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La violenza ostetrica e la difficoltà di denunciarla

6 Marzo 2023 8 min lettura

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La violenza ostetrica e la difficoltà di denunciarla

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L’8 gennaio, nel reparto di ginecologia dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, un neonato di tre giorni è stato trovato morto: l’ipotesi che è circolata di più è che possa essere rimasto soffocato dalla madre, che si era addormentata allattandolo. La donna ha raccontato di essersi sentita estremamente spossata dopo il parto durato 17 ore, e di aver chiesto aiuto al personale ospedaliero: era però stata costretta a tenere il figlio da sola. La procura di Roma ha avviato un’indagine per chiarire i fatti, mentre il ministro alla Salute Orazio Schillaci ha chiesto alla Regione Lazio una relazione su quanto accaduto. 

Inoltre, dal governo è stata predisposta la costituzione di un gruppo di lavoro di esperti che stilerà un protocollo per la gestione del rooming-in, pratica che prevede che i figli appena nati vengano affidati da subito alle neomamme, e restino con loro 24 ore su 24. L’obiettivo è valutare i casi in cui si possa derogare a questo modello, nell’interesse delle neomamme e dei neonati. I benefici del rooming-in sono numerosi e dimostrati da svariati studi: dal 1989, questa pratica è consigliata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Unicef, perché facilita l’attaccamento e lo sviluppo della relazione tra mamma e bambino, aiuta l’avvio dell’allattamento, riduce il rischio di infezioni per il neonato e promuove l'empowerment della mamma. 

Il rooming-in però non deve diventare sinonimo di abbandono e non significa che la madre debba fare tutto da sola: è previsto infatti il periodico controllo da parte del personale sanitario, che deve intervenire qualora la donna abbia bisogno di aiuto. Inoltre, il rooming-in dovrebbe essere una scelta della neomamma, e non dovrebbe essere imposto dalla struttura. Si tratta infatti di una possibilità in più che viene data alla donna, ottenuta dopo anni di battaglie: prima il neonato veniva tenuto nel nido dell’ospedale, dove era possibile effettuare un più stretto monitoraggio medico. La madre poteva vederlo soltanto negli orari dell’allattamento, a intervalli di circa di tre ore. Ecco perché non bisogna confondere il rooming-in con la violenza ostetrica: molte madri desiderano essere vicine ai loro bambini appena nati. Oggi alcuni ospedali consentono il rooming-in non solo alla mamma ma anche al papà, che può così stare in camera con lei e il neonato senza vincoli di orario. Purtroppo, però, questa ancora non è la norma, e la pandemia non ha aiutato a migliorare la situazione.

Che cos’è la violenza ostetrica

Il termine “violenza ostetrica” fa riferimento agli abusi subiti dalle donne nell’ambito delle cure ostetrico-ginecologiche: non viene agita solo dalle ostetriche, ma anche da ginecologi, infermieri o altri professionisti sanitari. Nella violenza ostetrica rientrano quindi tutte quelle pratiche di intervento non motivate da una reale esigenza clinica: atteggiamenti denigratori, pericolose manovre sulla pancia, attesa per ore in reparto senza assistenza, impossibilità di avere un’adeguata terapia per il dolore, cesareo senza consenso, interventi chirurgici non necessari. 

Dopo la notizia della morte del neonato a Roma, nel dibattito pubblico si è acceso l’interesse sulla violenza ostetrica. Ma già da anni esistevano realtà che si occupavano del problema, come l’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica, che però ha deciso di non rilasciare dichiarazioni sul caso avvenuto all’ospedale Pertini, per rispetto della famiglia e delle indagini in corso.

“La violenza ostetrica si basa su due opposti: da un lato l’ipermedicalizzazione e l’interventismo eccessivo, dall’altro la carenza assistenziale, con donne lasciate sole, che hanno chiesto aiuto e non sono state considerate”, ha raccontato Alessandra Battisti dell’Osservatorio a Valigia Blu, in un’intervista rilasciata in precedenza. “Il filo conduttore è che la donna non viene ascoltata e non viene creduta, se lamenta dolori forti viene denigrata o considerata come capricciosa. Tra le persone che ci contattano, il racconto più ricorrente è quello di essersi sentite azzerate durante il parto”. Tutto ciò ha effetti sulla salute psicofisica: le conseguenze vanno dalle ripercussioni psicologiche alle lesioni agli organi genitali, fino nei casi più estremi ai danni al neonato. Adolescenti, donne sole, migranti e con patologie o disabilità sono particolarmente esposte al rischio di abusi.

