In Cina, dove il SARS-CoV-2 è apparso per la prima volta lo scorso dicembre, sono state registrate meno di 5 mila morti, che corrispondono ad appena 3 morti per milione di abitanti. In Italia, Spagna e Regno Unito sono stati superati i 500 morti per milione di abitanti, negli Stati Uniti sono circa 300, in Germania 100. A cosa si debba questa disparità nella mortalità della COVID-19 è uno degli enigmi che i ricercatori di tutto il mondo stanno cercando di risolvere.
Trovare una risposta (o meglio, una serie di risposte) non è facile, come spiega un articolo pubblicato sul Washington Post. Molti paesi asiatici hanno reagito più velocemente rispetto all'Europa e agli Stati Uniti, ma i ricercatori non escludono anche altri fattori, come la genetica e le differenze nel sistema immunitario, la diversità culturale, la possibilità dell'esistenza di più ceppi del virus o i livelli di obesità e di salute in generale. Tutti questi fattori possono aver contribuito, ma probabilmente nessuno di questi preso singolarmente è sufficiente a spiegare la diversa mortalità tra paesi.
Partiamo dalla spiegazione più semplice: una risposta più rapida ed efficace. In parte, il motivo dell'elevato numero di decessi negli Stati Uniti e in Europa potrebbe risiedere in un'iniziale riluttanza del mondo Occidentale a reagire a un'epidemia che sembrava lontana e poco minacciosa. Al contrario, in Asia, le precedenti esperienze con le epidemie di SARS e MERS hanno consentito risposte molto più veloci alla nuova minaccia. Taiwan, per esempio, è stata ampiamente elogiata per la sua rapida reazione all'epidemia. Così come la Corea del Sud, che ha creato un vasto programma di test, tracciabilità e isolamento dei pazienti. Questo però non spiega il caso dell'India, un paese molto diverso, che ha registrato una mortalità molto bassa. Una situazione simile si è verificata in Pakistan o nelle Filippine.
In molti hanno pensato, soprattutto agli inizi dell'epidemia, che l'estate avrebbe spazzato via il virus. Sappiamo che non è così, però si pensa che il clima caldo e umido potrebbe essere stato d'aiuto in paesi come la Cambogia, il Vietnam e Singapore. Diversi studi hanno suggerito che, nonostante il calore e l'umidità non siano sufficienti a fermare la diffusione del virus, possono comunque rallentarla. Eppure in alcune regioni equatoriali con questo clima, come in Ecuador e in Brasile, i casi e le morti per COVID-19 sono elevati.
La demografia appare come un fattore importante: la popolazione africana, molto più giovane, potrebbe aver resistito meglio alla malattia rispetto alle popolazioni più anziane del nord Italia, per esempio. Per cui in Giappone, che ha la popolazione più anziana del pianeta, il basso tasso di mortalità sembra essere dovuto ad altre ragioni.
Si pensa che l'igiene e le abitudini sociali dei giapponesi (evitare le strette di mano e il contatto fisico o usare mascherine quando si è ammalati, per esempio) abbiano avuto un effetto positivo. Inoltre il sistema sanitario universale del paese fa della protezione degli anziani una delle sue priorità.
La possibilità di un nuovo ceppo del virus più contagioso e letale è un'ipotesi che va studiata. I dati clinici al momento sono troppo limitati per determinare se la letalità del virus sia cambiata in seguito a una mutazione. Gli esperti dicono che bisogna continuare a esaminare questa possibilità, ma avvisano che a oggi ancora non è chiaro.
Le differenza genetica è un altro fattore al vaglio dei ricercatori. Il medico-scienziato e immunologo giapponese Tasuku Honjo, premio Nobel per la medicina nel 2018, sostiene che europei e asiatici hanno enormi differenze nell'antigene leucocitario umano (HLA), che controlla la risposta del sistema immunitario ai virus. Gli scienziati presso la Chiba University ritengono che esista un'ampia gamma di fattori genetici che possano condizionare la risposta dell'organismo al coronavirus e che, sebbene allo stato attuale delle ricerche non esista alcuna evidenza, è importante studiare questa possibilità.
Anche la diversità dei sistemi immunitari può aver contribuito a una diversa mortalità geografica. Tatsuhiko Kodama dell'Università di Tokio riferisce che studi preliminari mostrano che il sistema immunitario dei giapponesi tende a reagire al SARS-CoV-2 come se fosse stato già esposto al virus in passato. Lo scienziato fa notare che l'Asia orientale per centinaia di anni è stato in contatto con diversi tipi coronavirus e che questa potrebbe essere una delle ragioni. Detto in altro modo, l'enigma del basso tasso di mortalità in Asia orientale potrebbe essere spiegato dalla presenza di un'immunità parziale tra la popolazione.
L'obesità è uno dei principali fattori di rischio per la COVID-19. Poco più del 4% dei giapponesi è classificato come obeso e meno del 5% dei sudcoreani. Ciò si confronta con il 20% o più nell'Europa occidentale e il 36% delle persone negli Stati Uniti, secondo dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.
La causa della disparità tra paesi quando si parla della mortalità della COVID-19 non è una sola, ma va cercata nella somma di tutte queste variabili. Inoltre, tutta la ricerca epidemiologica sul nuovo coronavirus deve fare i conti con dati incompleti: le conclusioni tratte guardando le cifre iniziali possono cambiare con l'emergere di nuovi dati, più accurati. Ci troviamo ancora nella fase iniziale della pandemia, secondo gli esperti, e per rispondere a quesiti scientifici di questo tipo occorre tempo e ricerca. [Leggi l’articolo sul Washington Post]