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Il cambiamento climatico è anche una opportunità senza uguali di cooperazione fra i popoli

9 Gennaio 2024 11 min lettura

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Il cambiamento climatico è anche una opportunità senza uguali di cooperazione fra i popoli

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Se è vero che la Natura non ha bisogno dell’uomo, l’uomo ha certamente bisogno della Natura. Il mantenimento della biodiversità è cruciale per il nostro benessere e la nostra sopravvivenza. I servizi ecosistemici gratuiti che l’ambiente ci garantisce (come l’impollinazione delle piante, la stabilità del suolo, la rifrazione della radiazione solare dei ghiacci solo per citarne alcuni) non sono sostituibili da impianti artificiali.

Oggi stiamo andando incontro alla sesta estinzione di massa e l’uomo ne è la causa principale: è il  meteorite che sta abbattendo la diversità e l’abbondanza delle specie viventi e gli ecosistemi da esse abitati. Charles Darwin, padre nobile della teoria dell’evoluzione, è stato tra i primi pensatori ad accettare la realtà delle estinzioni come tratto fondamentale della storia della vita sulla Terra, considerazione non banale in un’epoca in cui dominavano concezioni della vita creazioniste ed essenzialiste (secondo cui gli esseri viventi sono immutabili).

Le estinzioni di massa per convenzione sono quelle in cui scompaiono il 75% o più delle specie viventi del Pianeta. Nella storia della vita sulla Terra ce ne sono state cinque di catastrofiche, le Big Five, e oggi se ne sta verificando una sesta che ripresenta alcune caratteristiche delle precedenti. Un elemento ricorrente in tutte, compresa l’ultima in corso, è il cambiamento climatico.

La storia evolutiva della nostra specie e di tutto il genere Homo è legata a doppia mandata con il clima. Le ondate di uscita dall’Africa verso la colonizzazione del globo, iniziate a partire da circa 2 milioni di anni fa, sono state ritmate dalle oscillazioni climatiche che hanno spinto gli ominini a migrare per cercare areali più vantaggiosi per l’insediamento. Dentro e fuori dall’Africa ci siamo inoltre sempre contraddistinti per una spiccata capacità di modificare l’ambiente circostante a nostro vantaggio, estraendo risorse naturali fino al loro esaurimento, per poi spostarci in zone più fertili.

Il processo ha un nome evolutivo: si chiama “costruzione di nicchia” e proprio Darwin ne aveva colto per primo l’importanza, tanto che nei suoi ultimi anni aveva dato alle stampe un volume dedicato ai vermi di terra e alla loro capacità di alterare l’acidità del suolo per adattarlo alle proprie esigenze di sopravvivenza. L’uomo ha portato agli estremi questo processo, fino ad abusarne.

A partire da almeno 10.000 anni fa questa strategia adattativa è diventata sistematica, metodica, con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento e di una civiltà meno nomade e più stanziale. Queste pratiche si sono evolute ulteriormente sul profilo culturale e sono state strutturate in istituzioni, che sono anch’esse evolute di pari passo con la crescita demografica e con la complessificazione delle relazioni sociali.

Se prima tramandavamo da una generazione all’altra le informazioni per costruire buoni strumenti di pietra, almeno dal Neolitico in poi abbiamo iniziato a tramandare le informazioni per costruire la nostra nicchia culturale e per continuare a plasmare a nostro piacimento l’ambiente circostante. A partire dalla Rivoluzione industriale dell’Ottocento, al processo di costruzione di nicchia si è accompagnato quello che dal punto di vista evolutivo è stato un successo senza pari: un’espansione demografica che da circa 1 miliardo ci ha fatto raggiungere in un paio di secoli gli 8 miliardi di abitanti. I costi del nostro successo sono stati però altrettanto stupefacenti.

Non era mai accaduto nella storia della Terra che una sola specie fosse la principale causa di un cambiamento climatico repentino (confrontato ai tempi geologici con cui altrimenti avverrebbe) e di un’estinzione di massa paragonabile alle cinque più grandi mai verificatesi. Dopo aver tratto vantaggio dai fattori che hanno causato la catastrofe stessa, l’uomo giunge infine a subirne gli effetti.

