Il futuro della sinistra dopo la caduta del governo Sanchez: uno sguardo oltre i confini spagnoli
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Nel weekend appena trascorso si sono tenute le elezioni locali in Spagna. L’esito è stato inequivocabile: la destra ha stravinto. Non solo a Madrid, dove Isabela Ayuso, nome di punta del Partito Popolare (PP) ha conquistato la maggioranza nel consiglio cittadino, ma anche in città che nel corso degli ultimi anni si erano spostate a sinistra, come Siviglia e Valencia. Non è andata meglio a Barcellona, dove a vincere sono stati gli indipendentisti. Per questo il presidente del Governo spagnolo, Pedro Sanchez, leader del Partito Socialista Operaio (PSOE), ha sciolto le camere portando il paese a elezioni anticipate, rispetto alla naturale scadenza della legislatura prevista per la fine dell’anno.
Perché la Spagna va ad elezioni
La mossa di Pedro Sanchez di sciogliere le camere non è del tutto inaspettata, viste le tensioni che hanno contraddistinto i vari partiti di maggioranza ancora prima dell’inizio di questo governo. D’altronde il rapporto difficile con la sinistra non è di certo un tema improvviso per Sanchez.
La storia comincia nel 2018, quando al governo c’era il Partito Popolare guidato da Mariano Rajoy. La maggioranza, nata debole e colpita da vari scandali di corruzione assieme alle critiche per la gestione del referendum indipendentista, non poteva essere sfiduciata senza che, nello stesso tempo, venisse proposto un altro governo: la famosa sfiducia costruttiva. Grazie a un sapiente lavoro dietro le quinte, Sanchez e il PSOE portarono dalla loro parte anche la coalizione Unidas Podemos (UP), formata da Podemos e da altri partiti di sinistra. Nonostante l’accordo raggiunto, il governo di Sanchez che si insedia è di minoranza, con soli ministri del PSOE. Presto, per via della maggioranza risicata in parlamento, Sanchez scioglie la camera per tornare alle urne nell’aprile del 2019, dove il PSOE diventa primo partito, senza avere la maggioranza. Non avendo trovato un accordo di nuovo con UP, il paese torna ancora una volta alle urne nel novembre del 2019: questa volta l’accordo si trova e nasce il governo Sanchez II, con il leader dell’alleanza UP, Pablo Iglesias, tra i vicepresidenti.
Ma la situazione, in seno alla sinistra, è molto tesa. Una situazione resa negli ultimi mesi ancora più insostenibile grazie al successo raccolto da Yolanda Diaz, ministra del lavoro e vicepresidente del governo Sanchez II, dopo le dimissioni di Pablo Iglesias. Nel 2022 infatti Diaz, dopo aver rifiutato le redini di UP da Iglesias, ha fondato Sumar, un movimento che vorrebbe funzionare da collante di tutte le sigle di sinistra aprendosi anche alla società civile. Oggi i sondaggi danno Sumar al 13%, doppiando quindi Podemos. Secondo la stampa, i dissidi tra Podemos e Sumar sarebbero niente meno che una battaglia di ego, tra l’ex leader di Podemos tutt’altro che assente, Iglesias, e la ministra del lavoro. Ma proprio Iglesias, in un’intervista rilasciata al giornale italiano Il Manifesto, sottolinea alcuni punti cruciali nel dissidio, tutt’altro che non riconciliabile, con la ministra del lavoro.
La speranza di Sanchez, che secondo le ultime indiscrezioni e i tweet sarebbe ben lontana dall’irrealizzabile, è di avere un polo di sinistra in grado di contrastare l’ondata di destra che spira nel paese. La situazione dipinta dai sondaggi, infatti, non è del tutto chiara: nonostante i consensi elevati, è difficile che il PP, il principale partito un tempo di centro-destra e oggi spostato su posizioni più radicali, possa raggiungere la maggioranza in parlamento. A dover fare da stampella sarebbe quindi il partito di estrema destra Vox: un partito in tutto e per tutto simile a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, compresi i legami con il passato infausto del paese.
