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Willy Monteiro Duarte e la terribile normalità di una morte

9 Settembre 2020 5 min lettura

Willy Monteiro Duarte e la terribile normalità di una morte

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L’uccisione di Willy Monteiro Duarte, avvenuta a Colleferro (in provincia di Roma), ha molteplici aspetti che fanno rabbrividire, indignare, o infuriare. Il primo pensiero che incendia la nostra coscienza grida qualcosa come "non si può morire così", ma subito è gelato dalla constatazione che invece sì, purtroppo accade.

Il 21enne di origini capoverdiane è stato ucciso in una rissa tra la notte del 5 e del 6 settembre. Secondo quanto riportato a Fanpage da un testimone, i quattro accusati – i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli – avrebbero prima partecipato a una rissa dentro a un locale. Poi, dopo essere scappati, in un secondo momento avrebbero iniziato a sfogarsi aggredendo le persone in piazza. Willy Monteiro Duarte sarebbe intervenuto per sedare gli animi, a difesa di un amico preso di mira, e a questo punto il gruppo si sarebbe avventato su di lui, fino a ucciderlo. Come riportato da alcuni siti, tra cui il Corriere della Sera, alcuni degli accusati avrebbero dei precedenti per spaccio e rissa.

La sproporzione fisica tra la vittima e gli accusati - i fratelli Bianchi frequentano una palestra di arti marziali miste - la dinamica da linciaggio del branco e il colore della pelle della vittima hanno fatto inizialmente pensare all’odio razziale, a un background da militanti neofascisti. Allo stato attuale mancano però elementi certi a sostegno di entrambe le ipotesi, perciò è più opportuno essere cauti nei giudizi: ciò che rabbia, indignazione ed esperienza trovano lampante non sempre corrisponde al disegno complessivo di una storia tragica che si dipana nel tempo. Inoltre certe analisi dettate dall'impeto rischiano di essere impugnate proprio da chi ha bisogno di banalizzare fenomeni come razzismo e neofascismo, per meglio dissimularli mentre li cavalca.

Tuttavia bisogna anche essere realisti: se a Colleferro un gruppo di neri palestrati avesse ucciso un giovane ed esile bianco, oggi leggeremmo editoriali infuocati contro il multiculturalismo, apologie leghiste dei porti chiusi, e tutto quel repertorio di rito che fa produrre dopamina ai social media manager. Invece, in un paese malato di polarizzazione, ci tocca leggere la variante magnanima di questa dinamica, che vuole la famiglia di Willy “perfettamente integrata”. Gente “come noi”, solo con la “pelle d’ebano”, pure se la vittima era nata e cresciuta in Italia.

Come sottolineato su Facebook dalla giornalista Annalisa Camilli:

Non sarebbe meno grave quello che è successo a Colleferro se fosse stato ucciso un marginale, un irregolare, uno straniero. Continuiamo a rappresentare come alieno tutto quello che è violento, con il risultato di allontanarci dalla comprensione della realtà.

Questo sguardo alieno ha caratterizzato infatti molte analisi d’impronta, superficiali nella sostanza, al limite del delirante. È un grottesco copione, nei casi di cronaca nera, quello che vuole indicarci i veri colpevoli. L’assassino non è mai il maggiordomo: a volte sono i videogiochi, a volte la musica trap e i suoi testi - ricordate la strage di Corinaldo? A Colleferro, come suggerito per esempio dal direttore della Stampa, Massimo Giannini, è stata colpa della arti marziali miste e delle relative palestre.

All’opposto dello sguardo alieno, c’è quello assolutorio, che simpatizza con gli accusati, in particolare quando sono maschi e bianchi. Il Corriere, nella giornata di martedì, è stato criticato per un tweet in cui descriveva uno degli accusati, Gabriele Bianchi, come un “giovanotto sveglio e concreto”, che s’era dato al mestiere di fruttivendolo, inventandosi una “seconda vita meno bellicosa”. Un lancio preso dal contenuto dell’articolo, poi maldestramente corretto aggiungendo uno "spregiudicato". Si potrebbe continuare ancora la carrellata grottesca, ma alla fine sarebbe un esercizio fine a se stesso.

Eppure la zona non è nuova simili fatti delittuosi. Nella vicina Alatri, nel 2017 Emanuele Morganti fu prima braccato e poi ucciso a calci e pugni, dopo una lite. Una morte per cui sul finire del 2019 sono arrivate tre condanne per omicidio preterintenzionale e un'assoluzione. Per una volta si potrebbe smettere di trattare la cronaca nera come un ferro da battere caldo per foggiare meglio una narrazione d’impatto, attingendo a simbolismi d’accatto per risparmiare.

Come scrive Giuliano Santoro sul Manifesto, la Valle di Sacco, di cui fanno parte Colleferro e Alatri, è un “territorio che rischia di cedere alle droghe e al gangsterismo come modello di sviluppo alternativo alla fabbrica”. Dove la criminalità trova una cultura di riferimento nel mascolino culto della forza, nel cameratismo, nella territorialità da difendere, da vivere come feudo. Nel sentirsi soldati mai in congedo in una provincia che, sia quando ristagna sia quando declina, sembra sempre uguale a sé stessa. Come inoltre spiegato all’Agenzia Dire da Mino Massimei, presidente del Circolo Arci di Artena (borgo dove sono cresciuti i fratelli Bianchi):

Per un ragazzo qui ad Artena è più facile intraprendere un’attività di spaccio, anche piccola, che tentare un tirocinio formativo o un primo contratto di lavoro subordinato, perché tra l’altro si guadagna di più. Poi un segmento di popolazione giovanile è affascinato dalla vecchia criminalità di 50-60enni e da un immaginario legato al culto della forza.

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I riflettori non dovrebbero accendersi solo per illuminare la terribile normalità di una morte così violenta, dolorosamente futile nelle motivazioni. Né restare puntati quanto basta per veder sfilare la bara, e constatare il bel gesto di un presidente di Regione che decide di pagare i funerali – o sorbirsi l’esibita speranza che i colpevoli marciscano in carcere. La politica deve arrivare molto prima della cronaca, e non lasciare tutto il peso sugli amministratori locali, sulle associazioni che promuovono cultura come unico argine.

Anche perché, stando ai primi interrogatori, i fratelli Bianchi hanno dichiarato di non aver toccato la vittima. Anzi, di essere intervenuti per sedare la rissa in cui poi è morto Willy. Se queste dichiarazioni fanno parte di una precisa strategia difensiva, l'apporto dei testimoni rischia di diventare fondamentale per accertare la verità in sede processuale. Ma questo significa che le persone della zona potrebbero risentire di un clima di paura, intimidazioni od omertà. E quando i riflettori si rivolgono altrove, quando la vita di provincia torna a chiudersi su di sé, diventa molto più facile scegliere il silenzio, pur avendo la possibilità di fare la differenza. Perciò questa storia rischia di restare stritolata tra i condizionali imposti dallo Stato di diritto e l'impassibile indicativo con cui parlano violenza e morte. E indignarci, mentre scegliamo il verso giusto per esibire le nostre etichette morali, non cambierà di un millimetro la situazione.

Immagine anteprima via cronachecittadine.it

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