emissioni diminuendole gradualmente (su 10 crediti, nove possono essere acquistati e uno viene eliminato). Una percentuale dei proventi verrà utilizzata per realizzare progetti di adattamento. I crediti verranno via via "cancellati" con l’obiettivo di migliorare progressivamente il taglio delle emissioni. Ma i dettagli sono ancora da definirsi proprio perché il testo non è ancora passato.

via Carbon Brief

Fondamentale, per un corretto funzionamento del meccanismo e per salvaguardare l’integrità ambientale, è evitare un doppio conteggio da parte di chi compra e da parte di chi vende i crediti. L’Accordo di Parigi vieta chiaramente il doppio conteggio dei crediti. Un paese che vende riduzione delle emissioni a un altro paese non può contabilizzare le stesse riduzioni ai fini del raggiungimento del proprio obiettivo climatico.

Altro punto particolarmente critico è quello relativo all’utilizzo delle unità di carbonio generate dai meccanismi di mercato nell’ambito del Protocollo di Kyoto dopo il 2020. Diversi paesi in via di sviluppo sono infatti detentori di numerose quote di emissione relative al Protocollo di Kyoto e, senza una norma che permetta loro di vendere tali quote anche dopo il 2020, si troverebbero in mano carta straccia. D’altra parte, consentire loro di vendere tali quote dall’anno prossimo rischierebbe di minare fortemente lo sforzo per ridurre le emissioni globali.

A COP25 Brasile e Australia hanno fatto le barricate, aiutati anche dall’India. I tre paesi hanno crediti inutilizzati che non vorrebbero perdere e hanno cercato di giungere a scappatoie legali per conteggiarli doppiamente.

Nella notte di sabato durante gli ultimi affannosi negoziati, un gruppo di 31 paesi guidati dal Costa Rica ha firmato i cosiddetti Principi di San Jose che consistono in standard minimi per assicurare l’integrità del mercato globale del carbonio e contemporaneamente  la salvaguardia ambientale, dei diritti umani e delle comunità locali.

Anche per questo, si è preferito evitare del tutto un accordo su Articolo 6, piuttosto che accordarsi su un testo al ribasso che avrebbe avuto conseguenze sugli anni futuri.

Vale la pena notare che l’Unione Europea, così come tutti i suoi stati membri, non potranno utilizzare crediti internazionali dopo il 2020 ai fini del raggiungimento dell'obiettivo climatico.

Il nodo dei diritti umani e le sue conseguenze

La mancata decisione è grave perché lascia ancora in ballo la questione dei diritti umani e dell’impatto che il sistema di compra-vendita può avere sulle comunità locali.

Come spiega a Valigia Blu Chiara Soletti, policy advisor su diritti umani e clima per Italian Climate Network, per salvaguardare la sostenibilità dei progetti si possono menzionare direttamente i diritti umani o introdurre alcuni principi collegati.

Un esempio è anche la transizione giusta (Just transition), che serve per assicurarsi che anche le comunità la cui sussistenza è strettamente dipendente dai combustibili fossili possano convertirsi a un nuovo sistema economico senza rimanere indietro.

«Dal punto di vista della società civile, è sicuramente drammatico che non ci sia stata sufficiente azione per impegnarsi alla riduzione delle emissioni ed è grave che non ci sia un Articolo 6 perché non abbiamo tanto tempo», dice Soletti. «Però avere un testo che non include nessuna salvaguardia dal punto di vista sociale ed ecologico rischia di portare in futuro a errori che sono già stati commessi in passato dal Clean Development Mechanism».

Il problema riguarda da vicino alcune popolazioni indigene che vivono in quelle parti del mondo che sono ancora inesplorate e sono meno protetti. È quello che succede a leader e difensori dell’ambiente che si mettono di mezzo agli interessi di grandi multinazionali o del governo. Secondo Global Witness, 1.738 persone che lottavano per la difesa dell’ambiente sono state uccise tra il 2002 e il 2018 in 50 paesi. Soltanto nelle Filippine, sono 46 quest’anno. In Brasile 10 - di cui l’ultimo è Erisvan Guajajara, un ragazzo di 15 anni ucciso la scorsa settimana nel bel mezzo dei negoziati.