La strategia quindi che sembra adottare Sanchez e, probabilmente, anche la coalizione di sinistra è quindi quella di uno scontro tra una sinistra progressista e una destra reazionaria troppo vicina a un passato autoritario. Un copione che abbiamo già visto nel nostro paese anche alle precedenti elezioni, quando la campagna elettorale del Partito Democratico era infatti basata sulla contrapposizione tra Letta e la coalizione di destra dipinta, appunto, come nemica della democrazia. Non è detto, però, che il risultato sia simile: non solo il governo di Sanchez ha dalla sua parte dei risultati ottimi da spendere in campagna elettorale, ma differentemente dal PD può vantare di non aver mai governato con i partiti che attacca.
Non solo: come scrive il giornalista spagnolo Aitor Hernández-Morales, la mossa di Sanchez può essere vista anche come un tentativo di evitare che, nei prossimi mesi, il dibattito pubblico sia dominato dai temi dell’estrema destra, sfruttando la debolezza del governo.
L’esperimento spagnolo e la sinistra
L’importanza però del governo spagnolo non si esaurisce entro i confini. L’esperimento di tenere insieme il centrosinistra e la sinistra radicale infatti ha attirato vari tentativi di emulazione: a partire, nel nostro paese, dai richiami proprio all’operato del governo spagnolo da parte sia di Elly Schlein durante la campagna per le primarie sia da parte di Enrico Letta durante la campagna elettorale. Un esempio al di fuori del nostro paese proviene dall’alleanza NUPES in Francia, dove le forze di sinistra hanno unito le forze alle elezioni legislative del 2022.
Questo va inserito in un contesto più ampio che, paradossalmente, trova proprio nell’esperienza politica del leader del PSOE Pedro Sanchez il suo esempio più paradigmatico. Quando Sanchez vinse le primarie del PSOE per la prima volta, il partito si trovava a fare i conti con la sconfitta alle urne per le elezioni legislative. Elezioni però che, nonostante la netta vittoria del PP, non avevano conferito al partito una maggioranza assoluta in parlamento. Sanchez era un leader giovane e dinamico che, per cercare di riportare il PSOE al governo, cercava l’appoggio del partito centrista Ciudadanos, guidato al tempo dal giovane Alberto Rivera, in quello che la stampa aveva ribattezzato accordo “mayonesa”. Non mancava poi la vicinanza con il leader del Partito Democratico del tempo, Matteo Renzi, che lo volle a Bologna per siglare quello che venne chiamato “patto del tortellino” e ricordato più per l’outfit che accomuna i leader della sinistra riformista europea lì riuniti che per i risultati ottenuti.
Il progetto di Sanchez però non va in porto e, dopo una performance non proprio brillante alle legislative, si dimette da leader del PSOE. L’establishment del partito, infatti, vorrebbe un’astensione sul governo Rajoy per far uscire la Spagna dall'impasse. Sanchez, però, corre da solo alle primarie e, a sorpresa, le vince. Nel 2018, come detto prima, arriva alla Moncloa, l’equivalente spagnolo di Palazzo Chigi, e - soprattutto con il suo secondo governo in cui la sinistra radicale vanta dei ministri - imprime alla Spagna una netta sterzata a sinistra.
Il caso più eclatante di questa sterzata a sinistra è proprio la legge sul lavoro, concordata con l’Europa, i sindacati e le imprese, fortemente voluta dalla ministra Diaz. Questa riforma, in netta controtendenza rispetto ai tentativi di incentivazione dei contratti a tempo indeterminato a cui siamo abituati in Italia, interviene rigidamente per limitare il ricorso ai contratti a tempo determinato. Come sottolinea la professoressa dell’Università di Barcellona Paola Lo Cascio, sono quattro i punti principali su cui è intervenuto il governo: recupero dei contratti collettivi rispetto a quelli d’impresa, rafforzando i sindacati; obbligo per le imprese di multiservizi di rispettare le condizioni del contratto collettivo del settore; estensione della cassa integrazione;e infine proprio il limite all’uso di contratti temporanei.
