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Il sogno italiano è un incubo: la storia della bidella pendolare

23 Gennaio 2023 6 min lettura

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Il sogno italiano è un incubo: la storia della bidella pendolare

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La settimana scorsa la stampa ha dato risalto a un articolo del Giorno in cui si raccontava la storia di Giuseppina Giugliano. Assunta come operatrice scolastica in un liceo artistico di Milano, per non esser costretta a pagare un appartamento, ogni giorno fa la pendolare da Napoli a Milano. Con il suo stipendio di 1165 euro al mese, infatti, sarebbe stato proibitivo per Giugliano prendere in affitto un appartamento a Milano, visti i prezzi della città. Ha quindi deciso di rimanere nella sua città, vivendo con i genitori, svegliandosi però alle 5:05 del mattino per prendere il treno che la porta fino al posto di lavoro. Sarebbero 200 gli euro risparmiati ogni mese con questa routine che stoicamente Giuseppina Giugliano sopporta. 

Una storia che ha fatto però sorgere più di un dubbio: a partire dal calcolo dei costi per l’abbonamento del treno Italo che ogni giorno, secondo la testimonianza de La Stampa, la porterebbe da Napoli a Milano e ritorno. Come fatto notare da Davide Maria de Luca su Domani, la cifra di 400 euro citata da Giuseppina Giugliano è bizzarra: si tratta di una linea tra le più lunghe coperte dall’alta velocità e anche non servendosi dell’abbonamento, ma sfruttando sconti e promozioni stagionali, il costo sarebbe comunque intorno agli 800 euro, ben lontani quindi dai 400 citati. 

A far fede c’è un’altra intervista, pubblicata ancora sul Giorno, questa volta alla professoressa Francesca Alparone che conferma la storia, aggiungendo che nella scuola si starebbero dando da fare per trovare un alloggio conveniente per l’operatrice scolastica; in seguito la stessa protagonista è tornata a parlare con la stampa su come la storia è stata recepita (Giugliano parla anche di offese e minacce ricevute). La veridicità o meno della storia, però, è solo uno degli aspetti di rilievo. La notizia, infatti, è una delle tante lette sui giornali nel corso di questi anni che sembra confermare una certa narrazione: quella del sogno italiano. 

Una sorta di sogno americano, dove il duro lavoro, la dedizione e i sacrifici portano poi a una ricompensa monetaria e non. Solo che, a differenza del sogno americano, quello italiano non dà necessariamente ricompense monetarie: il o la protagonista non arrivano a possedere una villetta a schiera con un rigoglioso giardino, una station wagon e un futuro radioso in grado di compensare le angherie subite in passato. Spesso la ricompensa è poca cosa, ma abbastanza in un paese come l’Italia: magari il riuscire a mettere via qualcosa, come l’operatrice scolastica pendolare, mentre si vive in famiglia. 

Il sogno italiano è l’incubo del lavoro povero 

Queste storie in cui individui comuni diventano simboli, attraverso i sacrifici che contribuiscono all’economia e in cambio forniscono una magra ricompensa, nascondono i drammi che affliggono il mondo del lavoro di questo paese. Non è infatti un segreto che il lavoro, in Italia, sia sempre più precarizzato, sempre più sottopagato e senza alcun avanzamento di carriera. 

I dati d’altronde sono incontrovertibili. Stando ai dati di novembre 2022, l’Italia presenta un tasso di disoccupazione del 7.8%, il terzo più alto in Europa dopo Grecia e Spagna; stessa situazione per il tasso di disoccupazione giovanile al 23% sempre terzi dopo Spagna e Grecia. I salari, anche togliendo la slavina subita ad inizio anni ‘90, sono cresciuti meno rispetto ai nostri partner europei di riferimento come Francia e Germania e l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie. Il lavoro quando c’è non è un buon lavoro, ma un lavoro precario, senza alcuna formazione o possibilità di carriera, privo di prospettive o di senso. 

Il lavoro da solo non basta: serve un buon lavoro

D’altronde secondo la relazione degli esperti del ministero del lavoro coordinata dall’economista Andrea Garnero in Italia circa il 25% dei lavoratori sono considerabili lavoratori poveri- con una retribuzione che è inferiore al 60% della retribuzione mediana, quindi nella coda sinistra della distribuzione- e il 10% verserebbe invece in condizioni di povertà. 

E mentre si rinvia continuamente l’approvazione di un salario minimo nel nostro paese, in quanto danneggerebbe la contrattazione collettiva e il sistema di relazioni industriali che ha contraddistinto il nostro paese, i contratti collettivi sono andati moltiplicandosi nel corso degli ultimi anni: dal 2012 al 2021 sono aumentati dell’80%, rispondendo non alla necessità di nuove tutele quanto a meccanismi di pressione su salari e condizioni lavorative, come fa notare Fulvio Fammoni della Fondazione Di Vittorio. 

