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La riforma del MES è un problema per il governo Meloni, non per il paese

29 Giugno 2023 9 min lettura

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La riforma del MES è un problema per il governo Meloni, non per il paese

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Alla fine i nodi sono venuti al pettine. Dopo aver tergiversato a lungo, il governo Meloni si trova oggi a far fronte a uno dei passaggi più delicati per la sua maggioranza, dal punto di vista politico e soprattutto elettorale: la ratifica della riforma del MES ( Meccanismo Europeo di Stabilità). Qualche giorno fa, infatti, la commissione esteri della Camera ha approvato il testo di ratifica presentato dal Partito Democratico, mentre i membri della maggioranza abbandonavano la riunione di commissione. Per rispetto, dicono, ma in realtà perché sul MES la maggioranza è in affanno. Secondo le indiscrezioni, l’intenzione di Meloni sarebbe di rimandare il più possibile, addirittura a settembre quando le acque saranno più calme. 

Che cos’è la riforma del MES (Meccanismo europeo di stabilità)?

La verità è che la riforma del MES, sulla carta, non è di certo uno sconvolgimento né un rischio per la tenuta del paese. Il Governo Meloni infatti non è tenuto né ad accettare ex novo il MES né a richiedere l’accesso alla linea di credito, quanto a ratificare le modifiche apportate nel corso degli anni. 

Questo perché il MES viene da lontano: nel 2010, quando l’eurozona si trovava ancora in balia della recessione e alcuni paesi come Italia e Grecia rischiavano di andare in default, venne istituito come accordo tra i vari paesi europei il Fondo Salva Stati. Oltre a un capitale iniziale versato dagli Stati membri, poteva emettere obbligazioni e altri titoli al fine di raccogliere, sui mercati, i soldi necessari per la stabilità dei paesi che lo richiedono, in particolare per la tenuta del settore bancario o acquisto di titoli di stato. 

Le emissioni di titoli del Fondo Salva Stati erano garantite, ovviamente, dai paesi membri dell’Eurozona e il motivo è presto detto: nel corso di una crisi i paesi più a rischio potrebbero trovarsi impossibilitati a reperire le risorse necessarie sui mercati in quanto gli investitori riterrebbero il rischio di non essere ripagati troppo alto. 

Ovviamente il fatto che i restanti paesi dell’eurozona si facessero garanti necessitava di un contrappeso: il paese che chiedeva aiuto doveva concordare un programma di riforme con la Commissione Europea e il Fondo Monetario Internazionale, votato poi all’unanimità dalla riunione dei ministri delle finanze. A questi si aggiunge anche la Banca Centrale Europea, che può intervenire anche lei sul mercato se si presentavano varie condizioni. FMI, BCE e Commissione Europea formavano quindi la famosa Troika di cui tanto si è parlato nel corso degli anni.  

Nel 2012 il Fondo Salva Stati diventa quindi il Meccanismo Europeo di Stabilità, ovvero il famoso MES di cui si sta parlando. 

Qualche anno più tardi, nel 2018, si comincia a parlare di una revisione del Meccanismo. Ed è proprio il nostro paese a mettersi di traverso. Il governo Conte I (quello “del cambiamento”) non usa parole dolci nei confronti della riforma: si parla di una perdita della sovranità nazionale, di un cedere totalmente ai diktat della Troika - richiamando nella memoria collettiva quanto visto in Grecia. Poi però il governo Conte I arriva al termine, e alla Lega subentra il Partito Democratico come alleato di maggioranza, ovvero un partito con una posizione ben più europeista. Infatti il PD comincia subito a trattare in maniera più distesa in Europa per una riforma dello strumento, arrivando nel dicembre 2019 a una risoluzione di maggioranza votata da ambedue i rami del parlamento.

Nel mentre, Meloni e Salvini continuano ad attaccare senza sosta il governo. Ad esempio, in un tweet l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni parlava della riforma del MES come di una “super troika onnipotente”.

Dopo la fase più acuta della pandemia, nel gennaio del 2021 si è trovato l’accordo sulla riforma del MES. 

In che cosa consiste la Riforma del MES? 

I punti principali della Riforma sono tre.

