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Brexit, covid, guerra e conservatori: come il Regno Unito è finito nella tempesta perfetta

7 Ottobre 2022 8 min lettura

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Brexit, covid, guerra e conservatori: come il Regno Unito è finito nella tempesta perfetta

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La premier britannica Liz Truss si è dimessa

Aggiornamento del 20 ottobre 2022: Dopo aver ricoperto la carica per appena 44 giorni, la Prima ministra del Regno Unito, Liz Truss, ha rassegnato le dimissioni. La decisione arriva dopo la turbolenta giornata di ieri, che ha visto un’altra esponente del governo, la ministra dell’Interno Suella Braverman, costretta a dimettersi: aveva violato i protocolli di sicurezza utilizzando la mail personale.

Nel dare l’annuncio delle proprie dimissioni, Truss ha letto una dichiarazione fuori dalla sede di Downing Street.

Sono entrata in carica in un momento di grande instabilità economica e internazionale. Le famiglie e le imprese erano preoccupate di come pagare le bollette. La guerra illegale di Putin in Ucraina minaccia la sicurezza dell'intero continente. E il nostro paese è stato frenato per troppo tempo da una bassa crescita economica. Sono stato eletta dal Partito Conservatore con il mandato di cambiare questa situazione. […] Riconosco però che, data la situazione, non posso portare a termine il mandato con cui sono stato eletto dal Partito Conservatore. Ho quindi parlato con Sua Maestà il Re per comunicargli che mi dimetto da leader del Partito conservatore. Abbiamo concordato che le elezioni per la leadership si svolgeranno nella prossima settimana. Questo ci garantirà di rimanere sulla strada per realizzare i nostri piani fiscali e mantenere la stabilità economica e la sicurezza nazionale del nostro paese. Rimarrò in carica fino alla scelta del successore.

Dopo le dimissioni forzate di Boris Johnson i conservatori, al governo da quasi quindici anni, hanno eletto Liz Truss come nuova leader e conseguentemente nuovo Primo Ministro, appena qualche giorno prima della morte della Regina Elisabetta II. 

Non si può certo dire che Truss abbia ereditato una situazione idilliaca dal suo predecessore, a partire dall’inflazione che galoppa incontrastata nonostante la Banca di Inghilterra (BoE) sia stata la prima, tra le banche centrali, a dare inizio alla stretta monetaria.

I dati d’altronde sono lì a dimostrarlo. Secondo le statistiche l’Indice dei Prezzi al Consumo (CPI) ha toccato il 9.9% in agosto, in lieve flessione rispetto a luglio, un valore più alto rispetto al 9.1% dell’eurozona. L’inflazione si fa sentire anche nella vita di tutti i giorni, dove la crescita dei prezzi per cibi e bevande non alcoliche ha raggiunto il 13.1%, trainate da beni di prima necessità come il latte, le uova e il formaggio. Secondo le previsioni, l’inflazione nel Regno Unito dovrebbe raggiungere il 13% in ottobre per poi cominciare la sua discesa fino ad attestarsi al 2%, il target fissato dalle banche centrali, nel 2025.

Allo stesso tempo i salari reali, ovvero quelli al netto dell’inflazione, sono in picchiata. Già nel mese di aprile il calo su base annuale aveva toccato il 3.4%, un nuovo record in negativo che spazza via il caso del 2.7% nel settembre del 2011. 

La BoE aveva cercato di porre un freno a questa situazione alzando i tassi di interesse e dando il via alla stretta monetaria. Il rialzo di settembre è stato il settimo consecutivo, un record dal 1997, quando la Banca divenne intipendente dal Tesoro.  Ma i tentativi della Banca Centrale si scontrano con le politiche fiscali messe in atto proprio dal governo di Londra. 

Infatti, in una sorta di ritorno agli antichi fasti del thatcherismo, il governo di Liz Truss ha approvato nel mese di settembre il Mini Budget. Si tratta di un deciso cambio di rotta rispetto all’azione del gabinetto Johnson: il Cancelliere dello Scacchiere e avversario di Truss per la guida del Partito conservatore Rishi Sunak aveva passato un innalzamento della corporate tax, la tassa sui profitti delle imprese, a partire dal 2023. Dopo le politiche per calmierare gli effetti della pandemia, infatti, il debito pubblico ha subito un considerevole aumento, come successo in tutti i paesi dell’occidente.  

