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“Basta insulti al nostro paese”: quando la politica vuole imporre la linea a cinema e fiction

22 Gennaio 2023 13 min lettura

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“Basta insulti al nostro paese”: quando la politica vuole imporre la linea a cinema e fiction

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13 min lettura

di Andrea Turco e Mario Turco

Sono i primi giorni di dicembre 2022 quando Netflix lancia il trailer di Natale a tutti i costi, di Giovanni Bognetti, una delle tantissime pellicole a tema natalizio che hanno riempito le piattaforme streaming lo scorso mese. Da quei tre minuti di sintesi sembrerebbe la solita commedia: uno spunto elementare, un contesto familiare e un tono leggero. A chi potrebbe mai dar fastidio un film così innocuo? Invece basta la prima battuta dell’anticipazione a far andare in agitazione politici e associazioni di categoria. Anzi, ci sarebbe un’intera regione a essersi indignata.

Nel trailer si vede l’attore Claudio Colica, che interpreta nella pellicola il figlio di Christian De Sica, che gli versa un bicchiere di vino rosso sottolineando che si tratta di un vino che “ha vinto il riconoscimento di bottiglia dell’anno in Abruzzo”. Successivamente il giovane, come a cercare il consenso del padre, chiede “Com’è?” e De Sica prorompe “‘Na merda”. Si tratta di un meccanismo comico. il rovesciamento dell’atteso e della convenzione sociale, utilizzato  decine di volte dall’attore romano.

Ma questa volta c’è chi se la prende: è il caso del Consorzio tutela vini d’Abruzzo, con il presidente Alessandro Nicodemi che chiede di cambiare la battuta nel film perché “il cinema è cultura e va tutelato ma anche il lavoro dei viticoltori abruzzesi, che da decenni immettono sui mercati etichette tra le più premiate a livello nazionale e internazionale, merita di essere ben raccontato e non deriso o sminuito”. Dopo il Consorzio arriva pure il presidente della Regione Marco Marsilio che prima cita un celebre tormentone di Christian De Sica (“non sei stato delicatissimo”) e poi chiede all’attore “uno spot gratuito per i nostri vini, che lo meritano, così da lenire i sentimenti feriti dei nostri viticoltori e degli abruzzesi tutti”. Una richiesta immediatamente esaudita. Il frastuono è talmente alto che non solo torna a far riproporre domande ancestrali sui limiti della satira ma costringe Netflix e De Sica qualche giorno dopo, a Pescara, a spiegare la battuta e a giurare amore incondizionato verso la terra di Flaiano e D’Annunzio.

Per un “caso De Sica” che si risolve ce n’è un altro, invece, che resta aperto. Questa volta a manifestare la propria contrarietà è il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché vicepremier, Matteo Salvini.

Salvini prende di mira la serie The bad guy, trasmessa su Amazon Prime, in cui si racconta la storia di un magistrato siciliano che, dopo essere stato incastrato in una surreale vicenda giudiziaria, diventa addirittura un boss della mafia. Vale la pena ricordare che si tratta di un’opera di finzione, senza pretese di verosimiglianza, che gioca sul registro grottesco ed è volutamente ipertrofica nei toni, in un gioco citazionista che è stato apprezzato anche dalla stampa generalista (qui e qui alcuni recensioni). La scena contestata dal ministro Salvini, quella del crollo del Ponte di Messina da poco costruito, con le mafie ad aggiudicarsi l’appalto, oltre a essere uno snodo narrativo fondamentale è fondamentale per comprendere il tono di quella che è stata definita una “dark comedy”: senza di essa l’intera serie non avrebbe senso.

Ed è chiaro che per il segretario della Lega l’occasione costituisce il pretesto per rivendicare, e ancor prima ricordare, il ruolo di primo piano assunto (a seguito di vertiginosa retromarcia) nell’eterno ritorno dell’opera pubblica forse più discussa del Dopoguerra, un’infrastruttura Godot che è già costata più di un miliardo di euro e sulla quale, dunque, è difficile comprendere perché non si dovrebbe neppure ironizzare.