“Ci scrivono ragazze che sono lasciate sporche per ore, che avevano il sangue sulle gambe o che hanno rimesso e non hanno ricevuto un cambio”, continua Battisti, che come avvocato difende in tribunale le donne che hanno subito abusi durante il parto. “Alcune hanno chiesto una bottiglietta d’acqua e gli è stata negata, altre sono state redarguite per essersi lamentate per i punti senza anestesia. C’è anche chi si è sentita dire: ‘Guarda com’è bella la tua bambina, non si merita una mamma come te’”.

A causa della difficoltà di reperire dati sulla violenza ostetrica, l’indagine Doxa-OVOItalia, condotta nel 2017 dall’Osservatorio su un campione rappresentativo di circa cinque milioni di donne, rimane la più esaustiva realizzata in Italia sul tema, anche se l’Aogoi (Associazione degli ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) ha contestato la validità della ricerca. I dati raccolti mostrano che dal 2003 al 2017 oltre un milione di donne nel nostro paese ha subito violenza ostetrica. A oltre la metà è stata fatta l’episiotomia, l’incisione chirurgica del perineo per allargare l’apertura vaginale, anche se il 61% non aveva dato il consenso informato. L’OMS la definisce una pratica “dannosa, tranne in rari casi”. 

Anche il numero di cesarei in Italia è ancora troppo alto: l’ultimo rapporto sull’evento nascita, relativo all’anno 2020, mostra che il 31% dei bambini è nato con taglio cesareo, mentre tra i paesi europei il tasso medio è inferiore al 25%. C’è una forte variabilità tra regioni: si va dal 20% della provincia autonoma di Trento al 50% della Campania, anche se in alcuni ospedali il tasso arriva anche all’80-90%.

Il quadro internazionale

Da diversi anni ormai gli organismi internazionali denunciano la violenza ostetrica e lottano per i diritti delle donne e dei loro bambini. Nel 2011 la White Ribbon Alliance, organizzazione per la tutela della salute delle madri e dei neonati, ha redatto la Carta dell’assistenza rispettosa della maternità, disponibile in diverse lingue (tra cui l’italiano), che contiene i dieci diritti fondamentali delle donne durante il parto. Nel 2015 l’OMS ha sottolineato in una dichiarazione come in tutto il mondo molte donne fanno esperienza di trattamenti offensivi e violenti durante il parto in ospedale. Nel 2019, un rapporto delle Nazioni Unite ha riconosciuto la violenza ostetrica come una “forma di violenza di natura sistematica e diffusa”, chiedendo misure di compensazione alle vittime e formazione specifica degli operatori sanitari. Nello stesso anno, anche il Consiglio d’Europa ha adottato la prima risoluzione per contrastare la violenza ostetrica, richiedendo ai parlamenti dei singoli Stati di discutere della tutela dei diritti delle donne durante la gravidanza e il parto. 

Eppure per il momento nel mondo solo alcuni paesi latinoamericani hanno legiferato sulla violenza ostetrica. Il Venezuela è stato il primo nel 2007, con una legge che stabilisce che “l’appropriazione dei corpi e dei processi riproduttivi delle donne da parte degli operatori sanitari attraverso trattamenti disumanizzanti, abusi nella medicalizzazione o la patologizzazione dei processi naturali, che portano a la perdita di autonomia e capacità decisionale sul proprio corpo e sulla sessualità, incide negativamente sulla qualità della vita delle donne”. Una definizione simile si trova nella legge argentina approvata nel 2009. Nel 2013 è stata la volta di Panama e della Bolivia. In Brasile, la norma si differenzia perché specifica che la violenza ostetrica può essere commessa anche da familiari o conviventi. Tra il 2007 e il 2018, anche diversi stati messicani (tra cui il Durango, il Veracruz, il Guanajuato e il Chiapas) hanno seguito l’esempio. Nel 2017, anche l’Uruguay ha riconosciuto la violenza ostetrica. 

