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Scandalo Weinstein: ex spie e giornalisti pagati dal produttore per fermare le inchieste

8 Novembre 2017 11 min lettura

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Scandalo Weinstein: ex spie e giornalisti pagati dal produttore per fermare le inchieste

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Tra i maggiori interrogativi che ruotano attorno allo scandalo che ha coinvolto Harvey Weinstein ci sono quelli riguardanti il silenzio che ha avvolto questa storia per trent’anni. Com’è possibile che le accuse non sono emerse prima? Perché i media non ne hanno parlato? Perché le donne hanno taciuto per così tanto tempo?

Qualche giorno fa il giornalista autore dello scoop sul produttore di Hollywood uscito sul New Yorker, Ronan Farrow, ha dichiarato al Late Show di Stephen Colbert che su questo punto “c’è ancora molto da dire”, annunciando di essere al lavoro su una nuova parte dell’inchiesta.

L’articolo in questione – "L'esercito di spie di Harvey Weinstein" – è stato pubblicato il 6 novembre sul New Yorker, e racconta l'operazione messa in piedi da Weinstein per tentare di affossare le incriminazioni nei suoi confronti.

https://twitter.com/RonanFarrow/status/927680764115898371

Stando all’inchiesta di Farrow, basata su “decine di pagine di documenti e sette persone direttamente coinvolte”, il produttore di Hollywood avrebbe iniziato a preoccuparsi delle voci che da anni circolavano sul suo conto nell’autunno del 2016. Per questo avrebbe contattato due società di intelligence private, la Kroll (“una delle più grandi del mondo”) e la Black Cube (“gestita in larga parte da ex agenti del Mossad e di altre agenzie d’intelligence israeliane”) con l’obiettivo di “fermare la pubblicazione delle accuse (...) che poi sarebbero emerse con gli articoli del New York Times e del New Yorker.

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In un anno, secondo l'articolo, il produttore ha dato mandato di monitorare decine di persone, ottenuto informazioni attraverso agenti sotto copertura che hanno incontrato e ingannato attrici e giornalisti, incaricato reporter di investigare su donne che l’avrebbero accusato e coinvolto, anche ex impiegati delle sue imprese cinematografiche in raccolte di nominativi e telefonate.

Farrow sostiene che sia stato Weinstein in persona a monitorare l’andamento delle sue indagini. Per la portavoce del produttore, Sallie Hofmeister, però, queste ipotesi sarebbero solo una “finzione”.

Gli incontri degli agenti sotto copertura

Secondo l’inchiesta del New Yorker, l’attrice Rose McGowan sarebbe stata raggirata e monitorata per mesi da un’agente sotto copertura della Black Cube che si era finta interessata al suo impegno per i diritti delle donne.

Lo scorso maggio McGowan ha ricevuto una mail da parte di un certa Diana Filip, che diceva di lavorare alla Reuben Capital Partners, una ditta di investimenti con sede a Londra, e di volerla coinvolgere nel lancio di un’iniziativa per combattere le discriminazioni contro le donne sul posto di lavoro. Nel corso dei mesi seguenti le due donne si sono incontrate almeno quattro volte, tra Los Angeles, New York e altri luoghi. “Era molto gentile”, ha detto McGowan, che ha raccontato di aver avuto diverse conversazioni telefoniche con Filip, che disponeva di un numero di cellulare inglese e parlava con “accento tedesco”.

https://twitter.com/RonanFarrow/status/927698523306516482

Lo scorso luglio l’attrice ha rivelato a Filip di aver parlato con Farrow in relazione all’inchiesta del New Yorker su Weinstein. Una settimana dopo, il giornalista ha ricevuto una mail da Filip, che gli chiedeva un incontro per coinvolgerlo in una campagna contro la violenza sulle donne. “Non sapendo chi fosse, non ho risposto”, scrive Farrow.

In un altro colloquio con McGowan avvenuto a settembre, Filip si è presentata con un altro agente della Black Cube, che ha dichiarato di chiamarsi Paul e di essere anche lui dipendente della Reuben Capital Partners. Stando a due fonti consultate da Farrow, l’obiettivo era quello di “passare McGowan a un altro agente in modo da ottenere più informazioni”.

Filip, però, non ha mollato la presa. Dopo la pubblicazione lo scorso 10 ottobre dell’articolo sullo scandalo Weinstein sul New Yorker, ad esempio, ha mandato una mail all’attrice: “Ciao tesoro, come ti senti? Volevo solo sapessi che penso che tu sia stata molto coraggiosa”. A questa sono seguite altre mail, fino al 23 ottobre.

