Tra il 7 e il 9 marzo, mentre l’epidemia di COVID-19 si diffondeva sempre di più in Italia e il governo si preparava al lockdown generale del paese, in più di venti carceri sono scoppiate sommosse e proteste, in alcune strutture particolarmente violente. Il bilancio è stato di 14 detenuti morti – secondo le autorità ufficialmente tutti per overdose, ma alle associazioni sono arrivate segnalazioni di violenze che saranno approfondite – e decine di feriti, tra cui alcuni anche tra gli agenti della polizia penitenziaria. A scatenare le tensioni, in larga parte, sono state la paura per il contagio a causa degli spazi ristretti e promiscui e la rabbia per le misure prese dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria per contenere il virus, tra cui la sospensione dei colloqui fisici con i familiari, dei permessi premio e del regime di semilibertà. «Un senso di esasperazione dovuta a molte cose: all’isolamento, alla poca informazione e al terrore della distanza dai propri cari», aveva spiegato poco dopo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone. «Come abbiamo paura noi fuori, hanno ancora più paura loro dentro». Già diversi giorni prima organizzazioni per i diritti umani ed esperti denunciavano la necessità per il governo di occuparsi dei rischi dell’emergenza sanitaria nelle carceri, tutelando il contatto con l’esterno attraverso un incremento di telefonate e video chiamate (cosa che poi è stata concessa) e riducendo la pressione sugli istituti penitenziari, dove il problema del persistente sovraffollamento rende difficile distanziamento sociale ed eventuale isolamento di eventuali contagi. Raccomandazioni che, insieme alla necessità di fornire una corretta e puntuale informazione ai detenuti, ricalcano quelle dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. [Leggi l'articolo su Valigia Blu]