Abbandonando l’austerità, e il tentativo di rivitalizzare le zone depresse del Regno Unito tentato da Johnson, per sistemare i conti pubblici dopo la pandemia, Truss e il suo cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, hanno approvato un gigantesco taglio delle tasse per i più ricchi, abbassando l’aliquota marginale massima dal 45% al 40% a debito. Il costo della manovra è stimato a 411 miliardi di sterline nei prossimi anni. 

Il governo ha giustificato questa mossa sostenendo che porterà a una maggior crescita economica, ripetendo quindi gli slogan della teoria dello sgocciolamento. Eppure i dati mostrano altro: il taglio delle tasse ai più ricchi non ha effetti sulla produttività e sulla crescita, ma aumentano le disuguaglianze. 

Ma l’equità della proposta non è l’unico dei problemi: proprio la mancanza di coperture ha provocato la tempesta perfetta sui mercati. Tanto che anche il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito il governo di Londra riguardo gli effetti delle sue politiche. Subito dopo la Sterlina è andata a picco, raggiungendo un record negativo nei confronti del dollaro, i titoli di Stato venivano trattati dai mercati al pari di quelli di paesi pesantemente indebitati dell’Eurozona come Italia e Grecia con un rendimento pari al 4.3%, i fondi pensioni prossimi al fallimento. 

Per questo motivo la BoE ha invertito la rotta. In procinto di vendere sul mercato i Gilt, ovvero i titoli di stato, detenuti per cercare di bloccare la corsa dell’inflazione, si è trovata a dover comprare titoli per 65 miliardi di sterline immettendo denaro nel sistema per salvare i fondi pensione britannici sull’orlo del fallimento. 

La stretta monetaria è quindi rinviata, con conseguenze imprevedibili riguardo l’inflazione. Viste le conseguenze nefaste sui mercati, Truss e Kwarteng si sono lanciati in un’inversione a U riguardo al Mini Budget, promettendo inoltre nei prossimi mesi un programma di controllo della spesa pubblica. 

La coperta però è corta: il governo deve stanziare ingenti risorse per far fronte all’aumento delle bollette, vuole congelare gli aumenti di Sunak. Rimangono quindi o il taglio del welfare, in una classica mossa thatcheriana, o il taglio agli investimenti pubblici che in UK stagnano già da anni. 

La situazione drammatica del Regno Unito, in un occidente sempre più proiettato verso la recessione, dipende di certo da due fattori comuni a tutti- le conseguenze della pandemia e l’invasione dell’Ucraina- ma è amplificato dall’elefante nella stanza: Brexit. 

Covid e Guerra, ma anche Brexit

Sappiamo infatti che la pandemia da Sars-CoV-2 ha colpito duramente il Regno Unito, anche grazie alle esitazioni del governo Johnson nel febbraio e marzo 2020. Fu proprio Johnson in quel periodo a dichiarare che i cittadini si sarebbero dovuti preparare a perdere i propri cari, propendendo per una strategia da immunità di gregge.

Il tutto mentre l’Imperial College di Londra in un lavoro coordinato da Neil Ferguson, tra gli epidemiologi più celebri al mondo, stimava che senza misure drastiche l’NHS, il sistema sanitario pubblico britannico, sarebbe collassato. Successivamente la diffusione di varianti ha messo a dura prova l’NHS, soprattutto quando, dopo l’ondata della variante inglese nell’inverno e primavera del 2021, il Regno Unito ha scommesso su una strategia “liberi tutti”. Strategia criticata anche dal redattore di The Lancet che l’ha definita come distante dal consenso scientifico e basata più sull’ideologia libertaria in voga nel governo britannico. 

Non siamo ancora in grado di poter stimare gli effetti che questa strategia avrà in futuro – ovvero gli effetti del discusso Long Covid sulla forza lavoro, la produttività e le funzioni cognitive – ma vista la strategia del Regno Unito, seguita successivamente da tutti i paesi europei, è possibile uno scenario di estrema preoccupazione. Già oggi però la possibilità di ammalarsi di Covid sta spingendo persone, soprattutto anziane, fuori dalla forza lavoro. 

Alla crisi Covid si è poi aggiunta l’invasione di Putin dell’Ucraina. Già a Luglio la BoE avvertiva degli effetti, che sarebbero andati peggiorando con l’arrivo dell’inverno, sull’economia britannica. Sia per quel che riguarda le bollette sia gli effetti derivanti: l’aumento dell’inflazione, esacerbato proprio dalle tensioni internazionali, può compromettere la capacità di pagamento dei mutui dei consumatori visto l’aggiornamento dei mutui a tasso fisso, anche se proprio dalla BoE avvertono che il sistema è resiliente rispetto a questi problemi. 