Farrow spiega che “Diana Filip” era un nome falso utilizzato da un’ex agente dell’esercito israeliano, originaria dell’Europa dell est e adesso in forze alla Black Cube. “Quando ho mandato a McGowan le foto dell’agente della Black Cube, l’ha riconosciuta immediatamente”, scrive il giornalista.

La stessa donna è stata riconosciuta anche da Ben Wallace, un giornalista del New York che stava lavorando a un articolo sul caso Weinstein. Il reporter e l’agente si sono incontrati due volte nell'autunno del 2016: lei aveva detto di chiamarsi Anna e l’aveva contattato sostenendo di avere delle accuse contro il produttore. Il fatto che la donna fosse a conoscenza del suo interesse al caso Weinstein aveva per la verità insospettito Wallace, la cui attività di investigazione sulla storia era iniziata solo da un mese e mezzo. Inoltre, più che aiutarlo, Anna sembrava volergli estorcere informazioni riguardo la sua inchiesta e le altre donne che avrebbe intervistato. Quando raccontava della sua esperienza con Weinstein, invece, la donna “aveva una recitazione da soap-opera”. Durante uno degli incontri, inoltre, Wallace ha avuto la netta sensazione che Anna stesse registrando la conversazione. Oltre a lui e al reporter del New York, secondo Farrow, almeno un altro giornalista sarebbe stato contattato dall'agente.

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Le tracce di “Diana Filip”, comunque, sembrano essere scomparse: il numero di cellulare inglese risulta inattivo; il telefono della Reuben Capital Partners squilla a vuoto e il sito non è più online; mentre la società che affitta spazi di co-working indicata come indirizzo ha dichiarato di non aver mai sentito parlare dell’azienda. Farrow scrive che due fonti ben informate gli hanno riferito che la Black Cube è solita creare società fittizie per fornire copertura ai suoi agenti – e che Filip era una di questi.

Black Cube non ha voluto commentare per ragioni di “politica aziendale”, ma ha affermato di agire sempre nel rispetto di “alti standard morali” e “della legge di ogni giurisdizione dove ha operato”.

Il coinvolgimento dei legali di Weinstein

L’articolo di Farrow parla anche del ruolo dei legali di Weinstein e in particolare di David Boies, un avvocato famoso per aver assistito Al Gore dopo le elezioni presidenziali del 2000. Secondo il New Yorker, il legale lo scorso luglio ha firmato uno dei contratti con cui si incaricava la Black Cube di “fornire intelligence che aiuterà gli sforzi del cliente [Weinstein] nel fermare la pubblicazione di un articolo negativo su un importante giornale di New York” e “ottenere notizie sul contenuto di un libro in lavorazione che include informazioni dannose sul cliente”.

https://twitter.com/RonanFarrow/status/927707434528989184

Stando a tre fonti consultate da Farrow, l’articolo in questione era quello che sarebbe stato poi pubblicato il 5 ottobre sul New York Times (in quel periodo tra l’altro assistito da Boies per un’altra questione); mentre il libro era Brave, una raccolta di memorie dell’attrice Rose McGowan, la cui pubblicazione è fissata per gennaio. “I documenti mostrano come, alla fine, l’agenzia abbia fornito a Weinstein più di cento pagine di trascrizioni e descrizioni del libro, basate su decine di ore di conversazioni registrate tra McGowan e l’agente privato”, scrive Farrow. Questa circostanza è stata smentita dalla portavoce di Weinstein.

Nel contratto firmato a luglio tra lo studio di Boise e la Black Cube, inoltre, erano previsti compensi aggiuntivi per l’agenzia nel caso in cui questa fosse riuscita a fornire “intelligence capace di contribuire direttamente agli sforzi di fermare la pubblicazione dell’articolo in ogni forma”; nonché se si fosse procurata l’altra metà del libro di McGowan in “un formato leggibile e legalmente ammissibile”.

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Lo stesso contratto, prosegue Farrow, “mostra anche alcune delle tecniche utilizzate dalla Black Cube”. L’agenzia, ad esempio, aveva promesso “un team dedicato di agenti esperti che avrebbero operato negli USA e in ogni altro paese necessario”, inclusi anche degli “Avatar Operators”, ossia persone assunte specificatamente per creare false identità sui social. Black Cube avrebbe anche fornito “un’agente full time di nome ‘Anna’, di base a New York e Los Angeles” pronta a seguire le istruzioni del cliente e disponibile per assistere lui e i suoi avvocati “nei prossimi quattro mesi”.