Il primo riguarda il cosiddetto “backstop”: come è noto, nel mezzo di una crisi finanziaria uno dei rischi è la tenuta del sistema bancario. In Europa, proprio per far fronte ad eventuali fragilità del sistema finanziario, ci si è dotati di un fondo, il Fondo di Risoluzione Unico, che finanziato dalle banche stesse può essere utilizzato proprio per le emergenze sul fronte bancario. Il secondo punto riguarda, in maniera tecnica, una semplificazione per le linee di credito richieste dai paesi in difficoltà. Il terzo punto, più controverso, riguarda le cosiddette Clausole di Salvaguardia Collettiva. Queste permetterebbero ai creditori, qualora il paese non riuscisse più a ripagare il debito, una singola votazione (non doppia come avviene ora) per la ristrutturazione del debito. Come ha scritto l’ex dirigente del tesoro al MEF Maria Cannata, una soluzione di questo tipo, voluta fortemente dai paesi nordici, rischia in realtà di non raggiungere gli obiettivi prefissati. 

Il giudizio sulla riforma del MES, però, rimane positivo. Non solo per i contenuti, quanto per il segnale che dà ai mercati: la sua approvazione darebbe un segnale importante ai mercati, quello di una maggior cooperazione degli stati europei. E questo è uno dei problemi della maggioranza: a dirlo non è un esponente dell’opposizione o un burocrate di Bruxelles, quanto una relazione tecnica del Ministero delle Finanze, guidato dal ministro della Lega Giancarlo Giorgetti. A seguito di valutazione di esperti e operatori del mercato, si legge nel documento, questo avrebbe un impatto sulla valutazione del credito degli stati che sottoscrivono la riforma, soprattutto quelli più indebitati- come appunto l’Italia. 

La ratifica non è un problema (tranne che per Meloni e Salvini)

Come abbiamo visto, la questione di cui si discute oggi non è se accedere o no alla linea di credito o al prestito per cui è nato il MES. La questione è se votare o meno la riforma, già approvata dai restanti parlamenti dei paesi europei. E questo è il problema principale della maggioranza: non un problema di tipo tecnico, quanto politico. 

I due principali partiti di maggioranza, la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, hanno infatti adottato nel corso degli anni una retorica fortemente antieuropeista, o almeno di questa Europa, dipingendo i “burocrati di Bruxelles” e le istituzioni dell’UE come un tentativo di sottrarre la legittimità democratica agli Stati nazionali. 

Basta andare a rileggere i programmi dei due partiti di qualche anno fa per capirlo. Prendiamo ad esempio il programma di Fratelli d’Italia per le europee del 2019: si legge, nella seconda scheda, che l’Europa è diventata “il parco giochi di Francia e Germania” o, più avanti, che l’Euro è stato un gigantesco affare per certi paesi mentre altri, come l’Italia, sono stati danneggiati. 

Per la Lega il discorso è più complesso: nata come partito etno-regionalista tra gli anni ‘80 e ‘90, la vittoria alle primarie del 2013 di Matteo Salvini ha impresso una svolta a destra del partito, in chiave nazionalista, anche in materia economica. Due dei nomi più noti che hanno accompagnato la scalata di Salvini al vertice della Lega, d’altronde, sono il professore di Economia dell’Università di Pescara Alberto Bagnai e il docente a contratto dell’Università del Sacro Cuore Claudio Borghi. Entrambi si sono da sempre contraddistinti per critiche piuttosto feroci all’euro e alle istituzioni europee, come dimostra ad esempio il volume di Bagnai Il Tramonto dell’Euro o vari tweet che prevedevano una caduta rovinosa della moneta unica. 

Allo stesso tempo però persiste nella Lega un’anima più europeista, legata in particolare al ministro Giorgetti. Non a caso è proprio Giorgetti che ha sottolineato la necessità di tenere fede agli accordi presi con i partner europei. 

Avendo basato la loro fortuna elettorale anche su un atteggiamento di sfiducia nei confronti dell’Europa, la riforma del MES potrebbe quindi essere un duro contraccolpo per il consenso del governo, portando inoltre a un’ennesima crepa nella leadership di Matteo Salvini. 