Ogni anno The Lancet, una tra le più autorevoli riviste medico-scientifiche al mondo, pubblica un rapporto che mostra come i bambini nati negli anni Venti di questo secolo avvertiranno direttamente sulla propria salute gli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’uomo: in termini di maggiore esposizione al rischio di incorrere in malattie la cui diffusione è favorita dall’innalzamento delle temperature, di aumento di eventi meteorologici estremi che causano fenomeni alluvionali, di siccità e carestie.

Come specie siamo stati formidabili a cooperare su scala globale per arrivare a provocare i cambiamenti climatici, ma non sembriamo altrettanto bravi a cooperare per limitarne ora gli effetti devastanti. In termini evoluzionistici Homo sapiens si è infilato in quella che gli ecologi chiamano una “trappola evolutiva”. Non riusciamo a fermare l’abbrivio di sfruttamento insostenibile delle risorse naturali che ci ha permesso di prosperare per secoli e millenni, ma che ora si sta rivelando la condanna della nostra civiltà.

La dinamica è ben nota in ambienti naturali che sono stati perturbati da agenti artificiali. Una rana per esempio, la raganella cubana, ha evoluto la capacità di predare insetti come lucciole che emanano segnali luminosi. Tale adattamento le ha consentito di sopravvivere in un ambiente in cui era disponibile questo genere di risorsa. La presenza umana, però, ha alterato l’habitat di quell’anfibio che, seguendo il proprio istinto predatorio affinatosi nel corso generazioni, oggi si  trova a tentare di ingoiare le luci di Natale che decorano giardini e balconi.

La raganella non sta facendo altro che continuare ad adottare il comportamento che le ha garantito il successo evolutivo, ma che ora, in condizioni ambientali mutate, può diventare la causa della sua rovina. Quello che era un adattamento è diventato un maladattamento. Se l’anfibio non sarà in grado di “accorgersi dell’errore” sarà destinato a non accaparrarsi cibo a sufficienza e arrestare la sua corsa evolutiva.

Per correggere un istinto predatorio frutto di anni e anni di evoluzione però ci vuole molto tempo. La perturbazione antropica degli habitat naturali invece avviene molto velocemente e le specie selvatiche non hanno il tempo, né fisiologico né evolutivo, di riadattarsi. È anche per questo che il destino di molte di loro è seriamente minacciato.

Altre specie sono cadute in questo genere di trappole evolutive. È il caso di un coleottero che vive in Australia: il maschio di Julodimorpha bakewelli tenta di accoppiarsi con bottiglie di birra che scambia per femmine della propria specie. Diverse specie di pesci e uccelli, invece, vedendo luccicare qualcosa in acqua, lo ingeriscono, riempendosi lo stomaco di plastica.

La dinamica ecologico-evolutiva cui stiamo andando incontro anche noi della specie Homo sapiens non è sostanzialmente diversa, con la differenza che non abbiamo agenti esterni da incolpare: la causa del nostro male siamo solo e soltanto noi stessi.

Per generazioni abbiamo tramandato le conoscenze che ci hanno permesso di rendere lo sfruttamento delle risorse un insieme di pratiche sempre più sofisticate, arrivando a quelli che possiamo considerare veri e propri adattamenti culturali. Assieme a un grado di cooperazione e socialità che pure non hanno eguali nel mondo naturale, questo è stato il segreto del nostro successo: evolutivo prima, economico e demografico poi.

Dopo l’Era del bronzo e quella del ferro, l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili ha segnato quella che alcuni chiamano l’Era del petrolio, che ha garantito nei secoli più recenti prosperità alla nostra specie. Da questa risorsa, però, siamo diventati culturalmente dipendenti e da questa dipendenza non riusciamo a uscire. Razionalmente lo sappiamo che dovremmo smettere, ma non ce la facciamo. Non diamo ascolto ai moniti che noi stessi ci diamo e, se scopriamo un nuovo giacimento di idrocarburi, invece di lasciarlo dov’è programmiamo il modo per prosciugarlo. Le condizioni ambientali sono mutate, noi stessi le abbiamo cambiate, e continuare a fare quello che abbiamo fatto negli ultimi secoli è ora un maladattamento.