Perché, invece, la classe politica italiana sente la necessità di dover difendere a tutti i costi, è il caso di dirlo, l’immagine del paese? Lo fa per difendere in realtà se stessa? E perché le maggiori sollevazioni arrivano quando il cinema denuncia fenomeni atavici e interni alla classe politica come corruzione e infiltrazioni mafiose?

Polemiche che vengono da lontano

Ciò che avrebbe più indispettito Salvini della scena di The bad guy è il fatto che, nella finzione della serie, la costruzione del Ponte sullo Stretto sia realizzata dalle mafie (come se non possa essere un rischio reale). Pare di essere tornati indietro nel tempo, quando nel 2009 fu l’allora premier Silvio Berlusconi che si scagliò contro un altro prodotto seriale della tv italiana. “Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, giuro li strozzo" disse Berlusconi, intervenendo a un convegno organizzato dall'ENAC all'aeroporto di Olbia. 

In realtà, poi, non serve andare così lontano per trovare parallelismi e incroci. Ne sa qualcosa il giornalista e scrittore Roberto Saviano, accusato anch’egli di danneggiare l’immagine dell’Italia. Dopo essere stato già criticato dallo stesso Berlusconi (di nuovo insieme a La Piovra) per il bestseller Gomorra, pubblicato nel 2006 da Mondadori, analogo destino gli fu riservato soprattutto per la serie televisiva. Nel 2016, ad esempio, durante le riprese della seconda stagione, l’allora premier Matteo Renzi aveva auspicato di non lasciare che il racconto di Napoli “sia solo il set di Gomorra”. In realtà poi era stato lo stesso Renzi a chiarire che “diseducativa è la camorra, non Gomorra” e che “bisogna essere grati a Saviano per come ha raccontato la criminalità ma questo non esclude lo sforzo di mostrare anche quello che funziona al Sud". Nonostante ciò in un’intervista al Corriere di qualche giorno dopo Saviano aveva obiettato:

Qualcuno ha mai puntato il dito contro Martin Scorsese rinfacciandogli di aver diffamato New York con i suoi film di mafiosi? No. Per non parlare di House of cards, con un presidente degli Usa assassino. Chi ci accusa di diffamare non vede il servizio che attori, registi e sceneggiatori fanno alla nostra arte. Solo da noi il semplice racconto della realtà viaggia di pari passo all’accusa di esportare una cattiva immagine dell’Italia.

Il vizio della politica di indignarsi se l’immagine restituita dal comparto audiovisivo non corrisponde all’immagine che quella stessa classe politica vuole veicolare non è però soltanto trasversale a livello di partiti ma affonda le radici nella storia. 

Nel 2023 si celebreranno ad esempio i 60 anni del capolavoro (uno dei tanti) del regista Francesco Rosi, il potentissimo Le mani sulle città, che vinse il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e costituisce uno dei pochissimi casi per cui vale la pena scomodare l’altrimenti logora etichetta “ancora attuale”, dato che denuncia lo scempio edilizio e la corruzione della classe politica. Un film che per anni fu inviso all’intera Democrazia Cristiana che, a ragione, si rispecchiava nel caustico ritratto immortalato da Rosi, con l’immortale scena finale dei politici che invocano le “mani pulite”, espressione che tornerà, non a caso, nell’Italia di Tangentopoli. 

C’è però un altro modo con cui la classe politica italiana invade la sfera autoriale del circuito industriale dell’audiovisivo. Oltre a manifestare la propria contrarietà alle opere in maniera indiretta, utilizzando in maniera strumentale il “diritto di critica” per difendere e promuovere il proprio operato, con interventi che comunque restano estemporanei e slabbrati, c’è poi la strada preferita, quella diretta, che passa dal potere di scegliere se realizzare o meno un’opera, indirizzandone altrimenti le modalità. Una strada che passa nel primo caso dai finanziamenti al settore cinematografico e, nel secondo, dalla gestione territoriale delle Film Commission.