Questa situazione è ovviamente frutto di una scelta politica: quella della flessibilità e dell’occupabilità. In un primo momento, come con il pacchetto Treu e la riforma Biagi, questa tendenza era dettata dallo zeitgeist degli anni ‘90, ma poi si è acuita: basti pensare al Jobs Act votato dal governo Renzi e i cui effetti taumaturgici sull’economia italiana stanno più nella propaganda del periodo che nella realtà, e che ha contribuito ancora di più a rendere precario il mondo del lavoro italiano con effetti negativi in particolare per le donne. 

 

Il risultato di questa stagione nel nostro paese è ormai colto anche dalla ricerca economica: giovani e donne danneggiati mentre le aziende continuano a fare profitti, potendo però competere sulle tutele e non sull’innovazione con conseguenti effetti negativi sull’innovazione e quindi la competitività del nostro tessuto economico. 

 

L’ascensore si è rotto

C’è un altro aspetto, strettamente collegato con quanto detto in precedenza, che si cela dietro la narrazione del sogno italiano: l’ascensore sociale in Italia si è rotto, e non solo nel nostro paese. 

Nella figura riportata in seguito è possibile osservare il Social Mobility Index dell’OECD in Europa, un indicatore che misura proprio la mobilità sociale. 

L’Italia si trova dietro ai suoi partner europei di riferimento, con valori più simili all’Europa dell’est che non a Francia e Spagna, figuriamoci i paesi nordici o la Germania. 

Questo significa, di fatto, che in Italia chi nasce povero rimane povero, chi nasce ricco rimane ricco. E questo ha delle conseguenze, dal punto di vista sociale, di non poco conto: secondo varie rilevazioni, infatti, i cittadini ritengono che le disuguaglianze siano giustificabili fino a quando si parte da una situazione di relativa uguaglianza, fornendo poi gli strumenti giusti per esprimersi e realizzarsi. Ciò porta poi a una disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e sono proprio questi fattori a trainare il consenso dei partiti populisti. Da qui la necessità di creare un alibi che è appunto il sogno italiano: non è vero che si parte svantaggiati, che le disuguaglianze incidono su quello che diventerai nella vita, no, è una questione di dedizione, sacrifici e duro lavoro. 

Quando invece la ricerca economica sembra, ancora una volta, dire il contrario: A fotografarlo fu, negli Stati Uniti, il compianto economista Alan Krueger. Consigliere di Obama, nel 2012 suggerì una relazione tra la mobilità sociale e le disuguaglianze. Questa relazione va sotto il nome di Curva del Grande Gatsby: all’aumentare delle disuguaglianze, la scala sociale si irrigidisce. E il nostro paese sembra andare proprio in questa direzione: il coefficiente di Gini, che misura proprio le disuguaglianze, è ancora una volta più elevato rispetto ai partner europei. 

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Per affrontare il problema delle disuguaglianze in Italia servirebbero non solo politiche come maggiori investimenti in istruzione e attenzione alle aree interne, ma anche politiche fiscali con lo spostamento della tassazione dal lavoro al capitale e misure per cambiare il tessuto economico italiano, favorendo ancora il lavoro rispetto alla rendita, come salario minimo e politica industriale. 

Non deve quindi sorprendere se una parte dell’informazione italiana, quella più legata ai poteri economici che spesso la gestiscono direttamente, spinge su questa narrazione del sogno: anche qui un problema mondiale che l’economista Julia Cagè ha recentemente affrontato in Salvare i media, proponendo un modello di informazione no-profit. 

Il sogno italiano infatti è l’alibi perfetto per addossare le colpe a una popolazione che vivrebbe di sussidi e assistenzialismo, due dei termini preferiti dai rappresentati di questa tendenza nel mondo politico ovvero gli esponenti della destra (tra cui il terzo polo). Proprio l’anti-eroe stacanovista, dal rider felice che guadagna più di quando faceva il commercialista (o meglio, il tirocinante) fino all’operatrice scolastica pendolare, è il simbolo di questa visione individualista della fatica come prerequisito del successo, visione costruita ad hoc per negare i limiti strutturali del sistema paese, cui si accompagna il filone dei giovani che non vogliono più sudare. Fa parte di questi limiti il fatto che storie di questo tipo si rivelino dubbie, o ingigantite, o date in pasto al pubblico senza chiari elementi di verifica.

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