I casi più eclatanti di violazione dei diritti nell’ambito di progetti legati al Clean Development Mechanism sono stati per esempio quelli della costruzione delle grandi centrali idroelettriche in Brasile e in Cile. Costruite senza prima una verifica sull’impatto sociale e ambientale, hanno sì portato l’energia idroelettrica ma hanno avuto un impatto disastroso. Hanno devastato l’ecosistema e hanno messo a repentaglio i mezzi di sussistenza delle popolazioni indigene i cui membri sono emigrati o sono morti. Non a caso, proprio il Brasile ha vinto l’ultimo Fossil of the day Award di questa COP, un premio al contrario per i paesi con il comportamento peggiore nei negoziati.

Perciò non avere un testo definitivo sull’Articolo 6 è meglio al momento di avere un testo lacunoso che, una volta approvato, rimarrà in vigore per i prossimi 30-40 anni. Per quanto riguarda il "loss and damage", il testo revisionato del Meccanismo di Varsavia è stato approvato con qualche menzione ai diritti umani e questo è un dato positivo anche se si trovano nel preambolo non vincolante del testo.

«Quello che davvero preoccupa al momento è la mancata inclusione di  finanziamenti aggiuntivi al programma», spiega Soletti. «Senza una chiara previsione su come integrare gli attuali fondi, il programma rischia di essere debole e non incisivo».

Un passaggio positivo è stato invece l’approvazione del nuovo Gender Action Plan, che prevede la differenziazione delle azioni climatiche in modo da proteggere donne e gruppi di genere più vulnerabili, e un piano di lavoro per la Piattaforma per Comunità Locali e Popolazioni Indigene per lo scambio di esperienze e pratiche di mitigazione.

E adesso?

Ora che COP25 si è conclusa, la reazione di molti è stata la delusione.

Alcune questioni potranno già essere affrontate nella riunione intersessionale il prossimo giugno a Bonn. Con paesi chiave come Stati Uniti, Australia e Brasile opposti all’azione concertata di tutti gli altri, ora molto dipende dal summit tra Cina e Unione Europea previsto per settembre.

Finora soltanto 80 paesi, perlopiù piccoli e in via di sviluppo, hanno dichiarato la loro intenzione di migliorare gli NDC nel 2020. Tutti insieme coprono appena il 10,5% delle emissioni mondiali mentre nessuno dei grandi emettitori è presente nell’elenco. L’annuncio del Green Deal europeo, che vuole portare le emissioni a zero nel 2050, è stato quindi accolto come un segnale positivo.

Così avranno un certo peso anche le nuove elezioni presidenziali negli Stati Uniti a novembre, il G7 a giugno a Camp David e tutti gli eventi preparatori in Italia, inclusa la pre-COP e la Youth-Cop.

Gli occhi di tutti sono, tuttavia, puntati sul Regno Unito che dovrà ospitare la prossima COP, in partnership con l’Italia.

Il neo-eletto governo conservatore, già impegnato nelle trattative per uscire dall’Unione Europea, avrà anche il compito di dimostrare alte ambizioni e sarà responsabile di dare avvio all’Accordo di Parigi nella pratica. Questo significherà risolvere i nodi legati all’Articolo 6.

«Nonostante la pressione per consegnare l'unica parte rimanente del regolamento di Parigi qui a Cop25, diversi negoziatori a Madrid hanno rifiutato di scambiare i diritti umani e l'integrità ambientale per i mercati del carbonio, con la conseguenza che la decisione è stata trasferita alla COP26», ha commentato Erika Lennon, procuratore del Center for International Environmental Law. «Questo ritardo è stato l'unico modo responsabile di procedere oggi. Ora i negoziatori devono garantire che, quando verranno adottate le norme dell'Articolo 6, queste salvaguarderanno i diritti umani e i diritti delle popolazioni indigene, la partecipazione pubblica e l’accesso alla giustizia».

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Da qui al prossimo anno, la società civile può ancora fare molto. Dopo averlo reso manifesto, può convincere le Parti a chiudere il divario tra il bisogno immediato di combattere il cambiamento climatico, sostenuto dalla scienza, e le decisioni dei governi.

La direttrice politica ed economista capo alla Union of Concerned Scientists, Rachel Cleetus, ha dichiarato: «Abbiamo già a portata di mano molte delle tecnologie necessarie per ridurre drasticamente le emissioni di riscaldamento globale e sappiamo cosa serve per effettuare una rapida e giusta transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio. Le persone del mondo che hanno a cuore il futuro del nostro pianeta non rinunceranno alla lotta per un’azione climatica coraggiosa e capace di trasformare le cose. C’è una pressione che monta dalle strade ai più alti livelli di governo per assicurarsi più ambizioni ben prima di Cop26 a Glasgow, e oltre».

Immagine in anteprima via democracynow

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