Il ruolo delle Film Commission

Dalla loro nascita avvenuta negli anni 90, le Film Commission hanno acquisito un ruolo sempre più preponderante. Una Film Commission è un ente amministrativo territoriale che attira le produzioni audiovisive sia accompagnandole da un punto di vista logistico/organizzativo - convenzioni con le strutture del luogo, semplificazione burocratica, contatti con maestranze e professionisti locali - sia elargendo finanziamenti diretti e/o tramite tax-credit. Nate sul modello delle AFCI losangeline già attive dagli anni ‘40, le Film Commission italiane si discostano subito dal modello statunitense per una partecipazione caratterizzata da un ruolo marginale di cittadini e associazioni no-profit a favore del ruolo guida che Regioni e le Province avocano a sé. Dopo una ventina d’anni di confusione normativa, soltanto sette anni fa la legge 14 novembre 2016, n. 220 – Disciplina del cinema e dell’audiovisivo (voluta dall'allora Ministro per i beni e le attività culturali Dario Franceschini) ha difatti dato un riconoscimento giuridico alla Film Commission definendola come l’istituzione "riconosciuta dalla Regione (o Provincia autonoma) che, con finalità di pubblico interesse, svolge attività di supporto e assistenza alle produzioni cinematografiche e audiovisive nazionali e internazionali sul proprio territorio".

Come ricorda anche Gianfranco Turano su L’Espresso, in un articolo che faceva il punto su alcune delle tante idiosincrasie generate da questa "politicizzazione" dell'industria dei sogni, le Film Commission

si sono diffuse in Italia dalla fine degli anni Novanta dopo che il fondo unico dello spettacolo (Fus) varato nel 1985 aveva iniziato ad aprire ai finanziamenti su base locale. Costituite come fondazioni, sono state affidate alle giunte regionali, di solito con la partecipazione volontaria dei comuni. Le prime ad aprire i battenti sono state Liguria e Piemonte, a cavallo del nuovo millennio. 

Attualmente le Film Commission italiane sono 20 e dopo un periodo di sostanziale autarchia si sono riunite nell’associazione Italian Film Commissions per sviluppare strategie sinergiche che permettano loro di essere ancora più incisive nella filiera dell’audiovisivo. Sul sito di Italian Film Commissions si legge infatti:

A sostegno dello sviluppo territoriale su scala globale, Italian Film Commissions si dedica al consolidamento dei rapporti con enti ed istituzioni nazionali e internazionali, sviluppa iniziative di sistema per la crescita e la promozione dell’Italia audiovisiva.  Italian Film Commissions favorisce la crescita della coproduzione internazionale e la realizzazione di partnership operative e di sviluppo. La promozione e la tutela della qualità dei servizi per le produzioni audiovisive, sono tra le finalità dell’Associazione, oltre al miglioramento operativo delle strutture associate con la realizzazione di iniziative formative e d’aggiornamento. 

Se da una parte la promozione e la tutela della qualità dei servizi si traduce in un indispensabile lavoro di coordinamento del territorio, dall’altra il rischio è che la bilancia penda troppo sul lato imprenditoriale. Già nel 2017 proprio l'ex presidentessa di Italian Film Commissions Stefania Ippoliti, in un’intervista al sito cinematografico Sentieri Selvaggi lanciava un avvertimento:

Parto da questo aspetto del nostro lavoro perché secondo me quello che a volte si sbaglia è pensare alle Film Commissions come degli erogatori sussidiari (e a volte neanche) di risorse. Trovo che questa sia una stortura, un’accezione sbagliata del nostro lavoro. E noi vorremmo superarla. Perché è importantissima la competizione fra territori, ma secondo noi si dovrebbe giocare tra l’aderenza e la rispondenza della storia, della parte autoriale, di quello che pensa il regista, il suo direttore della fotografia e il suo scenografo. E dovrebbe non brutalizzare e violentare la storia. [...]. Quello che mi dispiace è che a volte si cerca di girare in un posto invece che in un altro solo perché si ottengono maggiori fondi locali che, nelle produzioni italiane, hanno un rilievo molto alto. Le produzioni di taglia media sono quelle che hanno maggiore esigenza, per chiudere il loro budget (e in certi casi anche per aprire) delle risorse degli enti locali. 