Ma queste crisi, comuni a tutto il mondo occidentale, sono state amplificate appunto dalla decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea: Brexit è stato il catalizzatore. 

Innanzitutto un maggior isolamento, dovuto proprio al “Take Back Control”, ha diminuito l’afflusso di lavoratori dall’estero e aumentato le barriere al commercio. Questo era già chiaro durante l’autunno scorso: il Regno Unito, grazie alle restrizioni sui visti per i lavoratori stranieri, aveva affrontato una mancanza di camionisti trovandosi quindi con scaffali vuoti e penuria di generi di prima necessità. Questo punto è di particolare importanza soprattutto perché la retorica degli immigrati che rubano il lavoro va per la maggiore anche nel vecchio continente: è una retorica di certo intuitiva, ma non trova riscontro nella realtà. Gli immigrati non rubano il lavoro, né sono “l’esercito di riserva”, che aumentando l’offerta di lavoro diminuisce i salari. 

Proprio questa tendenza all’isolamento ha reso il Regno Unito più sensibile agli shock come, appunto, la pandemia e l’invasione russa. Pensiamo all’interruzione della catena di approvvigionamento e ai costi dell’energia, visto che UK dipende dall’estero per quel che riguarda gas e petrolio. 

Secondo i calcoli del think tank Resolution Foundation e della London School of Economics, inoltre, la Brexit costa al contribuente britannico 470£ ogni anno fino al 2030. E anche gli altri indicatori non restituiscono una situazione rosea: investimenti, commercio, spesa in Ricerca e Sviluppo. La Brexit non ha riportato un’età dell’oro per il Regno Unito, tutt’altro. 

Il futuro dei conservatori è appeso a un filo

Ma i guai non sono finiti. A pesare sul governo e sulla situazione economica, solo per citare uno dei tanti esempi, c’è la questione ferrovie: da una parte gli stipendi al palo degli operatori del settore, dall’altro un servizio scadente nonostante i prezzi alle stelle. Il settore è da tempo al centro del dibattito in UK: le ferrovie sono state infatti privatizzate grazie all’impulso di Margaret Thatcher, ma la privatizzazione non ha beneficiato ai consumatori, anzi. Non a caso il leder dei Labouristi Keir Starmer ha proposto un ritorno dello Stato nel settore, con un termine che pareva ormai obsoleto: nazionalizzazione. 

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D’altronde i sondaggi suggeriscono che sarà proprio il Labour guidato da Starmer a vincere la prossima General Election con una vittoria schiacciante: i Laburisti staccano i conservatori nei sondaggi di 33 punti. Questo nonostante in casa Labour non siano mancati i passi falsi, anche riguardo il supporto agli scioperi nelle ferrovie. 

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È importante infatti notare che, oltre alle circostanze contingenti su cui ogni governo può intervenire con mezzi limitati, la situazione del Regno Unito è diretta conseguenza dell’egemonia del Partito Conservatore. A partire dalla controrivoluzione di Margaret Thatcher, che ha contribuito a spostare i Tory su posizioni più euroscettiche e liberiste – distanti quindi dall’approccio One Nation Conservative che era stato del Primo Ministro della Regina Vittoria Disraeli per cui all’ampliamento del libero mercato andava di pari passo l’aspetto sociale per non lasciare indietro nessuno. 

Calmierata dai governi laburisti di Blair, che hanno comunque portato avanti programmi in linea con quelli dei conservatori soprattutto riguardo il rapporto tra Stato e Mercato, l’egemonia conservatrice è andata consolidandosi dal 2010 a oggi. Prima con Cameron e il suo cancelliere dello scacchiere Osborne poi con l’arrivo dei brexiter Johnson e la remainer pentita Truss. Un conservatorismo sempre più isolazionista, votato al liberismo, ben lontano dalla Brexit della gente in contrapposizione alla finanza della City di Londra, cosmopolita ed europeista. Di fronte appare invece un paese dilaniato dalle disuguaglianze e incapace di generare ricchezza, preso da favole nostalgiche su una grandezza che ormai, in un mondo sempre più multipolare, non esiste più. 

Immagine in anteprima: Alisdare Hickson from Woolwich, United Kingdom, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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