Dobbiamo cambiare rotta, ma correggere quest’errore che ha radici evolutive profonde, sia biologiche sia culturali, non è affatto facile. Il nostro apparato cognitivo è abituato a ragionare sul “qui e ora”, in gergo viene chiamato “cortotermismo”: sa risolvere problemi circoscritti nel tempo e nello spazio e si trova in difficoltà a misurarsi con problemi intergenerazionali. Il cambiamento climatico è un oggetto di cui non vediamo i confini, di cui fatichiamo a comprendere le origini, che necessita di spiegazioni scientifiche specialistiche per essere compreso e affrontato. La nostra psicologia tende spontaneamente a rifiutare informazioni non conformi alle conoscenze e alle credenze pregresse (si parla di “pregiudizio di conferma”) e tendiamo a pesare in modo differente evidenze che si scontrano con le nostre convinzioni.

Proprio su queste naturali tendenze della nostra mente fanno leva narrative distorte che tentano di sminuire l’importanza del cambiamento climatico o la sua origine umana. Alla dimensione cognitiva delle nostre spontanee inclinazioni psicologiche, infatti, si somma la dimensione culturale del conflitto di interessi delle grandi compagnie petrolifere arroccate a difendere, con ogni mezzo (comunicativo, politico ed economico), gli enormi profitti che accumulano e che proprio nel 2022, anno della crisi energetica in cui i prezzi sono schizzati alle stelle, hanno raggiunto valori record. 

Le cinque più grandi al mondo (Exxon, Chevron, Shell, BP e TotalEnergies) solo in quell’anno hanno totalizzato quasi 200 miliardi di dollari. L’italiana Eni ha riportato più di 13 miliardi di euro (oltre 14 miliardi di dollari), ben 9 in più rispetto al 2021.

Queste e altre compagnie non stanno investendo a sufficienza nella conversione sostenibile del loro fruttuoso modello di business. Non sanno né vogliono adattarsi a un ambiente mutato, che loro stesse hanno stravolto. Il benessere di pochi oggi è il malessere di molti.

“Il capitalismo non porterà a termine la transizione energetica, né lo faranno le Big Oil”, ha scritto Derek Brower, ex caporedattore della sezione energia del Financial Times nella sua ultima newsletter Energy Source, a fine giugno 2023.

“C’è troppo da fare, e data l’urgenza e la necessità di trovare la soluzione giusta, non è un compito che può svolgere il vostro manager favorito specializzato su un portfolio di finanza sostenibile o i ragazzi delle Big tech. La scala delle infrastrutture che devono essere efficientate, demolite e rimpiazzate va quasi oltre la nostra comprensione. I governi, e non i fondi di investimento come Black Rock, dovranno finanziare la transizione nei Paesi in via di sviluppo: è stupefacente che quest’idea sia ancora dibattuta. […] Perché aspettarsi che ExxonMobil o Saudi Aramco guideranno (o anche solo sopravviveranno) a un cambiamento del loro modello di business basato sull’estrazione e la vendita di combustibili fossili? E voi volete davvero che lo facciano? Negli Stati Uniti l’amministrazione di Joe Biden ha implorato i trivellatori di pompare più petrolio, non meno; di liquefare più gas da esportare, non meno. I prezzi delle azioni di Shell e BP sono cresciuti da quando hanno detto che rallenteranno la loro uscita dal petrolio. Se vogliamo che le compagnie petrolifere smettano di vendere combustibili  fossili dovremmo consumarne di meno e dovremmo votare per governi che li rendano più costosi, non meno. […] O ignoriamo il consenso dei migliori scienziati al mondo e accettiamo un clima sempre più deteriorato o capovolgiamo un sistema energetico da migliaia di miliardi di dollari innalzato nel corso di decenni”.

L’umanità non si è mai misurata in precedenza con una sfida della portata del riscaldamento globale e della transizione ecologica che richiede per contrastarlo: occorre reinventare ingranaggi fondamentali su cui gira la nostra società e, con essi, le nostre abitudini. Oltre a vincere le nostre resistenze psicologiche individuali, dobbiamo rivedere assi portanti della nostra organizzazione sociale che, in quel gioco di trasferimento di informazioni, conoscenze e pratiche da una generazione all’altra che è la nostra Storia, possono essere chiamati in termini evoluzionistici adattamenti culturali.