Anche tra le righe di dichiarazioni auto-celebrative, la nuova presidente dell'associazione Cristina Priarone sottolineava nel 2020:

Il grosso lavoro che ha fatto Italian Film Commissions negli ultimi anni è stato quello di innescare un meccanismo virtuoso di unità tra le Film Commission, in passato caratterizzate anche da una forte concorrenza fra loro, valorizzando le specificità di ognuna ma in un’ottica di azione sinergica che permette di presentarsi in maniera più forte e riconoscibile nel contesto di un mercato del cinema e dell’audiovisivo sempre più globale e competitivo. 

Film competition

A dimostrare quanto la competizione aziendale tra enti che lavorano in cultura porti a un’inevitabile messa a profitto della specificità locali è però la dichiarazione, tra le tante simili che si possono sentire anche in maniera ufficiale tra gli addetti ai lavori, di Armando Trivellini, regista e consigliere direttivo di Air3 (Associazione Italiana Registi). Durante il suo intervento alla tavola rotonda No signal? Audiovisivo lombardo, una nuova film commission come motore del rilancio, organizzato dal raggruppamento Cinema e Audiovisivo di Cna Lombardia in collaborazione con le principali associazioni della filiera dell’audiovisivo proprio all'indomani dello scandalo Lombardia Film Commission, Trivellini aveva indicato come esempio di eccellenza la Friuli Film Commission con un ricordo fortemente indicativo della direzione auspicata e cercata da tanti politici: 

Arrivati in Friuli, la Film Commission ci ha portato in giro per tre giorni mostrandoci una miriade di posti e di aree diverse di quella regione. Ha pagato il nostro albergo e ha offerto una cifra ingente, tipo 140.000 euro, per invogliarci a girare lì. Perché l’ha fatto? Perché avrebbe portato una casa di produzione importante a investire soldi sul loro territorio, e perché avrebbe invogliato a rifarlo in futuro. Infatti in Friuli girano tutti, Salvatores, Tornatore… Ci siamo sentiti protetti, seguiti, invogliati ad andare lì. Tutte le altre regioni visitate, facevano a gara per averci. 

Il libero mercato delle regioni, insomma, che dovrebbero farsi una concorrenza spietata per accaparrarsi le grandi/medie produzioni che, a loro volta, pagherebbero dazio con qualche sky-cam mozzafiato sulle bellezze naturalistiche del luogo.Questa gara tra le Film Commissions a valorizzare per tornaconti elettorali i propri luoghi d’elezione come si traduce sullo schermo? Vi sono alcuni casi che più di altri rendono plastico il divario d’immaginario che viene mollemente perpetuato. Anche in questo caso sarà opportuno citare alcuni casi. In Belli ciao, di Gennaro Nunziante, i protagonisti Pio e Amedeo (per motivazioni di trama non particolarmente originali) fanno la spola tra Milano e Sant’Agata di Puglia. Se il capoluogo lombardo è caratterizzato, per esigenze comiche, in termini di grigia efficienza massmediatica il piccolo comune foggiano diventa l’archetipo della retorica (tossica) dei borghi: sole, case in pietra, scenari mozzafiato e accoglienza genuina tipica della bella gente del Sud. 