Il difficile rapporto con l’Europa

Non c’è solo questo però: i problemi con l’Europa non si limitano certo alla ratifica del MES. A partire dalla riforma del Patto di Stabilità. Si tratta del pilastro della politica fiscale europea, che fissa paletti rigidi riguardo il debito pubblico e il deficit; quindi una traiettoria di taglio del deficit, che non può mai andare oltre il 3%, al fine di portare il debito sotto al 60%. Nel 2020, per far fronte alla situazione pandemica, era stato sospeso dall’Europa: come aveva scritto l’ex Presidente della Banca Centrale Europea e diventato poi Presidente del Consiglio Mario Draghi, l’emergenza richiedeva un’iniezione massiccia di denaro da parte degli Stati per evitare che le misure, necessarie per salvare vite, annientassero il tessuto economico. Ma ovviamente non è possibile cancellarlo: gli equilibri interni all’Europa dal punto di vista economico richiedono infatti regole sul debito. Per questo nei mesi appena passati in Europa è cominciata la discussione su una sua riforma. Nonostante i tentativi soprattutto da parte della Germania di una riforma ancora più austera, che avrebbe di fatto imposto aggiustamenti di bilancio draconiani, la linea scelta dalla commissione sembra oggi molto più permissiva. Per quanto resti la prospettiva di un rientro del debito al 60% per i paesi europei- l’Italia, così come Francia e Germania, è al di sopra-il vero cambiamento nella proposta della commissione europea è che la traiettoria per la riduzione del debito si spalmerà su un piano di 4 anni, allungabili a 7, presentati dai governi nazionali. Ancora presente però la famosa Golden Rule: nel computo del deficit è quindi compresa anche la spesa per investimenti. 

Che cosa significa questo per il nostro paese? Secondo le simulazioni della Commissione Europea si tratta di un aggiustamento che vale 0.85% del PIL nel caso in cui il piano fosse di 4 anni e dello 0.49% nel caso fosse in 7 anni. Questa non è, ovviamente, una buona notizia per il governo Meloni. Lascerebbe infatti ancora meno spazio per finanziare le proposte identitarie. 

Il tentativo di Meloni sembra quindi essere quello di utilizzare la ratifica del MES come forza negoziale in sede europea proprio sulla riforma del Patto di Stabilità. Le possibilità di riuscita però sono molto basse: la situazione economica del nostro paese è tutt’altro che solida e gli alleati di Meloni in sede europea sono in realtà più falchi rispetto alla commissione europea. Il Gruppo dei Riformisti e Conservatori Europei, quello di cui fa parte FdI, non è infatti entusiasta della gestione dissoluta, a loro avviso, delle finanze dei paesi mediterranei. Anche Vox, partito spagnolo nello stesso gruppo, non ha di certo una linea interventista e keynesiana su questo tema, come avevamo già spiegato

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Resta inoltre il problema del PNRR: il governo è in palese difficoltà, come già sostenuto, sull’attuazione del piano. E la commissione europea, soprattutto guardando a paesi simili a noi come la Spagna, non è entusiasta di come il governo Meloni sta gestendo la questione. 

La sostanza si vendica sulla poesia

La strada intrapresa dal governo Meloni, quindi, è alquanto incidentata. Dopo anni di propaganda anti-europeista, durante la campagna elettorale aveva tentato di dipingere lei e il suo partito come responsabili in grado di ridare dignità all’Italia nel mondo. Ma le posizioni assunte in passato, che le hanno garantito il successo elettorale, rischiano di incrinare il rapporto con l’elettorato. Non va meglio, poi, in sede europea: Meloni può sperare in un ribaltone alle Elezioni Europee del prossimo anno, dove qualcuno auspica un cambio di maggioranza in seno al parlamento europeo, con i Conservatori al posto dei Socialisti. Si tratta però di uno scenario tutt’altro che probabile: sia dal punto di vista dei numeri sia per la reticenza, da parte di alcuni membri di Renew Europe, di legarsi alla destra conservatrice. Il massimo a cui può puntare il governo, quindi, è approvare la ratifica del MES sperando che nessuno ci presti attenzione. 

Immagine in anteprima: frame video ANSA

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