Trump, l’anti-eroe
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L’immagine di Donald Trump che nella sua lussuosa residenza a Mar-a-Lago dice: “Putin vuole che l’Ucraina abbia successo”, mentre Volodymyr Zelensky fatica a trattenere una risata davanti alle telecamere, non è una semplice gaffe, ma a una scena che in qualche modo conferma la fine di un’epoca. È il momento in cui l’America smette definitivamente di assomigliare ai film che ci hanno venduto per decenni l’idea del suo ruolo di baluardo del mondo libero e dell’inquilino della Casa Bianca come incarnazione di una guida innanzitutto morale.
Perché nell’America dell’immaginario collettivo, il presidente eroe della storia non mente per favorire chi minaccia l’ordine, le regole e la libertà. Non incontra aggressori se non per affrontarli a viso aperto, non stende davanti a loro tappeti rossi o si lascia sfuggire applausi troppo imbarazzanti persino per essere conservati nei filmati ufficiali, non confonde vittime e carnefici, non ammicca a qualcuno che quotidianamente compie stragi, in cambio di frasi lusinghiere ed anzi rifiuta di unirsi all'assassino nel compiere crimini. Il Presidente dei film guarda dritto in camera, sale su un podio improvvisato nello studio ovale, in una base militare o tra le macerie di una città distrutta e si rivolge direttamente al suo popolo parlando di valori, di libertà, di opportunità e di un mondo nel quale c’è spazio, pace e diritti per tutti.
Trump è l’anti-eroe perfetto, ma senza il fascino del “bad boy”. È semplicemente l’opposto sistematico di ogni presidente cinematografico che ha costruito il mito americano: non è Jed Bartlet di West Wing, che inciampa sulle parole ma mai sui valori; non è il presidente di Air Force One, che combatte i terroristi per difendere la dignità di un’intera nazione. Difficile non fare un paragone con Thomas Whitmore, il Presidente di Independence Day che sale su un jet, lanciandosi contro le astronavi nemiche, mentre Trump rappresenta se stesso su un aereo che scarica letame su una folla di suoi connazionali che semplicemente lo contesta. Perché l’obiettivo non è quello di difendere un’idea di mondo, ma se stesso, il proprio brand, la propria insofferenza per le regole.
La frase su Putin, in questo senso, non è dunque un incidente di percorso, ma piuttosto un riflesso condizionato. E si avvale della stessa logica che lo ha portato a definire “geniale” l’uomo che stava invadendo l’Ucraina, a relativizzare l’assalto al Congresso come una “protesta un po’ accesa”, a trattare le istituzioni come un ostacolo burocratico tra lui e la sua narrazione. In Trump non c’è l’eroe riluttante che si sobbarca il peso della responsabilità, che incarna il coraggio necessario a salvare il mondo. C’è il protagonista che pretende applausi anche quando non ha meriti, ed anzi è lui stesso corresponsabile delle macerie che sceglie come palcoscenico.
Ed è qui che la distanza si fa abissale. Il presidente dei film americani sbaglia, soffre, dubita, ma alla fine sceglie. Trump semmai galleggia, fiuta l’aria, misura il pubblico, annusa l’opportunità, si contraddice se serve allo scopo, che non è quello di costruire un futuro migliore per tutti, ma solo le condizioni per ottenere vantaggi personali o una pubblica ed immeritata acclamazione.
A lungo l’America si è concentrata sulla sua natura criminale, la quale emerge da processi, condanne e inchieste come un rumore di fondo costante. Ma ora osserva attonita l’incoerenza di un uomo che piega la politica a mero strumento per appagare il proprio ego, mentre il mondo cerca di porre rimedio ad una mediocrità morale, che è molto più corrosiva e dannosa per gli stessi equilibri che hanno consentito negli ultimi 80 anni la costruzione di valori basati - pur con tutti i limiti e le imperfezioni - sullo Stato di diritto. Trump ha sdoganato l’idea che la bussola morale possa essere rimpiazzata con un radar per il consenso immediato.
La risata di Zelensky in questo senso è più potente di qualsiasi editoriale. Perché, superata l’incredulità la quale era forse legittima ai tempi dello scontro nello studio ovale, certifica la consapevolezza di avere davanti non il rappresentante di una superpotenza responsabile e dedita alla difesa di un ordine, un principio, una storia, ma solo un personaggio alla spasmodica ricerca di un’approvazione per la quale possono essere sacrificate intere nazioni. Un uomo contraddittorio, volgare, sguaiato, inopportuno e impegnato (senza successo) ad evitare che il suo pubblico possa comprendere la differenza tra realtà e storytelling.
In questo passaggio sta forse il vero trauma culturale che Trump ha inflitto all’Occidente: non ha distrutto il mito americano con un atto di forza, ma lo ha svuotato di senso. Non ha sostituito l’eroe con un cattivo memorabile, ma con qualcosa di peggio: un protagonista cialtrone, opportunista, che ha costruito la propria fortuna su truffe, fallimenti, amicizie discutibili, spregiudicatezza. Il peggior travisamento possibile anche del sogno americano del “self made man”.
Hollywood ci aveva illusi che, nel momento decisivo, il presidente degli Stati Uniti avrebbe saputo cosa dire. Trump ci ha insegnato l’esatto contrario, e cioè che anche l’ufficio più potente del mondo può finire occupato da qualcuno che non capisce nemmeno la trama del film in cui recita.
Immagine in anteprima: frame video Adnkronos via YouTube







