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Silvia Romano non deve giustificarsi per essere stata liberata

13 Maggio 2020 5 min lettura

Silvia Romano non deve giustificarsi per essere stata liberata

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Durante i 18 mesi del suo rapimento in Kenya, Silvia Romano è stata ampiamente fuori dai radar di media e politica, con poche eccezioni, di cui almeno una molto infelice. La notizia della sua liberazione, invece, l’ha esposta a una bulimia giornalistica a caccia di qualunque dettaglio da fagocitare. A ciò ha contribuito uno dei pochi fatti finora accertabili, ossia la conversione all'Islam, in virtù della quale Silvia Romano ha preso il nome di Aisha. Una circostanza che ha scatenato una serie impressionante di voci, ipotesi e versioni sulla detenzione, tra cui una diagnosi di sindrome di Stoccolma. Così la donna ha dovuto persino smentire di essere rimasta incinta, o di essersi sposata con uno dei rapitori. Il Post ha raccolto questa mole di informazioni difformi o smentite in un articolo che, significativamente, retrocede dalla copertura della liberazione alla copertura di “cosa dicono i giornali”. Stare appresso al dibattito auto-innescato dai media fa lo stesso effetto di affacciarsi su un immenso condominio dove, al posto di giornalisti, troviamo anziani un po’ bigotti che per ammazzare il tempo sparlano tutto il giorno.

Le voci sul matrimonio o la gravidanza, in particolare, sono sintomatiche di un’oggettificazione del corpo femminile. In quanto donna, Silvia Romano non dispone liberamente del suo corpo, ma deve rispondere a un ordine morale e sociale superiore. Rimasta a contatto con una civiltà straniera, potenzialmente nemica perché a sua volta portatrice di un diverso ordine morale e sociale, la donna deve dimostrare che il suo corpo non è rimasto contaminato, divenendo impuro. È solo attraverso questa lente che possiamo davvero dare un senso a tutta una serie di ossessioni e stereotipi da Italietta coloniale, che deve spiegare cos’è un hijab e perché la persona liberata è vestita in un certo modo. Che parla di abiti somali come se fossero divise o pelli, e magari tira fuori l’ingratitudine (Il Giornale) di chi ha osato convertirsi. Alessandro Sallusti ha persino fatto paragoni a sproposito con Auschwitz e gli ebrei liberati che indossano divise naziste, e in un certo senso lo si potrebbe ringraziare per aver reso ancora più evidente l’ignoranza e l’inciviltà di chi vuole criminalizzare tutto ciò che riguarda l'Islam o l'Africa. Di simile avviso anche Paolo Liguori, Vittorio Sgarbi e Flavio Briatore, secondo cui Silvia Romano si sarebbe convertita sì, ma al terrorismo di Al-Shabaab.

Qualcosa di analogo era accaduto anche con la liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. In assenza di conversioni, allora si diffuse la bufala secondo cui le due donne avrebbero avuto rapporti sessuali consenzienti con i rapitori. Per l’occasione abboccò anche Maurizio Gasparri, che reputò attendibile un account Twitter dal nome Piovegovernoladro. Così come non sono una novità le polemiche sul pagamento di un riscatto, l’oppressiva cornice per cui, fuori da ogni contesto geopolitico o dalle contingenze di un ostaggio liberato, il populismo penale deve sentenziare su quanto valga una vita umana, e se meriti o meno di essere salvata. La cittadinanza non più come status giuridico, ma come merito. Ci sarebbero così italiani rapiti o prigionieri che è giusto liberare, e altri per cui non bisogna sprecare risorse, perché in fondo se la sono andata a cercare. Se siete donne e/o intendete operare nella cooperazione internazionale è molto facile appartenere a questo secondo gruppo. Certe ossessioni non hanno riguardato le prigionie di Sergio Zanotti e Alessandro Sandrini.

Riprendendo un attimo i fili con la complessità del reale e con la deontologia giornalistica, sul Foglio Daniele Raineri fa notare il problema di questo “Show della liberazione”:

Il giorno dopo l’arrivo a Roma tutti i quotidiani avevano il resoconto delle quattro ore di domande e risposte tra lei e gli inquirenti. Può sembrare normale, non lo è. Abbiamo saputo in quanti covi era stata spostata, quanti rapitori la tenevano in ostaggio, che cosa mangiava. Una volta persino spaghetti, dettaglio ripetuto da tutti. Quello che dovrebbe essere un momento confidenziale, il debriefing di un ostaggio nel corso di un’indagine, è stato passato alle redazioni in tempo per la tipografia. E se ci fosse stata qualche informazione molto dura, avremmo letto pure quella? Chi si potrà fidare del tutto a rispondere a domande nella stessa situazione? Eppure ci sono stati altri casi simili trattati con molta più discrezione. Nessuno ricorda gli incontri con gli inquirenti degli almeno cinque italiani sequestrati da gruppi islamisti negli ultimi anni.

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Mentre un Francesco Storace, intervistato per Huffington Post da Pietro Salvatori, per una volta svetta a destra come un gigante. Di fronte al solito tentativo di militarizzare lo spazio pubblico, e di polarizzare qualunque notizia o avvenimento, il direttore del Secolo d’Italia prova a ricondurre il dibattito entro gli argini di una qualche normalità: «Ha senso aprire la discussione quando polvere si è depositata. Il giorno della festa si fa polemica? L’ho trovato estremamente fastidioso... Ci manca solo che le chiediamo se è romanista o laziale. Preferivate che tornasse dentro una bara? Perché l’unica immagine da guardare non era quella del velo, ma del suo sorriso una volta tornata. Viva. Un sorriso che mi ha conquistato».

C’è molto che non sappiamo sulla detenzione di Silvia Romano: ad esempio quali scenari futuri comporti il peso avuto dall’intelligence turca nella liberazione. Ma la conversione dovrebbe restare nella sfera personale, o muoversi molto poco da lì: non ha molto senso la tara a quanto abbiano inciso rapimento e detenzione sulla conversione, quasi a volerne pesare l’effettiva validità, o la potenziale minaccia. Cosa deve dimostrarci esattamente Silvia Romano? Ci sentiamo forse in dovere di sindacare le convinzioni di chi si converte in carcere, non appena finisce di scontare la pena? Essere liberati comporta un debito di patriottismo, e questo patriottismo non contempla la religione islamica, o qualunque decisione maturata durante la prigionia? Si potrebbe rispondere, come fatto notare dalla madre della donna, «Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito». O come minimo constatare che, appena tornata in Italia, Silvia Romano ha dovuto immergersi in un bagno di cosiddetta civiltà Occidentale: acque torbide di sospetti, illazioni calunniose e minacce. Bisogna essere davvero irrimediabilmente tristi e miseri per non essere in alcun modo consapevoli di quando si può essere felici per una notizia, o al limite di quando è opportuno tacere.

Foto anteprima via Ansa

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