Dobbiamo reindirizzare il nostro ingegno collettivo verso innovazioni tecnologiche mirate alla mitigazione del cambiamento climatico, introdurre nuove regole sociali che limitino, per esempio, il consumo di suolo per adattarci agli effetti inevitabili delle temperature più alte, delegare potere decisionale a organi anche sovranazionali che siano davvero in grado di governare la transizione ecologica.

Guidati da conoscenze validate, dobbiamo reindirizzare la nostra evoluzione culturale. Se da un lato il cambiamento climatico è un oggetto che il nostro sistema cognitivo fatica ad addomesticare, dall’altro è anche un’opportunità senza eguali di cooperazione tra popoli. Se guardiamo alla nostra storia evolutiva, infatti, siamo stati sì formidabili cooperatori, ma per lungo tempo lo siamo stati solo con coloro che consideravamo membri della nostra cerchia. Gruppi sociali diversi, invece, entravano in conflitto tra loro per accaparrarsi le risorse. Anche dopo l’avvento del commercio, con cui abbiamo iniziato a cooperare su più larga scala anche tra popoli lontani, la competizione e i conflitti con chi consideriamo nemico sono rimasti un tratto distintivo della nostra specie.

Oggi tutta l’umanità si trova a combattere un mostro che noi stessi abbiamo creato. Il cambiamento climatico è il nemico comune e reale contro cui tutti dovremmo coalizzarci, per il quale tutti dovremmo cooperare. Molti ancora però non lo vedono, o fanno finta di non vederlo.

La metafora bellica va sempre adottata con attenzione, ma è quella scelta anche dal climatologo Michael Mann, nel suo libro del 2021 Climate War, secondo cui i nemici della guerra per il clima sono tutti coloro che agiscono in difesa di interessi egoistici per ritardare la transizione ecologica, inquinando il dibattito pubblico e seminando dubbi sulla realtà del cambiamento climatico o sulle sue origini antropiche.

La filosofa e scienziata della Terra Naomi Oreskes, assieme al collega Eric Conway, li aveva chiamati 10 anni prima “mercanti di dubbi”. Tra le file di questo esercito, che Mann e altri combattono da oltre 40 anni, oggi bisogna guardarsi non tanto dai negazionsti climatici, che ormai sono una sparuta minoranza, ma soprattutto dagli inazionisti, ovvero coloro i quali adottano strategie di comunicazione e di lobbying per mantenere lo status quo, che coincide con gli interessi delle compagnie il cui business è incentrato sui combustibili fossili. Sono costoro che impediscono di disinnescare la trappola evolutiva in cui ci troviamo incastrati.

La guerra del clima si combatte in molti modi e in molte sedi, con la diplomazia, con l’attivismo, con le leggi, con i comportamenti individuali, ma anche con la buona informazione, per raggiungere più persone possibili e renderle partecipi della sfida epocale che tutti insieme dobbiamo affrontare.

Quella da combattere è sì una guerra, ma del tutto atipica, perché il cambiamento climatico non fa distinzione di colori politici o interessi particolari. Si vince solo se vincono tutti, se tutte le società cambiano e si impegnano a ridurre le emissioni, a proteggere gli ecosistemi e i servizi che forniscono a noi e alle generazioni future.

Le risorse minerarie necessarie alla transizione energetica non sono distribuite equamente in tutti i Paesi e ciascuno avrà bisogno di quelle custodite nel sottosuolo di qualcun altro. Per questo la cooperazione internazionale è un ingrediente imprescindibile nella transizione ecologica. Quella per il clima è quindi una guerra per la pace, l’occasione di entrare in sintonia con le esigenze di popoli lontani, come quelli delle isole oceaniche minacciate dall’innalzamento dei mari, quelle degli abitanti del Centro Asia assetati dalla crisi dell’acqua, quelle delle popolazioni indigene che vivono a contatto con l’80% della biodiversità del pianeta, quelle di tutti quei migranti climatici che dovranno lasciare la propria terra ormai inospitale.

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È un’opportunità di agire di concerto per migliorare le condizioni di tutti, di chi c’è e di chi verrà. È il momento di costruire il clima che vogliamo.

*Capitolo del libro “Il clima che vogliamo – ogni decimo di grado conta” a cura della redazione de Il Bo Live, disponibile in libreria e online.

Immagine in anteprima via Il Bo Live

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