Il fatto che i rapporti con le agenzie private di investigazione fossero spesso tenuti da studi legali, spiega l’articolo, era un vantaggio, perché il segreto professionale tra cliente e avvocato protegge questo tipo di operazioni, ed evita che se ne possa parlare in un tribunale. Boise ha confermato che il suo studio ha concluso contratti e pagato le società di intelligence, ma ha specificato di non aver diretto il lavoro degli agenti. L’avvocato ha anche aggiunto di aver avvertito Weinstein dell’impossibilità di bloccare l’articolo e che, in ogni caso, a posteriori ritiene il suo coinvolgimento nell’operazione “un errore”.

I giornalisti assunti per ottenere informazioni

Nell’accordo con la Black Cube era anche prevista l’assunzione di un giornalista investigativo, che avrebbe condotto dieci interviste al mese per quattro mesi per conto del cliente per un compenso di 40 mila dollari.

Farrow racconta che lo scorso gennaio un giornalista freelance si era messo in contatto con Rose McGowan e aveva avuto con lei “una lunga conversazione, registrata senza dirglielo”. Almeno altre due donne sarebbero state in seguito contattate dal reporter, tra cui anche l’attrice Annabella Sciorra (che successivamente ha raccontato al New Yorker di essere stata stuprata da Weinstein), la quale ha detto di aver trovato sin da subito la conversazione “sospetta”: “Mi spaventava che Harvey stesse testando la mia volontà di parlare”. Il giornalista freelance avrebbe inoltre telefonato anche a Wallace del New York, e avrebbe “ricevuto dalla Black Cube informazioni per contattare attrici, giornalisti e rivali in affari di Weinstein”; compito dell’agenzia, invece, era passare i “riassunti di queste interviste agli avvocati” del produttore.

Il giornalista in questione ha spiegato anonimamente a Farrow di aver lavorato per conto suo a un articolo su Weinstein, usando informazioni dategli dalla Black Cube, e ha negato di aver ricevuto denaro dall’agenzia o dal produttore.

Stando al New Yorker, comunque, Weinstein ha “arruolato altri giornalisti per ottenere informazioni che avrebbe potuto utilizzare per indebolire donne che avevano accuse contro di lui”.

Farrow scrive che nel dicembre 2016, ad esempio, Dylan Howard, responsabile dei contenuti di American Media Inc., aveva avvisato Weinstein del materiale raccolto da uno dei suoi reporter. Il gesto, secondo il New Yorker, sarebbe stato diretto ad aiutare il produttore a negare l’accusa di stupro di McGowan.

Tra le informazioni inviate da Howard, infatti, ci sarebbe stata anche una telefonata tra uno dei due giornalisti ed Elizabeth Avellan, ex moglie del regista Robert Rodriguez, lasciata da quest’ultimo per McGowan. Contattata da Farrow, Avellan ha detto che il giornalista di Howard continuava a chiamare lei e suoi conoscenti, chiedendole di rilasciare “dichiarazioni poco lusinghiere su McGowan”. Nonostante avessero concordato una telefonata off the record – di cui comunque la donna si è detta pentita -, il reporter ha registrato la conversazione, e l’ha inviata ad Howard.

Il responsabile dei contenuti di American Media Inc. ha spiegato di aver agito perché, avendo al tempo con Weinstein un accordo per una produzione televisiva, era suo dovere proteggere gli interessi dell’azienda ricercando informazioni riguardo persone che, stando a quanto diceva il produttore, stavano portando accuse false nei suoi confronti.

I dossier sulle attrici e sui giornalisti

L’altra grossa agenzia investigativa coinvolta nell’inchiesta del New Yorker è la Kroll. Secondo Farrow nell’ottobre dello scorso anno Dan Karson, capo della società, ha contattato personalmente Weinstein fornendogli informazioni riguardanti donne che avevano accuse contro di lui. Una mail inviata da Karson, ad esempio, conteneva undici foto ritraenti McGowan e Weinstein insieme, scattate a diversi eventi negli anni successivi all’abuso sessuale denunciato dall’attrice. Tre ore dopo averla ricevuta, spiega Farrow, il produttore ha inoltrato la cartella ai suoi legali; gli avvocati, a loro volta, hanno selezionato una foto che ritraeva McGowan parlare cordialmente con Weinstein, come prova dei buoni rapporti tra i due per gettare discredito sulle accuse di stupro.