I dati mostrano che finora la riforma è stata un successo: nonostante, sia chiaro, non si possa parlare di effetti causali, si è assistito a un aumento dei contratti a tempo determinato e a un aumento dell’occupazione. Ma non è tutto: come fa notare il sociologo Paolo Gerbaudo, il governo ha anche varato una patrimoniale per chi possiede patrimoni superiori ai tre milioni di euro, aumentato il salario minimo, varato un’imposta sugli extra profitti. A questo si aggiunge una delle prime leggi per la tutela dei rider, la Ley rider. Interessante anche come il governo Sanchez non abbia visto alcuna contraddizione tra i diritti sociali e quelli civili: ha infatti passato importanti riforme per la difesa delle persone della comunità LGBTQI+ e l’eutanasia, in un paese a tradizione cattolica come la Spagna.
Questi provvedimenti, assieme alla scelta delle alleanze, configurano un primo tentativo pratico, da parte della sinistra, di andare oltre l’idea della Terza Via, che strizza invece l’occhio al centro. Le condizioni, d’altronde, non sono più quelle degli anni ‘90: il mercato non è più visto come il mezzo per portare prosperità e ricchezza, ma un meccanismo da regolare e su cui intervenire anche massicciamente. Gli elettori chiedono più protezione, sono scettici di narrazioni ottimiste sulla globalizzazione e anche la tassazione dei super ricchi non è più un tabù, visto il livello di disuguaglianze che caratterizza le economie occidentali. Su questo cambiamento radicale a cui stiamo assistendo anche la comunità economica è, in parte d’accordo, tanto che il network di economisti Economics for Inclusive Prosperity ha posto l’attenzione proprio su questi temi, proponendo poi il punto di vista degli accademici sulle varie proposte di policy di cui si discute.
Il percorso non è tutto rosa e fiori, anzi. E il problema viene proprio dalla sinistra, tesa in un’eterna litania che ricorda i governi dell’Ulivo e dell’Unione: la sinistra di lotta e di governo.
Infatti, Podemos nasce, a seguito delle proteste degli Indignados - come movimento “populista”- nel senso proprio del termine, tanto che tra i suoi fondatori vi sono esperti di Ernesto Laclau, uno dei massimi teorici del populismo. La sua permanenza al governo, come mostrano i sondaggi, non ha fatto altro che danneggiare un partito che aveva fatto della lotta la sua ragion d’essere.
Il discorso è ribaltato invece proprio per Yolanda Diaz e il suo nuovo movimento Sumar. Come spiega l’esperto Juanlu Sanchez, Diaz rappresenta un caso più unico che raro. A differenza di altri leader della sinistra radicale, non ha ottenuto la sua popolarità da lotte o da manifestazioni, ma dal suo operato come ministra. Tanto che il suo movimento può essere descritto proprio come una versione più istituzionale di Podemos.
Questi due anime, appunto, hanno visto varie frizioni in seno alla maggioranza e anche riguardo a una saldatura elettorale tra di loro. Il problema, non solo in Spagna, è se la sinistra radicale, attraverso una strategia di lotta, riuscirà una volta al potere a portare avanti, assieme al centro-sinistra, un programma ambizioso senza sgretolarsi.
Il futuro della Spagna e della sinistra
Riguardo alle elezioni imminenti, il risultato è tutt’altro che scritto: bisognerà capire come si muoveranno i partiti alla sinistra del PSOE, se riusciranno a formare un’alleanza e se il PSOE sarà in grado di mettere in risalto i traguardi raggiunti da questo governo. Una situazione favorevole per la coalizione è che, a differenza del resto d’Europa, l’estrema destra di Vox non gode del supporto della classe operaia spagnola. Secondo uno studio di tre scienziati politici, infatti, i sostenitori di Vox sono nella fascia alta di reddito, sono istruiti e solitamente giovani. Ovviamente giocheranno un ruolo chiave, come già la volta precedente, i movimenti regionalisti.
Ci sono però anche lezioni per la sinistra europea. La prima è che l’unità tra centro-sinistra e sinistra radicale è possibile, ma può essere estremamente deleteria per partiti più movimentisti. Ma quella decisamente più drammatica è che non basta avere un buon programma di governo - certo, aver dimostrato che è possibile governare da sinistra è già un inizio - per avere il vento in poppa nei sondaggi. La strada a sinistra può essere quella di una sterzata verso posizioni più redistributive ed egualitarie, ma “fare la sinistra” non è la soluzione che permetterà, da sola, di vincere le elezioni.