La pandemia ha spostato l’attenzione  sulla questione e in alcuni contesti ha addirittura peggiorato il problema della violenza ostetrica: lo mostra la ricerca IMAgiNE EURO, commissionata dall’OMS in diversi paesi europei per valutare la qualità delle cure alle donne che hanno avuto un figlio nella prima fase della pandemia. In Italia, lo studio ha coinvolto 4.824 donne che hanno partorito in ospedale dal 1 marzo 2020 al 29 febbraio 2021. Un quarto di loro ha dichiarato di non essere stata trattata con dignità durante il parto, e il 13% ha raccontato di aver subito abusi, con percentuali maggiori tra chi vive al sud. Il 44% ha avuto difficoltà ad accedere alle visite in gravidanza, e il 39% non si è sentito coinvolto nelle scelte riguardo al parto. Alla fine del 2021, la relatrice speciale dell’Onu sul diritto alla salute, Tlaleng Mofokeng, ha denunciato l’aumento della violenza ostetrica da quando è iniziata la pandemia. 

La campagna #bastatacere e le difficoltà di denunciare

In Italia ancora oggi manca una legge specifica sulla violenza ostetrica. L’11 marzo 2016 il deputato Adriano Zaccagnini ha depositato la proposta di legge “Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico”. Per supportare l’iter legislativo è nata la campagna #bastatacere, che ha raccolto centinaia di testimonianze di donne che hanno vissuto violenze durante il parto. Successivamente è nato l’Osservatorio sulla violenza ostetrica, che ancora oggi ha l’obiettivo di raccogliere i dati sull’abuso e la mancanza di rispetto nelle strutture ospedaliere e sensibilizzare il pubblico e le istituzioni sul tema. 

“Mi hanno detto: ‘Signora, lei che è vecchia non sa che dopo aver partorito si sta male?’ ‘Sì, ma io ho già partorito anni fa, sento che qualcosa stavolta non va’. Le mie ultime parole prima di svenire”. È la testimonianza di una donna che ha partecipato alla campagna #bastatacere. Un’altra racconta: “Prima di partorire mi hanno lasciato sola, la dottoressa si affacciava solo per dirmi di smettere di piangere perché così rischiavo di far morire la bambina. Da sola mi sono tolta i pantaloni sporchi di sangue. Sono rimasta nuda a piangere e gridare aiuto”. La campagna ha raccolto anche l’adesione di ginecologi, ostetrici, infermieri e altro personale sanitario: “Mi sono laureata in uno di quegli ospedali dove le donne erano numeri per arrivare al totale di fine anno. Ho assistito a centinaia di parti con manovre per velocizzare il processo perché poi la mensa chiudeva, a episiotomie fatte affinché gli specializzandi avessero da saturare per imparare. Ho visto cesarei inutili solo per deliri di onnipotenza”.

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Denunciare la violenza ostetrica è ancora complesso, perché spesso non ci sono prove dell’accaduto, e inoltre intraprendere una causa implica alti costi e un certo coinvolgimento emotivo, per donne che spesso vorrebbero solo dimenticare l’accaduto. L’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica per questo chiede di potenziare i meccanismi di segnalazione interni agli ospedali e istituire sistemi di feedback del personale e delle utenti. Comunque, la responsabilità della violenza ostetrica non è solo dei singoli operatori sanitari: le condizioni di lavoro stressanti, la mancanza di personale e la carenza di formazione peggiorano il problema. 

Comunque oggi qualcosa sta cambiando, e diverse strutture sanitarie si stanno orientando verso una maggiore naturalità del parto. Nei consultori di diverse regioni, a seguire le donne con gravidanze fisiologiche sono le ostetriche e non più i ginecologi, e solo se subentra una patologia viene coinvolto un medico. Anche l’approccio del personale è sempre più attento alla sfera emotiva e psicologica della donna. Alcuni ospedali danno addirittura la possibilità di utilizzare l’agopuntura, le posizioni antalgiche, il massaggio e la digitopressione, o di partorire in acqua per calmare il dolore e aiutare la dilatazione. Sempre più donne, inoltre, scelgono il parto in casa o nelle case maternità, strutture affidate a ostetriche. “In Italia c’è ancora l’idea che la donna che partorisce debba provare dolore, e che la maternità sia un percorso di sofferenza”, conclude Battisti. “Questa concezione va superata: dobbiamo riconoscere il diritto di tutte non solo di sopravvivere al parto, ma anche di uscirne con un ricordo positivo e appagante”. 

Immagine in anteprima via lospiegone.com

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