Un’altra agenzia investigativa, la PSOPS di Los Angeles, ha invece prodotto profili dettagliati di diverse persone coinvolte nella vicenda, includendo informazioni capaci di minare la loro credibilità. Un report riguardante McGowan lungo più di 100 pagine comprendeva sezioni come “Bugie/esagerazioni/contraddizioni”, “Ipocrisia”, “Amanti precedenti”. Un file compilato da un’altra agenzia riguardava invece Rosanna Arquette – un’attrice che poi ha accusato Weinstein di molestie – e conteneva post pubblicati sui social riguardanti abusi sessuali e dettagli sul fatto che un membro della famiglia dell’attrice avesse denunciato pubblicamente le molestie subite da bambina.

Tutte le agenzie, comunque, scrive Farrow, “erano coinvolte nel cercare di scoprire le fonti dei giornalisti” e trovare qualcosa nel loro passato.

L’inchiesta riporta che settimane prima che Wallace del New York incontrasse l’agente Anna, il capo dell’agenzia Kroll aveva mandato a Weinstein un dossier con informazioni preliminari su di lui e sul direttore della rivista, Adam Moss (avvertendo però di non aver trovato nulla di compromettente riguardo quest’ultimo). Quanto al reporter, era stata allegata una lista di critiche pubbliche a suoi precedenti articoli, e una dettagliata descrizione di una causa per diffamazione arrivata in seguito a un libro scritto nel 2008 sul mercato del vino. L’agenzia PSOPS, inoltre, aveva compilato un profilo dell’ex moglie di Wallace.

Farrow racconta di essere stato lui stesso oggetto di un’investigazione privata (a causa delle "sue interazioni" con una serie di donne che avrebbero accusato il produttore); così come Jodi Kantor del New York Times e David Carr, che diversi anni fa stava lavorando a un articolo su Weinstein per il New York. La vedova di Carr (morto nel 2015) ha detto a Farrow che il marito era convinto di essere sorvegliato e seguito, anche se non sapeva da chi.

Le liste di nomi

Il giornalista del New Yorker spiega anche come Weinstein abbia ripetutamente cercato di coinvolgere persone attorno a lui nel suo progetto – volenti o nolenti.

Nel dicembre del 2016, ad esempio, il produttore ha chiesto ad Asia Argento di incontrarlo in Italia, insieme con i suoi investigatori privati, per testimoniare a suo favore. Argento ha raccontato a Farrow di aver sentito la pressione di dover dire sì, ma di aver poi rifiutato sotto consiglio del suo compagno, lo chef e personaggio televisivo Anthony Bourdain. Un’altra attrice – che però ha chiesto di restare anonima – ha detto al giornalista che Weinstein le aveva chiesto di incontrarlo assieme ad alcuni giornalisti per avere informazioni su altre fonti.

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Infine, aggiunge Farrow, il produttore aveva arruolato due sue ex dipendenti, Denise Doyle Chambers e Pamela Lubell, “in quella che si è rivelata un’operazione per identificare e chiamare persone che avrebbero potuto parlare con la stampa riguardo accuse, proprie o di altri”.

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La portavoce di Weinstein, Hofmeister, ha detto al New Yorker che le interviste in questione servivano per preparare “un libro sulla Miramax”. Lubell, una delle ex dipendenti coinvolte, però, ha raccontato di essere stata “manipolata”. La donna ha spiegato a Farrow che lo scorso luglio Weinstein ha chiesto a lei e a Chambers di compilare una lista di “tutti gli impiegati che conoscevano” e contattarli per la realizzazione di un libro. Successivamente, il produttore ha detto che il progetto era stato messo in stand-by: alle due dipendenti è stato quindi chiesto prima di telefonare alle persone sulla lista per “vedere se avevano ricevuto chiamate dalla stampa”, e poi di contattare nomi connessi con attrici. Lubell ha infine raccontato che quando è scoppiato lo scandalo lo scorso ottobre con la pubblicazione dell’articolo del New York Times, Weinstein ha iniziato a urlare contro di lei, Chambers e altri dipendenti, chiedendogli di inviare email ai membri del consiglio d’amministrazione contenenti foto che lo ritraevano assieme alle donne che lo stavano accusando.

Farrow scrive che nonostante la campagna di Weinstein per tracciare e silenziare le accuse contro di lui sia fallita, molte donne coinvolte sono convinte che l’uso che il produttore ha fatto delle agenzie private di investigazione abbia reso più complicato far sentire la propria voce. L’attrice Annabella Sciorra ha confessato al giornalista di essersi sentita “spaventata”, perché sapeva “cosa significava essere minacciata da Harvey. Avevo paura che mi trovasse”. Rose McGowan, invece, ha detto che le agenzie e gli studi legali hanno reso possibile il comportamento di Weinstein, e che in quel periodo sentiva dentro di sé un forte senso di paranoia: “Tutti quanti mi hanno mentito per tutto il tempo”.

 

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