È stato recentemente pubblicato uno studio dal titolo “The early phase of the COVID-19 outbreak in Lombardy, Italy”, che descrive i provvedimenti adottati e l'evoluzione dell'epidemia in Lombardia dal 20 febbraio all'8 marzo. Ciò che rende interessante questa pubblicazione, è che cinque tra i suoi autori sono parte della unità di crisi della Regione Lombardia. I tecnici di Attilio Fontana e Giulio Gallera si confrontano con i loro colleghi medici e scienziati nel luogo corretto, la pubblicazione scientifica. Lo studio mostra che l’epidemia lombarda è iniziata “molto prima” del 20 Febbraio, il primo caso di Codogno e questo è il vero motivo per cui non è stato possibile trovare il paziente zero. Secondo gli autori, la data di inizio dei sintomi potrebbe risalire al 14 gennaio, 36 giorni prima della scoperta del paziente uno, quando nel bel mezzo di un'epidemia globale si manifestavano casi atipici di polmonite. Ma in tutto questo arco di tempo, la catena di comunicazione di sorveglianza epidemiologica (Lombardy Notifiable Disease Surveillance System) non è riuscita a far pervenire queste informazioni dalla periferia alla Regione. Non sappiamo dove questo “telefono senza fili” si sia interrotto, scrive Michele Usuelli, medico di terapia intensiva neonatale all'ospedale Mangiagalli di Milano e consigliere regionale eletto nel gruppo di +Europa Radicali. Ciò può essere rivelato solo se medici ospedalieri e di medicina generale troveranno il coraggio di dire quando e quali segnalazioni furono fatte alla Regional Health System, Local Health Authorities (ATS, Agenzia di Tutela della Salute). Ciò serve non solo a identificare responsabilità, ma a rimediare subito per “rioliare” un meccanismo arrugginito da decenni di visione ospedalocentrica lombarda, e rimettere a sistema un servizio essenziale e indispensabile adesso e nella sorveglianza dei focolai futuri: medicina preventiva e sorveglianza epidemiologica. [Leggi l'articolo su Il Foglio]