Tra i finanziatori di un lungometraggio che si preannunciava già in fase di ideazione come un probabile campione d’incassi data la presenza del famoso duo televisivo vi era stata la più attiva delle FC italiane: l’Apulia Film Commission che nel 2021 finanziò tra le 25 opere anche il film di Nunziante. Era proprio necessario investire soldi pubblici su un’opera che avrebbe visto la Regione come sicura ambientazione data la collocazione geografica della coppia di comici trash? E quante delle amene riprese a volo d’uccello sul pugno di case abbarbicate romanticamente in uno sperone di roccia sono dettate da esigenze di contestualizzazione? La Film Commission pugliese negli ultimi anni ha potuto certo far leva su uno stuolo di artisti riconoscibili a livello nazionale per innegabili meriti e allo stesso tempo legati al proprio territorio - il citato Michele Placido, Sergio Rubini e Checco Zalone tra i tanti - sapendo allo stesso tempo coltivare nuovi talenti come nel caso di Cobra non è, di Marco Russo, uscito per Prime Video e anch’esso rivelatosi uno spericolato noir in salsa salentina che dava ampio spazio alle location scelte. Ma la forza gravitazionale/produttiva di questo ente è stata così forte da convincere anche il trio Aldo, Giovanni e Giacomo con Odio l’estate a girare tra Otranto e San Pancrazio Salentino e perfino il più romanocentrico dei registi italiani viventi, Carlo Verdone, nel 2019 con Si vive una volta sola ha costretto i suoi quattro protagonisti capitolini a intraprendere un viaggio nel tacco dello Stivale. Se anche l’immaginario visivo può essere indirizzato dalla forza dell’intervento amministrativo, con le ovvie ricadute sul settore del turismo, questo squilibrio tra Regioni diventa ancora una volta indice di un interventismo politico che ha poco a che fare col mecenatismo.

O si fa il Made in Italy o si muore

Se il caso di Walter Veltroni, l’ex segretario del Partito Democratico che diventa regista di documentari, rappresenta un unicum che può al massimo incuriosire, il peso della politica nella settima arte si sente a partire dai suoi vert ici. Come per L’ANICA l’associazione di categoria che rappresenta le industrie italiane del cinema e dell’audiovisivo, il cui presidente è l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli.

Non è un caso che a un recente incontro con il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso da una lato la presenza di Rutelli, nel comunicato stampa del ministero, venga sottolineata quasi come un evento a sé, mentre dall’altra lo stesso ministero senta la necessità di sottolineare che “grande attenzione è stata data allo sviluppo della filiera cinematografica del Made in Italy sia come produzione che come attrazione di investimenti esteri”. 

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Come se fosse possibile avere un cinema italiano che non sia fatto in Italia. Tutto ciò lascia presupporre che la priorità della politica resti il controllo dell'immagine promozionale in un mondo, quello del cinema, in cui l'immagine significa quasi tutto. Perché il rischio concreto di fronte a questa politicizzazione perfino della più alta carica dell'industria dell'audiovisivo è che la bilancia della grande, media e piccola produzione penda troppo verso il cineturismo o il product placement dei territori che possono permettersi un tale investimento elettorale, a discapito di quelle realtà che non hanno bellezze paesaggistiche da proporre e restano ancora più escluse dal circuito massmediatico comune. Se i fratelli Lumière fossero due registi italiani del 2023, girerebbero probabilmente il loro corto non mostrando l'arrivo del treno alla stazione di Ciotat ma quello di una barca al tramonto nel porto dello splendido comune della Provenza. 

L'ultima e più clamorosa prova dell'immaginario che i politici hanno della cultura come opportunità propagandistica, più che ragionata pianificazione è  ITsArt, il fallimentare progetto voluto dall’ex ministro della Cultura Dario Franceschini. Neppure due anni di vita per quella che doveva essere la “Netflix della Cultura”, infelice definizione propugnata dallo stesso Franceschini. Nonostante le numerose critiche e avvisaglie arrivate da più parti, il ministero ha tirato dritto e a maggio 2021 ha creato una piattaforma digitale a pagamento dedicata a contenuti culturali e artistici. Ideata durante la fase del primo lockdown, ad aprile 2020, i tempi di realizzazione si sono prolungati enormemente e, come spesso accade, il pubblico ci ha messo i soldi, quasi 10 milioni di euro, attraverso la presenza di Cassa Depositi e Prestiti, l’istituto controllato dal ministero dell’Economia che gestiva la piattaforma al 51%. Così nessuno è rimasto sorpreso quando negli scorsi giorni il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha scelto di non finanziare nuovamente l’iniziativa. 

Il progetto, infatti, è stato sempre in perdita, con un numero di spettatori paganti inferiore a 200 mila persone. Il finale scontato ribadisce che la politica, nell'intervenire in un settore, dovrebbe costruire un vero dialogo con le maestranze che ne fanno parte,  e che avrebbero suggerimenti, consigli e visioni utili da donare.

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